È capitato a tutti almeno una volta nella vita di prendere una decisione d’impulso, istintiva, viscerale, magari con fare un po’ sborone, come direbbe qualcuno, pensando di essere dalla parte giusta della barricata, il lato forte di un’alleanza che non è più tale, per poi vedere le sorti esattamente ribaltate rispetto a come ce l’eravamo immaginate. È questo che deve aver pensato Federico Motta la mattina del 18 maggio 2017, quando le code davanti ai botteghini del Lingotto Fiere, in occasione del Salone Internazionale del Libro di Torino (di Torino!), diventavano prima una serpaia disordinata, poi una fiumana indistinta, quindi un’oceano sconfinato di voci, volti, colori.


Ricorderete certamente l’incipit di uno dei più famosi libri della teoria del complotto: Teoria e prassi del collettivismo oligarchico, di Emmanuel Goldstein. Ne parleremo meglio dopo. Per il momento voglio concentrarmi su altri due autori: George Orwell e David Icke. Nel suo celebre 1984, George Orwell ci presenta un mondo diviso in tre superpotenze continentali che si distinguono fra loro più dal nome e dai colori della bandiera che dai contenuti e dai mezzi di coercizione adottati per inibire le libertà sociali. Per spiegare i pericoli verso cui un mondo impazzito come il nostro potrebbe marciate in futuro, Orwell adopera tre parole: socing, bipensiero e neolingua.


La copertina, tuttavia, è la prima superficie del libro che il lettore guarda, sfiora, annusa… La copertina non custodisce solo il contenuto del libro: essa crea un primo contatto intimo con il lettore. Poggiata sul comodino, accanto al letto, la copertina è l’ultima cosa che vediamo prima di addormentarci; è la prima quando ci svegliamo; è la prima porzione di un libro che tocchiamo. Sfiorare una copertina di un libro è come sfiorare la pelle di una donna (o di un uomo, se è di vostro gusto…). Il suo ruolo, quindi, può, e forse deve, essere maggiore di quello relegato a semplice strillone.