I confini di questa realtà posticcia sono definiti da quell’idea secondo cui ai fatti si sostituiscono le interpretazioni. Non è solo una questione di prospettiva – o di soggettivismo: «il ‘soggetto’ non è niente di dato, è solo qualcosa di aggiunto con l’immaginazione»[3] – ma di bisogni, poiché sono proprio essi a interpretare il nostro mondo. L’illusione, la finzione, è creata dalla necessità. Questo per dire che il postmodernismo non è follia; esso risponde a una esigenza.


Era il 1982. Nelle sale cinematografiche viene proiettato questo film. Ricade sotto la dicitura di genere: documentario. Niente di più falso, Koyaanisqatsi è un’opera d’arte postmoderna. Se dopo la visione non ne sei ancora convinto, caro follower – e mi chiedo a questo punto che mi segui a fare allora –, ti basti andare a guardare chi è l’autore della colonna sonora che accompagna il film per tutta la sua durata (1 ora e 22 minuti): Philip Glass. Il regista è Godfrey Reggio. Il film è il risultato di 6 anni di riprese e montaggi.


[…] Ma in un mondo in cui si è visto e fatto tutto; un mondo in cui l’unico approccio possibile è di tipo superficiale – perché, come dice Baricco, non si possono leggere tutti i libri scritti nel mondo e in ogni epoca –; un mondo in cui anche l’arte ha perso il contatto con lo stile perché un computer e una stampante 3D posso creare oggetti perfetti come nessuna mano umana è in grado di fare; in un mondo così, anche il contenuto evapora e con esso l’intreccio e lo stile.