Avverbi di giudizio

avverbi di giudizio

Fondamenti di grammatica per aspiranti scrittori

Lo scorso lunedì abbiamo parlato degli avverbi di quantità, oggi vediamo gli avverbi di giudizio, ovvero: di affermazione o negazione. Presentando come probabile o improbabile un evento, cioè affermando o negando, gli avverbi di giudizio trasmettono «un’informazione sull’atteggiamento del parlante in merito a quanto sta comunicando»[1]: «forse è questo racconto che è un ponte nel vuoto» [Calvino]; «a quest’ora probabilmente non troveremo nessuno» [Serianni]; «e tu certo comprendi / il perché delle cose» [Leopardi]; «ho davvero avvertito la tua mancanza».

Avverbi come forse e probabilmente posso essere classificati anche come avverbi di dubbio; ovviamente, certo, davvero come avverbi di affermazione. In tutti i casi, l’avverbio di giudizio indica la probabilità che l’interlocutore attribuisce agli eventi da lui descritti. Il più frequente è non, avverbio negativo.

«L’impiego del semplice non rappresenta la modalità fondamentale per trasformare in negativa una frase affermativa».[2]

L’avverbio non è quasi sempre anteposto al verbo – fanno eccezione le frasi nominali – e in molti casi è puramente «fraseologico», come nelle proposizioni esclamative: «che cosa non hanno fatto quel padre e quella madre per salvarlo» [D’Annunzio]; nelle proposizioni oggettive rette da un verbo di timore; in quelle interrogative retoriche; nelle comparative, ecc.

Naturalmente gli avverbi olofrastici che più di tutti si adoperano per dare una risposta positiva o negativa a un’interrogativa totale sono / no: «Hai fatto i compiti? – »; «Ti piace il pistacchio? – No». Essi sostituiscono un’intera frase o un sintagma anche quando non sono adoperati in risposta a una domanda: «a te piace, a me no». In frasi come «ti piace o no?», il no evita la ripetizione del verbo; vale anche per i sostantivi: «vale per tutti: giovani e no». Più spesso si adopera non: «studenti e non». Nel parlato, al posto di «o no» qualche volta si adopera o meno («ecco due cose le quali non so se mi garbassero o meno» [Nievo]) di cui si raccomanda di evitarne l’uso nella forma scritta. Talvolta, nelle frasi negative, l’uso di no crea una maggiore enfasi: «Eppoi no, né il sacrificio né la morte aggiungono nulla a una vita» [Serra].

«In una frase principale e no possono anticipare una coordinata con valore avversativo».[3]

Come nell’esempio di Pasolini: «Caro ragazzo, , certo, incontriamoci, ma non aspettarti nulla». È peraltro caratteristico il loro uso quando, posposti a un singolo termine della sovraordinata, anticipano una coordinata negativa: «se la vecchia signora di marmo l’avesse realmente veduta, realmente incontrata in quel punto, si sarebbe senz’altro, piegata no, impaurita no, ma posta in difesa» [Fogazzaro]. Per conferire più forza all’affermazione o alla negazione di un concetto, è molto frequente la ripetizione dell’avverbio: «Chi siete – io chiesi – siete il becchino? – Rispose la voce: “No, no. Faccio il soldato» [Vittorini]; oppure l’uso di locuzioni come sì che / no che seguite dallo stesso predicato presente nell’interrogativa: «Credete voi […] che Dio ha data alla sua Chiesa l’autorità di rimettere e di ritenere […]? – Sì che lo credo» [Manzoni].

Con lo stesso intento rafforzativo sono le univerbazione di sissignore e nossignore; anche se col tempo il loro uso è diventato nell’immaginario popolare ironico o addirittura polemico: «Quando avrai finito di studiare metti in ordine la tua camera, intesi? – Sissignore…». Signorsì e signornò, invece, hanno una sfumatura più enfatica e scherzosa; fuori dall’ambiente militare, almeno.

Tra gli altri usi del e del no si ricordano:

  • Momento sì / momento no, con funzione aggettivale, ovvero di indicare un momento particolarmente favorevole o… sfavorevole.
  • Adoperati come sostantivi, e no indicano ʻrisposta affermativaʼ o ʻrisposta negativaʼ: «il vecchio antifascismo dell’esilio, della cospirazione, del silenzio e dello sdegno che ha opposto al regime un no di principio, rifiutandone l’esperienza; e il nuovo antifascismo, nato dentro il fascismo, arrivato al no dopo aver partecipato» [Bocca].
  • Il , sempre adoperato come sostantivo, assume in alcuni contesti il significato di ʻmatrimonioʼ: «lo scrittore-pastore sardo Gavino Ledda parla del suo a una ragazza di 20 anni più giovane» [«Oggi», 29.10.1986 – cit. Serianni].
  • Come avverbi olofrastici in luogo di , negli ultimi tempi ha preso piede la moda di certo, esattamente e esatto: «Prove che la Cassazione, però, ritenne insufficienti. – Esattamente» [Serianni]. Più di recente a essi si è aggiunto assolutamente.

«Numerose particelle avverbiali concorrono a rafforzare la negazione (particelle completive della negazione). Il tratto semantico saliente che ci permette di spiegare l’origine comune è il concetto di ʻquantità esigua, infinitesimaleʼ».[4]

Fra queste ricordiamo punto e mica. Sono entrambe le più usate in ambito letterario. Mica, in origine, voleva dire briciola (lat. MĪCA). In italiano si adopera, ad esempio, in questo modo: «mica male questo stufato». Lo stesso ruolo è svolto anche da affatto. Quando messe dopo il verbo, le completive necessitano dell’avverbio negativo non: «non peso mica tanto». Quando questa regola non viene rispettata ci si trova di fronte a un italiano settentrionale: «Peso mica tanto» [Fogazzaro].

Conclusioni

Per oggi basta. Il prossimo lunedì, l’ultimo prima della pausa estiva, vedremo gli avverbi interrogativi e esclamativi. State bene.

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Note

[1] Luca Serianni, Grammatica italiana, UTET 2006

[2] Cit. Serianni

[3] Cit. Serianni

[4] Cit. Serianni

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