C’è una quantità di indizi a dir poco sconfortanti che ci indicano un fatto incontrovertibile: se in Africa nasce un genio e nessuno se ne accorge, il mondo non smetterà di ruotare. Dico, Africa. Ma avrei potuto dire Europa, America, Asia, Pizzo Calabro… Forse aveva ragione Umberto Eco a scrivere: «E se il vicino di casa di Proust fosse stato tanto più bravo di lui e nessuno se ne fosse accorto, per lui sarebbe tristissimo, per l’umanità basta Proust, e avanza». Che è come ammettere la fallibilità umana e, anche, un certo disinteresse individualistico di cui noi tutti, soprattutto nella contemporaneità, siamo un po’ vittime e un po’ carnefici; e forse più di un po’.


La memoria, diceva Umberto Eco, ha due funzioni principali. La prima è di contenere. Ovvero fare da contenitore a ricordi non solo propri, ma anche appartenenti a componenti della propria famiglia, della cerchia di amicizie e conoscenze, e della comunità a cui si appartiene. La memoria, come contenitore, ci permette di possedere un’identità. Senza identità saremmo come lo smemorato di Collegno: conteso da due mogli e incapace di scegliere quale vita vivere. La storia, in questo senso, è uno strumento della memoria collettiva. La seconda funzione è quella di filtrare. Sarebbe infatti impossibile contenere tutti i ricordi, tutte le informazioni, nostre e altrui, che andiamo via via accumulando nel corso della vita. Finiremmo per somigliare a quei soggetti affetti dalla sindrome di Asperger: capaci di memorizzare fin nei minimi particolari le molte sfaccettature di un soggetto, ad esempio la pianta di una città, ma incapaci di vivere. Filtrare le memorie, selezionarne alcune e scartare le altre, è quindi una funzione indispensabile per poter vivere pienamente. In questo senso, i classici, sono il risultato di entrambe queste operazioni.

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Chiunque non abbia un dentro abbastanza profondo o conservi storie di cui non vuole narrare per riservatezza; chiunque non sia dotato di abbastanza fantasia o fiducia in se stesso per inventarsele da sé, può forse fare affidamento su un metodo… come dire, un po’ più meccanico. Funziona così: si fanno quattro lunghi elenchi di mestieri, ambienti, azioni e cause, poi si lancia un dado: due volte per la prima colonna, una per le altre. E si osserva ciò che accade, sforzandosi di imbastire un dispositivo drammatico con il materiale a disposizione. In questo gioco c’è una sola regola: qualsiasi cosa esca, per quanto bizzarra possa sembrare, bisogna sforzarsi in ogni modo di tirare fuori un soggetto. Rinunciare e rilanciare non sono azioni contemplate. Vi va di giocare con me?


Di Stile si muore. Lo sanno bene i tanti autori che pur di suffragare la propria singolarità, scelgono di non svendersi alle occorrenze editoriali. Questo, a scapito delle vendite. In libreria un libro che non vende è out. E lo diventa in poche settimane; quasi subito. Un libro scritto con “stile” è quasi certo che non venderà. E un autore che non vende, è bello che morto. Se volete considerarvi scrittori, vi conviene piazzare almeno 1200 copie del vostro prezioso manoscritto già alla sua prima edizione. Meno di così, e non siete niente; anzi, nessuno. Ma perché lo stile non vende? Soprattutto: cos’è lo stile?


Quando si dice: “Il mattino ha l’oro in bocca”, una delle cose che non ti dicono mai è che, di conseguenza, devi anche svegliarti presto. C’è da dire che in Bulgaria la mia sveglia era puntata alle 5 del mattino, e non andavo mai a letto prima della mezzanotte. Sia come sia, ogni scrittore ha una fascia oraria in cui rende di più. In cui la sua materia grigia, per parafrasare Hercule Poirot, è capace di maggiore concentrazione. La concentrazione nella scrittura, come nella vita lavorativa in genere, è tutto. Quella che la maggior parte degli aspiranti scrittori, o degli scrittori “paraculi”, chiama impropriamente ispirazione, non è altro che uno stato di serenità mentale e di benessere generale tale da permetterti di calarti completamente in quello che stai facendo: concentrazione appunto.