L’avverbio

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Fondamenti di grammatica per aspiranti scrittori

Con lo scorso mini-ripasso abbiamo concluso il nostro lungo discorso sulle preposizioni. Poiché avevamo tirato in ballo gli avverbi, a proposito delle preposizioni improprie, oggi ne approfittiamo per approfondire meglio la loro conoscenza.

«L’avverbio è una parte del discorso invariabile che serve a modificare, graduare, specificare, determinare il significato della frase».[1]

Di norma l’avverbio occupa una posizione prossima alla parola o al gruppo di parole che vuole determinare. In genere si tende a porlo o prima dell’aggettivo o dopo il verbo: «davvero carino»; «dormire profondamente». Anticipare la posizione dell’avverbio rispetto al verbo è possibile, e l’effetto che si crea è quello di rilievo enfatico: «molto si prodigò per il bene della patria» [Serianni]. Quando si riferisce a un’intera frase, allora la sua posizione è mobile. Ad esempio se dicessimo: «Giovanni astutamente convinse tutti» il significato della frase non cambierebbe spostando l’avverbio al suo principio: «Astutamente Giovanni convinse tutti», o alla fine: «Giovanni convinse tutti astutamente» [esempi del Serianni].


Socing, bipensiero e neolingua

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Le spire del complottismo

«Nell’intero corso del tempo,
forse a partire dalla fine del Neolitico,
sono esistiti al mondo tre tipi di persone:
gli Alti, i Medi e i Bassi».

– Emmanuel Goldstein

Ricorderete certamente l’incipit di uno dei più famosi libri della teoria del complotto: Teoria e prassi del collettivismo oligarchico, di Emmanuel Goldstein. Ne parleremo meglio dopo. Per il momento voglio concentrarmi su altri due autori: George Orwell e David Icke. Nel suo celebre 1984, George Orwell ci presenta un mondo diviso in tre superpotenze continentali che si distinguono fra loro più dal nome e dai colori della bandiera che dai contenuti e dai mezzi di coercizione adottati per inibire le libertà individuali. Per spiegare i pericoli verso cui un mondo impazzito come il nostro potrebbe marciate in futuro, Orwell adopera tre parole: socing, bipensiero e neolingua.

Cos’è il socing? Secondo Orwell è una dottrina politico-sociale attraverso la quale si nega l’uguaglianza fra gli individui, si promuove un’organizzazione della società rigidamente piramidale e si annulla qualsiasi forma di libero pensiero. Sempre secondo Orwell, il socing è la naturale evoluzione del socialismo e di ogni movimento intellettuale e politico di sinistra. Il mondo, diceva Orwell nel 1949 – data di pubblicazione del romanzo, va verso una divisione geopolitica in tre superpotenze: l’Oceania, l’Eurasia e l’Eustasia. Tre continenti che si combattono senza prevalere mai, in una perenne guerra di confine, con risvolti a volte fortunati altre sfortunati, perché in fondo: «La guerra è pace».


I tre atti di una storia

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La regola del tre

Che siate scrittori di racconti o romanzi; sceneggiatori, drammaturghi o narratori; perfino semplici cronisti; dovete sapere che qualsiasi cosa stiate scrivendo, quella è divisa in tre parti: incipit, svolgimento e conclusione. Qualsiasi storia, se viene narrata, sarà raccontata rispettando questa partizione. Un vecchio detto dei tempi della commedia tardo settecentesca recita: «Digli cosa stai per fare, fallo, poi digli cosa hai fatto». Sembra ripetitivo ma è un modo molto efficiente di raccontare una storia. Tuttavia c’è un modo più efficace di dire questa cosa: nel primo atto fai un nodo, nel secondo un fiocco, nel terzo scioglili. Il segreto della narrativa, in ogni sua forma, è tutto qui.

Qualsiasi storia al suo esordio ha la necessità di chiarire la propria natura, creando col lettore/spettatore un legame. Man mano che il legame tra fruitore e storia si rafforza, l’esigenza che egli ha di partecipare emotivamente sarà sempre più forte. Fino a un punto di rottura, oltre il quale è necessario uno scioglimento. I tre atti servono all’autore per accompagnare il proprio interlocutore attraverso questo percorso. Se il vostro scopo è far provare delle emozioni al lettore, allora non potete sottrarvi a questa struttura. Il rischio è il fallimento.

Ogni storia in fondo deve avere un inizio, uno svolgimento e una fine; solo che il modo in cui essa è ripartita non è casuale o indifferente. Questa ripartizione ha un legame molto diretto con ciò che vorreste far provare al lettore/spettatore. Ogni viaggio comincia con un progetto, a cui segue un tragitto e termina con una destinazione. Nessun viaggio è un viaggio se viene a mancare una di queste tre componenti. Nella narrativa vale la stessa cosa: fai un nodo, fai un fiocco, poi scioglili.


Preposizioni improprie

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Fondamenti di grammatica per aspiranti scrittori

Con lo scorso lunedì abbiamo terminato la lunga carrellata sulle preposizioni proprie o semplici, oggi portiamo a termine il nostro discorso occupandoci delle preposizioni improprie. Ricordo, per chi non avesse seguito i precedenti mini-ripassi, che la distinzione tra preposizioni proprie e improprie risiede nel fatto che queste ultime possono essere adoperate oltre che come preposizioni anche come avverbi, aggettivi, verbi. Quello degli avverbi adoperati con funzioni preposizionali, ad esempio, è un gruppo piuttosto consistente, come gli avverbi di luogo: sopra/sotto, davanti/dietro, dentro/fuori, vicino/lontano. Ma come facciamo a distinguere le due funzioni fra loro?

«La parola adoperata in maniera assoluta modifica semanticamente tutta la frase, e dunque esercita funzione avverbiale».[1]

Dove la parola, pur di natura avverbiale, mette invece in rapporto due componenti della frase, allora il suo valore è «sintatticamente vincolato» a una costruzione preposizionale. In questo caso la sua posizione sarà fissa: prima del determinatore e dopo il determinato; e la sua «autonomia semantica» sarà condizionata dal significato delle parole che mette in relazione. Ad esempio: «quando lo vidi in casa, entrai subito dentro» (funzione avverbiale); «quando lo vidi, entrai subito dentro la casa» (funzione preposizionale) [entrambi esempi del Serianni].


Vendere racconti a una rivista cartacea

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In Italia se ne sente l’esigenza

Charles Bukowski, Erskine Caldwell, John Cheever, Junot Díaz, James T. Farrell, Joseph Heller, J. D. Salinger, Tennessee Williams, Richard Wright, Truman Capote, Norman Mailer: ciascuno di loro ha spinto i primi passi nel mondo dell’editoria pubblicando il primo racconto su Story, un magazine newyorkese fondato nel 1931 da Whit Burnett e la sua prima moglie, Martha Foley; naturalmente dietro compenso. Nomi leggendari della letteratura nord-americana, concorderete con me. Ad esempio uno dei primi romanzi che ho visto leggere a mia madre, quando da bambino cominciavo con fatica a tradurre le mie prime parole scritte e quindi i titoli dei libri che circolavano per casa, è stato I duri non ballano di Norman Mailer; lo ricordo come fosse oggi.

Non deve sorprendere, la letteratura a stelle e strisce ha una lunghissima tradizione di questo tipo. Quasi tutti i più grandi autori che possono vantare gli Stati Uniti nell’ultimo secolo, e quindi i più letti nel mondo, hanno cominciato la propria carriera vendendo racconti a riviste cartacee. Non sono i soli. Altri esempi? Philip Roth, Alice Munro, Haruki Murakami, Vladimir Nabokov, John Updike e di nuovo J. D. Salinger che, se non proprio il primo, sono riusciti a farsi conoscere dal grande pubblico pubblicando racconti sul New Yorker, un famigerato magazine fondato da Harold Ross e sua moglie Jane Grant nel 1925; magazine che ha svolto negli anni un ruolo particolarmente importante per lo sviluppo della letteratura contemporanea. Naturalmente dietro compenso.