Arriva sempre un momento nella vita in cui ci si guarda indietro e si osserva la strada percorsa. Io alle mie spalle vedo molte cose: tornanti, ostacoli, desideri… ambizioni. Queste ultime pesano un po’ di più. Sono disseminate come piccole pietre che rendono il sentiero accidentato. Uno in particolare è un grosso sasso. Me lo ritrovo sempre tra i piedi. Per molti anni ho cercato d’ignorarlo, ma all’età di 37 anni ci inciampo ancora contro. Gli ho anche dato un nome, si chiama: scrittura.
Volgendo gli occhi ancora più indietro e aguzzando un po’ la vista vedo me ancora bambino. Non so leggere ma tengo già in mano dei libri. Non ricordo quali fossero, ma ricordo che desideravo leggerli e non saperlo fare mi suscitava frustrazione. I miei genitori, poveri di scuole ma ricchi di libri, li leggevano per me. Ho imparato così.
Provo a fare un ulteriore sforzo. Chiudo gli occhi e rivedo me qualche anno dopo. Ne avevo dieci questa volta. È il periodo natalizio. Siedo su una poltrona e sfoglio un catalogo di giocattoli, ballando una gamba per l’eccitazione. Mi fermo a guardare una macchina da scrivere. È di plastica, bianca e rossa, per metà elettronica e per metà meccanica: bella da morire. Fu un buon Natale.
Quando arrivò tra le mie mani, la tirai fuori dalla sua confezione e mi sedetti sulla stessa poltrona. Inserii le batterie e infilai un foglio. Poi stetti lì a guardarla. Le mani erano pronte a battere sui tasti, ma la mente vuota. Tutti prima o poi si pongono questa domanda: “Adesso, cosa scrivo?”. Alcuni rispondono e diventano scrittori, altri non ci riescono e diventano qualcos’altro.
La prima cosa che scrissi fu un manualetto sull’arte di navigare. Confondevo la prua con la poppa e non mi era ancora ben chiaro il concetto di “ammainare le vele”, ma fu il mio primo lavoro. Lo scrissi tutto da solo e soprattutto lo portai a termine.
Un paio di anni dopo, ne avevo dodici, i miei genitori si separarono. A me arrivò una macchina da scrivere di quelle vere: una Olivetti con il coperchio in plastica rigida, dotato d’impugnatura per portarla a spasso. E in effetti, anche se pesava molto, me la portavo dappertutto. Con l’Olivetti scrissi i miei primi veri racconti: robaccia, ovviamente.
Usavo un dito alla volta e continuavo ad alzare gli occhi dai tasti al foglio. Ogni tanto sbagliavo e strappavo via tutto. Ma era bello scrivere, mi piaceva. Soprattutto, non era ancora diventata una frustrazione. Scrivevo seduto sulla poltrona, con la macchina pesante sulle gambe. Il primo racconto era qualcosa in stile Conan il barbaro.
Quando il guerriero, arrivando in un villaggio, incontra il secondo personaggio della storia – una donna che pesca acqua da un pozzo – la descrizione che feci di lei fu ai limiti del pornografico. Gli ormoni avevano iniziato a sfrecciare facendo lo slalom fra i globuli rossi. I miei amici fecero carte false per leggere quel racconto, passandoselo a vicenda. Ho il sospetto che agitò le notti di qualcuno di loro.
Ecco, tutto inizia lì. Dove quel dannato sasso si è formato. In origine era un granello di polvere. Poi è cresciuto. Ho il sospetto che non smetterà mai di farlo. Quindi mi ritrovo qui, seduto davanti a un computer, cercando la strada migliore per levarmelo di torno. E l’unico modo a cui riesco a pensare, è di scrivere ancora.
Anch’io ho qualche sassolino nella scarpa. Nulla a che fare con la scrittura. Bell’articolo. 🙂
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Grazie Ribelle, è sempre un piacere e benvenuto in questo mio nuovo blog! 🙂
Vuoi dirci quali sono i sassolini che ti porti dietro?
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Chi non ha sassolini che danno fastidio? C’è però chi decide di allevarli con cura, dandogli pure un nome e chi invece decide di affrontarli di petto.
Sono felice che tu abbia deciso per la seconda opzione. Anche se questo comporta non pochi sacrifici!
In bocca al lupo in questo nuovo percorso!!
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Grazie tesoro. 🙂
Ci provo ad affrontare questo granello di polvere diventato ormai un grosso sasso. Se non lo faccio, rischio che diventi una montagna e poi chi la scala? 😛
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