L’avverbio

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Fondamenti di grammatica per aspiranti scrittori

Con lo scorso mini-ripasso abbiamo concluso il nostro lungo discorso sulle preposizioni. Poiché avevamo tirato in ballo gli avverbi, a proposito delle preposizioni improprie, oggi ne approfittiamo per approfondire meglio la loro conoscenza.

«L’avverbio è una parte del discorso invariabile che serve a modificare, graduare, specificare, determinare il significato della frase».[1]

Di norma l’avverbio occupa una posizione prossima alla parola o al gruppo di parole che vuole determinare. In genere si tende a porlo o prima dell’aggettivo o dopo il verbo: «davvero carino»; «dormire profondamente». Anticipare la posizione dell’avverbio rispetto al verbo è possibile, e l’effetto che si crea è quello di rilievo enfatico: «molto si prodigò per il bene della patria» [Serianni]. Quando si riferisce a un’intera frase, allora la sua posizione è mobile. Ad esempio se dicessimo: «Giovanni astutamente convinse tutti» il significato della frase non cambierebbe spostando l’avverbio al suo principio: «Astutamente Giovanni convinse tutti», o alla fine: «Giovanni convinse tutti astutamente» [esempi del Serianni].

Proprio per questa sua funzione di modificatore semantico, l’avverbio offre di sé una grandissima varietà; varietà che approfondiremo nei prossimi mini-ripassi. Per il momento ci basta dare una rapida carrellata ai tipi di avverbi che si possono incontrare. A seconda dei meccanismi formativi, essi si possono suddividere in semplici (sempre), composti (in-dietro), derivati (incredibilmente) e locuzioni avverbiali (di sicuro).

Avverbi semplici

Rientrano in questa categoria tutti quegli avverbi che non sono divisibili in unità minori: oggi, ieri, sempre, sopra, sotto, bene, male, tardi, ecc. Come tutti gli altri avverbi sono invariabili, e vengono anche definiti «forme monolitiche»[2] per aver conservato nel tempo questa loro indipendenza.

Avverbi composti

Formati da due o più parole unite, gli avverbi composti si possono definire tali solo se ancora si avverte in essi il senso di «aggregazione di elementi distinti»: dappertutto (da per tutto), indietro (in dietro); meno in talora (tal ora) e infatti (in fatti) che ormai sono entrati nel gergo comune come singole parole. Fra la categoria degli avverbi semplici e quella degli avverbi composti i confini sono labili poiché non è raro che una forma composta, divenuta ormai così stabile da non far avvertire al parlante la sua composizione, passi dall’uno all’altro.

Avverbi derivati

Tutti quegli avverbi che si ottengono da altre fonti tramite l’aggiunta di un suffisso si definiscono derivati; dei quali oggi sopravvivono quelli in -mente e quelli in -oni: silenziosamente, dettagliatamente, ginocchioni, ruzzoloni, ecc. La prima categoria è quella più corposa e produttiva. Mentre nel francese l’avverbio in mente può derivare anche da un sostantivo (più -ment), in italiano essa è quasi sempre formata da un aggettivo. Se l’aggettivo può essere normalmente adoperato sia al maschile che al femminile, nella conversione ad avverbio mantiene il femminile: pazzo/pazza/pazzamente; se ha una sola uscita ma termina in -e, allora mantiene la sua forma: sapiente/sapientemente; se invece termina in -le o in -re apocopa la vocale finale: amorevole/amorevolmente, celere/celermente. Presentano apocope vocalica anche benevolmente, malevolmente e leggermente.

Discorso a parte meritano parimenti e altrimenti: il primo deve l’uscita in -menti «all’armonizzazione con l’aggettivo pari», ma ancora oggi oscilla fra le due forme; altrimenti si è formato per analogia fonetica con parimenti e ormai è diventata una forma stabile.

Un avverbio in -mente non può mai riferirsi a un altro avverbio in -mente; quindi non si può dire: «studia grandemente attentamente», ma «studia molto attentamente» [Serianni]. Inoltre non sempre un avverbio in -mente mantiene il significato dell’aggettivo da cui si genera: ad esempio, «finalmente non vuol dire ʻin maniera finaleʼ ma ʻalla fineʼ». Infine non sempre si può risalire facilmente dall’avverbio all’aggettivo che l’ha generato: ad esempio, «malamente […] si forma sull’aggettivo malo ʻcattivo, tristoʼ, che è oggi quasi del tutto disusato e si trova solo in forme ed espressioni cristallizzate come mala parata, mala lingua, in malo modo, a mal partito».

Il secondo tipo di avverbio derivato, quello che si forma sia dal sostantivo sia dal verbo con l’aggiunta del suffisso in -oni, a differenza del principale in -mente non ha oggi alcuna produttività linguistica. Alcuni di essi si trovano tuttavia come locuzioni avverbiali con l’aggiunta di a: a balzelloni, a tentoni, ecc.

Locuzioni avverbiali

Come tutte le locuzioni, le avverbiali sono costituite da due o più parole disposte stabilmente in una serie fissa: a poco a poco, per caso, tutt’a un tratto, ecc.

«Si tratta di una categoria dilatabile quasi all’infinito e dai confini non sempre netti».[3]

Tra le forme più tipiche si hanno quelle:

  • accompagnate da una preposizione: a stento, con sforzo, senza ira, di sicuro, ecc.;
  • accompagnate da una doppia preposizione a: a faccia a faccia, a pezzo a pezzo;
  • accompagnate dalle preposizioni di + in: di bene in meglio, di tanto in tanto, d’ora in ora;
  • con duplicazione del sostantivo: passo passo;
  • con duplicazione dell’aggettivo: bel bello;
  • con duplicazione dello stesso avverbio: or ora, quasi quasi.

Esse hanno spesso il loro corrispondente in un avverbio: per ogni dove/dovunque; per caso/casualmente, ecc.; ma è una corrispondenza spesso illusoria o si rivela valida solo per taluni usi particolari: si può essere presi alla lettera o essere letteralmente distrutti, ma raramente si viene presi letteralmente e mai si è distrutti alla lettera.

Conclusioni

Vi è piaciuto quest’articolo? Io trovo gli avverbi davvero molto interessanti; con essi si può caratterizzate una scrittura senza eccessivo sforzo. Diffidate, dunque, dai grandi maestri della narrativa americana che degli avverbi, loro, non sanno che farsene. Ci aggiorniamo a lunedì prossimo con un maggiore approfondimento di questo stesso argomento. State bene.

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Note

[1] Luca Serianni, Grammatica italiana, UTET 2006

[2] Annibale Elia, Avverbi ed espressioni idiomatiche di carattere locativo, SGI 1982

[3] Cit. Serianni

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32 Comments on “L’avverbio”

  1. Prof. c’ho un paio di dubbi:
    dubbio namber uan) ma l’avverbio non è legato, come mi hanno insegnato alle elementari, al verbo? Una sorta di aggettivo del verbo?
    dubbio namber ciù) che è forse un pochino OT, o forse no, ma perchè gli avverbi sono così vituperati nelle scuole di scrittura? Che poi quando il precetto cade su menti deboli ti ritrovi a leggere un’infinità di “in modo…” che è forse anche peggio 😛

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        • Non è vero, ho risposto in modo diretto e conciso. Gli avverbi sono una categoria molto ampia e non hanno solo il compito di specificare il verbo, ma anche un aggettivo o, più in generale, il significato di un’intera frase. Perché sia tanto vituperato dalle scuole di scrittura (ma ne siamo sicuri? Perché in realtà l’unico a parlarne male è il King), invece, non lo so. Per me è un elemento indispensabile della frase.

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          • In realtà, che io sapia, è colpa di Strunk che ne parlò male in “Element of Style” che è un testo base nelle scuole di scritura americane, da qui a cascata.
            Però mi pare che anche Strunk lo dia come precetto ma non spieghi il perchè.
            Io penso, ma è il mio pensiero quindi vale quel che vale, che come li aggettivi vadano usati con parsimonia e con misura (il che vuol dire tutto e niente), però a volte mi fanno ridere certi commenti su siti o forum un po’ scandalizzati: “hai usato un avverbio, proprio non sai scrivere” 😀

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  3. Ecco, il fatto che tutte quelle remore sugli avverbi vengano da scuola anglosassone le rende già poco vincolanti: lingue diverse, usi diversi. A me non dispiacciono, basta stare attenti alle ripetizioni-allitterazioni non volute -mente -mente -mente nella stessa frase… 🙂
    Comunque la colazione con la coppa la faccio eccome! Quella calabrese no perché è un po’ forte, ma cappuccino e cornetto sono uno spuntino, non una colazione. 🙂 🙂 🙂

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  4. Io non posso farci niente, amo gli avverbi e li uso, una frase senza avverbio è come una minestra senza sale, credo. È meglio non abusarne, una minestra salata è immangiabile. Tutto sta nel giusto dosaggio.

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  5. Sì, a me è piaciuto, ma sono sicuro anche agli altri. Nei successivi approfondimenti ti manterrai sul piano sincronico o ci sarà spazio per un po’ di storia linguistica? Perché il modo in cui siamo arrivati agli avverbi con il suffisso -mente, assenti in latino, ha il suo fascino.

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      • Capisco, in effetti per certi argomenti ci vorrebbe una rubrica a parte, da quanto sono vasti. In questo caso, basta un commento, per chiunque abbia curiosità al riguardo: in latino l’avverbio normale è quello che finisce in -e, ma un tipo meno frequente, che in epoca tarda divenne maggioritario, era costituito da un aggettivo in ablativo + ‘modo’ (es. ‘lento modo’ = in modo lento). Alla fine si finiva per trasformare la formula in una parola sola, che però era sdrucciola (‘lentòmodo’), il che la esponeva al pericolo che si perdesse la parte finale della parola, che andava “a morire”. Allora si cercò un nuovo modo di comporre l’avverbio, tramite una parola con accento più forte, in modo che non si perdesse niente. Fu allora che si cominciò a spostare l’attenzione dal modo in cui l’azione avviene alla disposizione di chi la compie o la esperisce: ‘lenta mente’ (sempre ablativo) = ‘con la mente lenta’.

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