Piet Mondrian Notte Estiva 1906

Fondamenti di grammatica per aspiranti scrittori

Con il precedente articolo dei mini-ripassi grammaticali, quello sui complementi indiretti, abbiamo concluso il nostro breve, brevissimo excursus attraverso l’analisi logica; cioè attraverso quegli elementi che contribuiscono a formare una frase di senso compiuto in tutte le sfaccettature che la nostra lingua ci mette a disposizione. Oggi questi elementi cominciamo ad analizzarli singolarmente e lo facciamo partendo dal sostantivo.

Il nome

Il sostantivo (o nome) è una parola che ha la funzione di indicare, nominandole, le cose che ci circondano: persone, animali, oggetti, concetti, fenomeni. Non stiamo parlando quindi del nome proprio di una persona, non solo; ma di tutti i nomi del mondo: bambino, pulcino, martello, giustizia, fulmine, cattedrale, e via dicendo.

Nessun idioma, per quanto peculiare possa essere la sua grammatica, è privo di questa funzione. La facoltà di indicare le cose attribuendogli un nome è primaria in qualsiasi lingua e risale ai primordi più oscuri della capacità di comunicare con altri esseri della propria specie. Una funzione quindi sviluppata piuttosto presto nel lungo percorso evolutivo che ha portato alla formazione di un linguaggio stabile. Classificare il mondo significa sostanzialmente attribuire un nome a ogni cosa. Anche i nomi propri rientrano in questa funzione e fin dalla prima infanzia il nome che ci viene attribuito ci classifica, individuando per noi una collocazione precisa nel contesto famigliare e sociale.

«In italiano e nelle lingue romanze il nome è formalmente contraddistinto da una propria flessione grammaticale, che comprende la distinzione singolare/plurale (numero) e quella maschile/femminile (genere)».

Luca Serianni, Grammatica italiana, UTET 1989

Quindi il nome è uno di quegli oggetti grammaticali che abbiamo definito variabili, perché possono mutare il suffisso per adattarlo alle esigenze comunicative. La sua flessibilità permette di indicare il numero e il genere riguardanti l’oggetto nominato. Non è sopravvissuto invece, nel passaggio dal latino all’italiano, il genere neutro, che pur esiste in lingue come il russo e il tedesco: «[…] già il latino più tardo andava progressivamente eliminando (il genere neutro, ndr) a favore del maschile e del femminile» [Pavao Tekavčić, Grammatica storica dell’italiano, Il Mulino 1972]. Non mi addentrerei oltre però. Restiamo all’italiano.

I nomi propri e i nomi comuni

I nomi vengono tradizionalmente suddivisi in due categorie: i nomi propri e i nomi comuni. Si possono definire “propri” quei nomi che identificano uno specifico individuo o esemplare all’interno di una specie o categoria. Quindi con Machiavelli indichiamo uno specifico individuo all’interno della nutrita razza umana; un machiavello, invece, è uno stratagemma, una trovata astuta e subdola. Una medusa è una «forma liberamente natante degli Cnidari, configurata a ombrella e orlata di tentacoli» [Devoto-Oli]; ma se parliamo di Medusa, allora intendiamo un essere specifico: una delle tre Gorgoni. Ecco, ad esempio, a cosa serve la regola grammaticale sull’uso obbligatorio delle maiuscole per i nomi propri: per distinguere un nome proprio da un omonimo comune.

I nomi comuni, invece, si riferiscono e identificano tutti i membri di una stessa specie o categoria: formica, tavolo, bosco, donna, ecc.  Tra questi, si definiscono collettivi quei nomi che designano un gruppo di individui: popolo, folla, mandria, sciame, stormo, reggimento, eccetera. «Uno stesso nome può venir considerato in momenti, luoghi, e presso gruppi sociali diversi come proprio o comune» [Serianni].

Numerosi nomi comuni, nell’italiano moderno, derivano da nomi propri: algoritmo, ad esempio, deriva dal nome del matematico arabo Al-Huwārizmī. Caratteristico, ci ricorda il Serianni, l’uso che spesso si fa del nome di un artista; non solo per indicare la sua opera nel complesso («questa similitudine si trova in Dante»), «ma anche quando ci si riferisce ad un esemplare individuale (ad esempio: “ammirare un Tiziano” […]), o ancora a un semplice esemplare a stampa di un’opera letteraria: nel Cinquecento ogni uomo di lettere che si rispettasse viveva “co’l petrarchino in mano” (Caro), cioè con un volumetto stampato in formato tascabile del Canzoniere petrarchesco sempre a portata di mano».

Nomi concreti e nomi astratti

Un’altra distinzione possibile è quella tra nomi concreti e nomi astratti. I nomi concreti sono quelli che si riferiscono a tutti quegli “oggetti” direttamente percepibili dai sensi: uomo, cane, tovaglia, coltello, eccetera. I nomi astratti, invece, si riferiscono a dei concetti che la nostra mente può raffigurare solo in senso astratto: amore, libertà, infelicità, gloria, eccetera.

«Ma si tratta di una classificazione da non intendere in senso troppo rigido: non sempre è possibile assegnare un dato nome a questa o quella classe» [Serianni]. Ad esempio, una partenza, un disagio, un’arrabbiatura, una caduta si collocano a metà strada tra i due concetti estremi di concretezza e astrazione. Inoltre un nome astratto a volte può essere usato in accezioni concrete: come celebrità, ad esempio, che può essere intesa in astratto come uno status e in concreto come un gruppo di individui specifici: «le celebrità del cinema hollywoodiano».

Contrapposizione tra nome e verbo

«Il nome, come categoria grammaticale autonoma per formazione e flessione, fin dalla teoria linguistica dell’antichità (che includeva nel nome anche il pronome e l’aggettivo) è stato contrapposto al verbo, il quale si distingueva da esso in quanto indicava un processo, un’azione, situandoli nel tempo».

H. R. Robert, Storia della linguistica, Il Mulino 1981

In diverse altre lingue non esiste una distinzione così netta per la categoria del sostantivo: «la nettezza con cui è sempre stato possibile formulare l’opposizione “nome” / “verbo” è stata in massima parte dovuta all’assetto morfologico delle lingue europee di cultura come il greco, il latino, il tedesco, le lingue romanze, ecc., dove le due categorie sono nettamente contraddistinte e individuabili» [Serianni]. Diversamente dalle lingue sino-tibetane (mandarino, tibetano, birmano, ecc.) e da molti idiomi amerindiani (come la lingua quechua o il guarani), dove: nelle prime, nessun contrassegno morfologico distingue le parole le une dalle altre; nei secondi, una parola può assumere un aspetto verbale o sostantivale in base ad altre parole e suffissi con cui si agglutina.

In italiano, come nella maggior parte delle lingue indeuropee, l’autonomia del nome dalle altre categorie grammaticali è garantita saldamente. Tuttavia, qualunque parola, senza modificare la sua forma, può assumere funzione nominale. In questo caso si parla di: uso sostantivato. Una serie di esempi tratti dalla grammatica del Serianni:

  • Verbo: «il rimembrar delle passate cose» [Leopardi, Alla luna];
  • Avverbio: «quando si veniva a quel punto oscuro della fuga de’ nostri tre poveretti, e del come, e del perché, e del dove» [Manzoni, I promessi sposi];
  • Aggettivo: «con tanta pratica degli uomini e delle cose, con tanto meditare, con tanta passione per il buono e per il bello» [Manzoni, I promessi sposi];
  • Congiunzione: «ma, ci fu un ma» [Viviani];
  • Pronome: «torna a casa, perché i tuoi non abbiano a star più in pena per te» [Manzoni, I promessi sposi];
  • Numerale: «avendo la bocca ancora aperta, per un gran ‘sei’ che n’era scoppiato fuori» [Manzoni, I promessi sposi];
  • Preposizione: «l’infinito retto da ‘desiderare’ non vuole il di».

Conclusioni

Fin qui mi pare tutto facile, tranne forse l’ultima parte. Nel prossimo mini-ripasso ci accentreremo nella funzione di genere, e ne vedremo certamente delle belle visto che spesso è proprio il genere indicato comunemente dai sostantivi a far “ballare le sottane sui tavoli”.

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Note

Luca Serianni, Grammatica italiana, UTET 1989

Pavao Tekavčić, Grammatica storica dell’italiano, Il Mulino 1972

H. R. Robert, Storia della linguistica, Il Mulino 1981

In calce: Notte estiva, Piet Mondrian, 1906

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11 Comments on “Il Sostantivo”

  1. La parte più interessante è quella sulle lingue non europee che mi piacerebbe approfondire prima o poi. In effetti immaginavo che all’origine della lingua non ci fosse distinzione tra sostantivo e verbo, e ciò che hai riportato conferma un po’ la mia teoria (dico mia perchè non avendo studiato la materia…)
    In tedesco il sostantivo si distingue per l’iniziale maiuscola, sempre, senza distinzioni. Poi come già accennavi in tedesco ci sono tre generi, e in genere il genere tedesco non coincide con il genere italiano (die Sonne, femminile – il sole; der Mond, maschile – la luna) (ho scritto genere quattro volte, con questa cinque :P) e poi ci sono i casi, ma questa è un’altra storia 😉

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    • In tedesco la maiuscala la si mette anche in mezzo alla frase? e anche per i sostantivi comuni? Se fosse così, leggere in tedesco è come guardare delle montagne russe: un continuo saliscendi… 🙂

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  2. Pensa che l’arabo ha il maschile e femminile anche dei verbi: “lei guarda”, è diverso da “lui guarda”. Non chiedermi come si dice, però… lo chiedo a mia suocera!

    Per quel che riguarda l’uso dei sostantivi, io cerco di essere più specifica possibile, e ho un’idiosincrasia per il termine “cosa” e tutti gli altri generici, a meno che non sia strettamente necessario. Del resto anche tu, fin dai miei primi post, hai sempre detto che sono molto precisa… è la verità. è una cosa a cui tengo molto. 🙂

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