Tre parole chiave

AGAINST MAFIA DEMO - PROTESTA CONTRO LA MAFIA

Mafia, camorra e omertà

Si legge in un fortunato saggio di Leonardo Sciascia, La storia della Mafia, che il primo vocabolario siciliano in cui compare questa parola è quello del Traina: «importata in Sicilia dai piemontesi, cioè dai funzionari e soldati venuti in Sicilia dopo Garibaldi, ma proveniente forse dalla Toscana dove maffia (due effe) vuol dire miseria e smàferi vuol dire sgherri»[1] – era il 1868.

Il significato che ne dà il Traina però, non è quello che ci aspetteremmo oggi, dopo tanta fiction, è cioè di un picciotto agli ordini di un’organizzazione malavitosa ben radicata sul territorio né della struttura stessa di suddetta cosca [tra l’altro lo Sciascia ci ricorda che cosca è la corona di foglie del carciofo]; ma piuttosto con questo termine si indica un prototipo umano – il siciliano – il quale ha sì atteggiamenti da sgherro, baldanza e prepotenza, ma è anche un miserabile:

«[…] miseria vera è credersi un grand’uomo per la sola forza bruta, ciò che mostra invece gran brutalità, cioè l’essere gran bestia».[2]

Per il Traina, quindi, il termine mafia indica solo: «apparente ardire, sicurtà d’animo»; cioè un modo di essere, una caratteristica ancestrale dell’uomo siciliano. Non è il solo.

Dopo di lui anche il palermitano Giuseppe Pitrè, «uno dei maggiori etnologi europei dell’Ottocento»[3], fa coincidere il termine mafia con un modo di essere piuttosto che con un’organizzazione criminale con fini anti-statali.

«La mafia non è setta né associazione, non ha regolamenti né statuti. Il mafioso non è un ladro, non è un malandrino; e se nella nuova fortuna toccata alla parola, la qualità di mafioso è stata applicata al ladro, e al malandrino, ciò è perché il non sempre colto pubblico non ha avuto tempo di ragionare sul valore della parola, né s’è curato di sapere che nel modo di sentire del ladro e del malandrino il mafioso è soltanto un uomo coraggioso e valente, che non porta mosca sul naso, nel qual senso l’esser mafioso è necessario, anzi indispensabile. La mafia è la coscienza del proprio essere, l’esagerato concetto della forza individuale, unica e sola arbitra di ogni contrasto, di ogni urto d’interessi e d’idee; donde la insofferenza della superiorità e peggio ancora della prepotenza altrui. Il mafioso vuol essere rispettato e rispetta quasi sempre. Se è offeso non si rimette alla legge, alla giustizia, ma sa farsi personalmente ragione da sé; e quando non ne ha la forza, col mezzo di altri del medesimo sentire di lui».[4]

Il mafioso vuol essere rispettato e rispetta quasi sempre. La mafia è la coscienza del proprio essere, e quindi arbitra di ogni contrasto. Essere mafioso è necessario in certi ambienti. Ma è necessario anche nella vita più in generale, contro i soprusi e le prepotenze dei potenti; potenti che arrivano da fuori, dal Piemonte ad esempio e, prima ancora, dal Regno di Napoli – dai Borboni. Rispetto al Traina, il Pitrè toglie alla parola mafia la brutalità e prepotenza che questo gli assegnava, che invece riserva agli “altri”, attribuendogli invece i connotati del coraggioso che non si piega alle angherie per un senso forse eccessivamente spiccato di libertà.

L’uomo siciliano, o dovremmo dire, l’Uomo siciliano è quindi un individuo che pone molta importanza al decoro e al rispetto, lo porta e lo pretende; dotato di un profondo amor proprio che, in comunione con l’orgoglio che ne è figlia legittima, lo spinge a rispondere sempre a un affronto e a non ricorrere all’aiuto delle autorità, ma a farsi le proprie ragioni da sé.

Per estensione, la parola omertà non indica il silenzio cauto del timoroso – timore, ad esempio, d’essere bersaglio di rappresaglie – ma dell’orgoglioso: l’uomo siciliano non parla, non si confida: agisce! E quando non può agire, quando non è sufficientemente forte, ricorre all’aiuto di altri Uomini che la pensano come lui. La parola omertà infatti deriva dalla radice uomo, uomo per eccellenza, cioè: «che virilmente risponde da sé alle offese senza ricorrere alla giustizia statale»[5].

A ribadire il concetto dell’«ipertrofia dell’io» è anche un giurista siciliano, Giuseppe Maggiore, e come lui tanti altri: politici, magistrati, storici e letterati. Col tempo però, forse anche con una certa superficialità tipica di chi guarda da fuori e non comprende appieno ciò che vede, alla parola mafia sono state date molte altre valenze: essa indica un’organizzazione malavitosa con una mente pensante a Palermo ma radicata in Sicilia e in America, ma indica anche, più in generale, ogni forma di criminalità organizzata: quella marsigliese, quella giapponese, quella cinese, e via dicendo; con mafiosi si indicano i sicari ma anche i politici corrotti – non sempre però corrotti dalla Mafia; con mafiosi si cerca di delegittimare la controparte politica, o un imprenditore concorrente; si indica, infine, anche un certo atteggiamento: di chi briga, di chi fa cose losche, di chi media al di fuori dei confini della legalità, come ad esempio le lobbi.

«La mafia è un’associazione per delinquere, con fini di illecito arricchimento per i propri associati, che si pone come intermediazione parassitaria, e imposta con mezzi di violenza, tra la proprietà e il lavoro, tra la produzione e il consumo, tra il cittadino e lo Stato».[6]

Questa era la definizione che ne dava Sciascia. Definizione che pare trovi riscontri anche negli USA, dove la collusione tra mafia e sindacato è da sempre un cavallo di battaglia holliwoodiano. Con mafia quindi si indicano tante cose, anche molto diverse fra loro; troppe cose, forse.

«Mentre prima si aveva ritegno a pronunciare la parola “mafia” […], adesso si è persino abusato di questo termine […]. Non mi va più bene che si continui a parlare di mafia in termini descrittivi e onnicomprensivi perché si affastellano fenomeni che sono sì di criminalità organizzata ma che con la mafia hanno poco o nulla da spartire».[7]

Giovanni Falcone

Nel tentativo di dare una maggiore precisione ai termini, ché nominare le cose con un nome specifico è sempre il primo passo della conoscenza e quindi della consapevolezza, a un certo punto è stato tirato fuori il termine camorra. Anche questo ha precedenti storici nobili, dignitosissimi; che non approfondiremo. Basti dire che, per essere più puntuali, Camorra venne utilizzato per indicare l’organizzazione mafiosa regionale sita in Campania, Cosa Nostra quella Palermitana e, per non togliere meriti a nessuno, ‘ndrangheta quella calabrese; e con mafia, più in generale, si fa corrispondere l’illecita comunione settaria con fini di arricchimento per gli associati che, con mezzi violenti ma non solo, agisce al di fuori della legalità.

Eppure per la strada ci siamo persi qualcosa, tanto che questo accomodamento lessicale un poco fazioso poco mi convince. Ci siamo persi ad esempio la sicilianità, che non per forza va vista in chiave negativa ma che, nel senso descritto all’inizio di questo articolo, ha certamente origini ancestrali e feudali. Sentimento, quello del siciliano, dell’omertoso, dell’uomo vero arcaico, che possiamo ritrovare tanto in Sicilia, quanto a Napoli, Roma e in ogni luogo dove la durezza della vita, la povertà e l’ignoranza – oltre che un certo retaggio, appunto, antiquato e oggi rozzo, poco evoluto, incapace di adeguarsi a un vivere democratico – costringono l’uomo ad atteggiamenti duri, crudeli, spietati perfino per sopravvivere e non piegarsi, ché piegarsi è morire.

Ci siamo persi anche l’origine della parola stessa – mafia – che si ritrova per la prima volta in una commedia, I mafiusi de la Vicaria, scritta da Giuseppe Rizzotto nel 1862: «ambientata nel 1854 tra i camorristi detenuti del carcere palermitano»[8], la Vicaria appunto. Come si vede le cose sono più complesse di così, e a volte si confondono.

Dunque, anche se non sono nessuno, proporrei di lasciare ai termini mafioso e omertà la loro accezione originale descritta dal Pitrè, ché ladri e malandrini devo per forza essere più mafiosi dell’uomo comune ma non per questo fanno parte della Mafia, e attribuirei nomi specifici alle specifiche organizzazioni criminali: Cosa Nostra (Sicilia occidentale), Sistema (Napoli), Onorata Società (Calabria), Sacra Corona Unita (Puglia). In fondo le multinazionali non hanno forse nomi specifici?

Questa di attribuire nomi non è una semplice pratica battesimale, essa ha invece un’importanza fondamentale; soprattutto se si pensa che in Italia esiste il crimine di associazione mafiosa. Basta essere un gradasso orgoglioso, magari un poco smargiasso, per finire in galera? Come dice Salvatore Lupo: «Se tutto è mafia, nulla è mafia».

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Note

[1] Leonardo Sciascia, La storia della Mafia, Barion 2013

[2] Antonio Traina, Nuovo Vocabolario Siciliano – Italiano, Palermo 1868 cit. in Sciascia

[3] Salvatore Lupo, Storia della Mafia, Donzelli 2004

[4] Cit. in Sciascia

[5] Cit. in Lupo

[6] Cit. Sciascia

[7] Una nuova fase della lotta alla mafia. Intervista con Giovanni Falcone, in «Segno» 1990 – cit. in Lupo

[8] Cit. in Lupo

39 Comments on “Tre parole chiave”

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  2. Non so se possa esseri utile per le tue ricerche:
    “Sei pazzo, figlio mio! Andare a mettersi con quella gente!, Sono tutti mafiosi e
    imbroglioni. Un Falconeri dev’essere con noi, per il Re.”

    (Giuseppe Tomasi di Lampedusa – Il Gattopardo)

    Poi una ricordo più personale: mia nonna sosteneva che mafia significhi morte ai francesi facendone risalire l’origine addirittura ai vespri siciliani però non ho mai trovato nulla a supporto di questa tesi.

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      • Occhio con i francesi…
        Che ogni volta occorre chiedere a un francese: dici ciciru.
        E lui risponde: cicerò.
        E zacchete, occorre ucciderlo.
        Comunque io ritengo la ribellione del Vespro (esaltata da tutti) come una delle pagine più buie della Sicilia. Tanto è vero che ogni volta che leggo “vespro” mi viene l’orticaria.
        E ti lascio immaginare che adesso mi sto grattando. 😀

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  3. Purtroppo non è facile recuperare il senso originario della parola mafia e del suo conseguente aggettivo. Io stessa,che riconosco tutte quelle caratteristiche di orgoglio, fierezza, amor proprio nel siciliano, dovessi sentirmi dire “mafiosa” mi offenderei, nella certezza del cattivo e ignorante utilizzo che ne verrebbe fatto. Un’ignoranza giustificata dal modo in cui il concetto è stato tramandato e si è stratificato nell’immaginario di generazioni intere. Del resto anche il fenomeno “mafia” nasce come ribellione dei contadini, dunque come forma di protesta legittima, che nulla aveva a che vedere con la piega presa poi in seguito, con i vari personaggi che ben conosciamo (i vari Riina, Provenzano, ecc. ecc.)
    Anche l’omertà ha assunto un’accezione negativa, come forma di silenzio ostinato che copre malefatte, quando l’omertà nasce come condotta rispettosa di certi silenzi necessari.
    Io, per esempio, sono omertosissima in molti casi, ma non per questo mi sento mafiosa. 😉

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    • Dici delle cose molto giuste, Marina. Torneremo sull’argomento nelle prossime settimane, per approfondirlo. Oggi ne approfitto solo per sottolineare come il Pitrè indicasse nei suoi studi un uso comune del termine mafioso e mafiosetta per indicare individui fieri, ribelli ma con un’accezione positiva. Pescando nei miei ricordi d’infanzia, anche mio nonno utilizzava questo aggettivo con una mia cuginetta dal carattere discolo, ma sempre con un’accezione bonaria.

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  4. Se si guardano con attenzione le cartine geografiche, ci si rende conto che le capitali delle nazioni europee, si trovano pressoché al centro del loro territorio. Molto dipende anche dalla conformazione geografica (fiumi, laghi, montagne), ma Roma, Parigi, Lisbona, Madrid, bene o male si trovano in una collocazione intermedia nella propria nazione. Fanno eccezione Berlino. Ma se a Berlino aggiungessimo la perduta Prussia orientale sarebbe lì. Fa eccezione Vienna. Ma se a Vienna aggiungessimo il regno austroungarico idem.
    Lo stesso vale per i capoluoghi di regione. Roma è al centro del Lazio e bene o male lo sono anche Napoli, Firenze, Milano etc…
    Lo so, dirai, ma hai sbagliato post. No, non l’ho sbagliato. Semplicemente la Sicilia posta al centro del Mediterraneo poteva avere due destini. O conquistare l’intero bacino creando un suo mare nostrum, oppure essere vittima e preda di ogni tipo di popolo invasore.
    E la Sicilia con un periplo di costa indifendibile è stata vittima di ogni popolo invasore. Il sangue di noi siciliani è un frammisto di sicani, greci, cartaginesi, romani, bizantini, arabi, normanni, francesi, spagnoli e chissà quanto altro.
    E nel nostro essere vittima dell’invasore di turno siamo diventati un popolo poliedrico. Con tanti input, con tante tradizioni, con tante contraddizioni. Come dice Bufalino da noi esiste la luce e il lutto. Dall’orrore della mafia più spietata dei tempi recenti all’eroismo estremo dei giudici e delle forze dell’ordine cadute per il valore supremo della giustizia.
    Siamo stati un popolo vittima di tante angherie, di tante e troppe prepotenze. Abbiamo sviluppato il nostro senso fatalistico, di un destino ineluttabile che prima o poi cambia nell’immutabile solo per ritornare come prima. Munnu a statu e munnu iè = mondo è stato e mondo è.
    Nel nostro piccolo di siciliani siamo discriminati. Non è raro, appena si mette fuori il naso dalla nostra isola, in Italia e all’estero, sentirsi dire: ah siciliano? Mafia.
    Pertanto, la filologia del termine mafia è interessante, ma come accade nella storia, non contano le origini delle parole, ma il senso ultimo, quello del proprio tempo.
    Il termine mafia è vero, è nato dal sentire orgoglioso (o forse necessario) di un popolo che non poteva contare per farsi giustizia sui governanti francesi o spagnoli di turno. Occorreva agire da soli, o insieme. Ma ormai il termine mafia ha conseguito una connotazione negativa.
    Nel mio romanzo, per quanto possa essere un frivolo giallo, io provo a entrare a gamba tesa dentro queste connotazioni. Provo a riscrivere e a rigenerare la storia della Sicilia dentro una piccola isoletta. Metafora della Sicilia e del popolo siciliano intero. Perché l’unico modo, l’unico deterrente contro la mafia e la corruzione e il marcio imperante è la sicilianità stessa. L’esaltazione della sicilianità è il nostro anticorpo contro il male. Basta leggere il libro di Falcone, Cose di Cosa Nostra, dove lui si contrappone alla mafia, proprio attraverso un sentire propriamente siciliano.
    E questo è ciò che hanno fatto tutti i grandi scrittori siciliani. Basta leggere Verga, Capuana, Pirandello, Brancati, Vittorini, Lampedusa, Sciascia, Camilleri, per cogliere in tutte le salse l’esaltazione in ogni aspetto della sicilianità.

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  5. non so come, non so perché, ma ci leggo tanto uno studio approfondito per la stesura del tuo romanzo. Sappi che adoro Sciascia, quindi mi tengo pronta per leggere quanto uscirà. Per altro al solito argomento molto interessante oggi sul tuo blog, occhio che viene voglia di copiarti!

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  6. Io ricordo solo che lunedì ricomincia Montalbano, uno dei pochi motivi che mi spingono a pagare il canone della rai… 😀

    P.S.: troppo dissacratorio come commento? Ma è venerdì, siate magnagngiignimi, insomma abbiate un po’ di magnanimità… 😛

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  7. Aspetta a dire che ti diverti. Sono seria, ora. Di solito sono la burlona, ma solo se voglio, che è diverso. Traspare meno la parte più severa di me, ma non sono molto brava a esprimermi in generale. Quindi a volte può essere frainteso il mio modo giocherellone.

    Ammiro questa tua maniacalità di precisione nel trovare materiale nella stesura del romanzo.
    Non so se questi approfondimenti siano solo per scrivere, la mia sensazione è quella di andare a ricercare anche cose personali tipo la tua “sicilianità”. Io ci vedo qualcosa di più profondo.

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  8. Ho letto il post ieri ma commento oggi, sono il tuo bradipo dei commentatori 😉
    Allora chiamiamo tutti con il loro nome, aimè la sostanza non cambia. Certo che anche il concetto di mafioso del Pitré non è del tutto positivo: il coraggioso che per uno spiccato senso di libertà e giustizia non si piega alle angherie e tende a farsi le proprie ragioni da sè e agisce; sul come possa agire forse si basa la differenza. Buon sabato!

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  9. Riflessioni importanti: dare un nome a qualcosa non è una bazzecola, perché il nome deve identificare la cosa; se si genera confusione il nome ha persa la sua funzione primaria. Non parliamo poi dei casi in cui il nome viene dato al solo fine di nascondere o mischiare le carte: mi torna in mente il caso della peste nei “Promessi sposi”, che prima non poteva essere chiamata peste; poi “febbri pestilenziali”; poi “non vera peste, ma qualcosa che vi assomiglia e alla quale non si riesce a trovare un nome; poi, finalmente, peste”. Qui siamo al caso opposto: il nome è stato dato, ma è diventato sempre più generico e ha perso di significato, un’altra situazione che può verificarsi.

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