Il genio inosservato

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“Siete tutti così bravi, siete tutti così fighi, siete tutti così giusti eppure là fuori il mondo è ancora pieno di gente di merda”

— Charles Bukowski

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Il cigno nero vola postumo

C’è una quantità di indizi a dir poco sconcertanti che ci indicano un fatto incontrovertibile: se in Africa nasce un genio e nessuno se ne accorge, il mondo non smetterà di ruotare. Dico, Africa. Ma avrei potuto dire Europa, America, Asia, Pizzo Calabro… Forse aveva ragione Umberto Eco a scrivere: «E se il vicino di casa di Proust fosse stato tanto più bravo di lui e nessuno se ne fosse accorto, per lui sarebbe tristissimo, per l’umanità basta Proust e avanza». Che è come ammettere la fallibilità umana, ma anche un certo disinteresse individualistico di cui noi tutti, soprattutto nella contemporaneità, siamo un po’ vittime e un po’ carnefici.

Per la maggior parte del tempo non vediamo veramente ciò che ci circonda, ci limitiamo a guardare distratti. Spesso il nostro giudizio si muove all’interno di condizionamenti preconfezionati di cui non siamo completamente coscienti. Condizionamenti la cui ricetta è costituita da pregiudizi, gusti personali formati all’interno di un dato contesto e gruppo sociale, influenze culturali di uomini a cui, con torto o ragione, viene attribuito un certo credito, e via dicendo. Tutto questo crea un “effetto gregge” verso cui nessuno di noi, nemmeno i più rivoluzionari e individualisti, è completamente immune.

Quante volte in un dibattito avete dato ragione a un individuo solo perché depositario di un maggiore credito? Se è vero che 1 non vale 1; se è vero che la mia opinione nel campo della fisica quantistica, ad esempio, non può essere equiparabile a quella di un fisico che lavora abitualmente in quel campo; è anche vero che non per forza essa è meno “corretta” solo perché sono depositario di minore credito. Può darsi che abbia avuto un’intuizione geniale. Può darsi che sia custode di un’autentica illuminazione divina. Può darsi che, nonostante il minor credito (e la minor preparazione nel campo specifico), il mio cervello riesca a coglie spunti originali, più di quanto non possa fare chi frequenta abitualmente un certo campo muovendosi all’interno delle convenzioni che lo governano. Casi rari, certo. Eppure accadono.

Herman Melville, l’autore di Moby Dick, era considerato dai suoi contemporanei un “cane”. Il suo romanzo passò completamente inosservato. Si dovette attendere un secolo perché, probabilmente in modo casuale, quasi stocastico, venisse riscoperto e rivalutato. Oggi è considerato un classico della letteratura mondiale. I contemporanei di Melville si sbagliavano? Non sono stati in grado di cogliere i prodromi di una svolta letteraria? Il loro gusto non era maturo per quel genere di composizione? Chi può dirlo… Ma casi come questi ce ne sono stati parecchi e, di sicuro, non smetteranno di essercene.

Il Gattopardo, un romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, da cui fu anche tratto un film diretto da Luchino Visconti, vinse il Premio Strega nel 1959, ovvero l’anno successivo la morte del suo autore. Mentre era in vita, la sua opera fu rifiutata dalle più importanti case editrici italiane e pubblicata postuma da Feltrinelli solo nel ’58 grazie all’interessamento di Giorgio Bassani. Tra il ’54 e il ’57 il suo autore – un appassionato per lo più sconosciuto ai circoli letterari – cercò di far pubblicare il proprio romanzo inviandolo in lettura a diverse imprese editoriali. Elio Vittorini, che all’epoca era consulente per Mondadori e curatore della collana I gettoni per Einaudi, lesse e bocciò il manoscritto. Un clamoroso errore di valutazione che ancora oggi fa discutere.

Nel ’48 Natalia Ginzburg era lettrice per Einaudi. Cesare Pavese, il direttore editoriale. Arrivò sulla loro scrivania un manoscritto intitolato Se questo è un uomo. Il suo autore era un ebreo sopravvissuto a un campo di sterminio nazista: Primo Levi. Si usciva dalla seconda guerra mondiale e di storie che raccontavano dell’Olocausto e delle agonie del popolo “eletto” in giro ce n’erano già parecchie. Il lettore non aveva più voglia di sentir parlare di guerra e sofferenza. Troppo doloroso e cocente era il ricordo, ancora. Il rifiuto fu secco. Il testo venne quindi pubblicato dalla piccola De Silva, con una tiratura di sole 2.500 copie. A recensirlo come «un libro magnifico» fu il solo Italo Calvino. Di tutti i manoscritti italiani che raccontano quella storia, Se questo è un uomo oggi è considerato all’unanimità un testo sacro. Ma passarono altri dieci anni prima che il capolavoro venisse finalmente pubblicato da Einaudi ottenendo così il suo giusto riconoscimento.

Tuttavia non ci si faccia ingannare, lo stesso Calvino fu autore di alcuni dei più clamorosi rifiuti della storia dell’editoria italiana. Guido Morselli morì suicida nel ’73 senza essere riuscito a pubblicare un solo libro. Per tutta la vita cercò di far pubblicare i propri romanzi – tra cui figurano due ucronici, Contro-passato prossimo e Roma senza Papa, e un libro sul partito comunista: Il comunista – ricevendo sempre dei rifiuti.  E non solo da Calvino, ma dall’intero panorama editoriale dell’epoca: Mario Pannunzio, Guido Calogero, Vittorio Sereni, Geno Pampaloni, Carlo Fruttero e via dicendo. Addirittura Luciano Foà ne perse il manoscritto negli archivi di Einaudi. Giuseppe Pontiggia definì Morselli: una «proiezione esemplare dello scrittore postumo, respinto in vita dall’incomprensione dei giudici… le resistenze che hanno ritardato il suo riconoscimento hanno come causa particolare l’essersi, Morselli, scostato dalla linea tradizionale del romanzo italiano». Lo stesso Morselli definiva il proprio rapporto con gli editori un fiasco a causa di responsabili «dall’etica professionale approssimativa quando non scorretta». La sua opera fu integralmente pubblicata postuma da Adelphi.

Esempi di questo tipo sono moltissimi: Giuseppe Berto, autore di un vero capolavoro, Il male oscuro, rifiutato diverse volte prima che il noto critico Giancarlo Vigorelli ne prendesse le difese convincendo lo stesso Angelo Rizzoli in persona a pubblicarlo. Il libro vendette ben 100 mila copie, guadagnando premi quali Il Campiello e Il Viareggio. Silvio D’Arzo, ovvero Ezio Comparoni, anch’egli pubblicato postumo e anch’egli segato dalla coppia Ginzburg-Pavese. Pavese, in nota al manoscritto, commentò: «Non mi interessa affatto. A morte!» E tanti anche i casi stranieri di eclatanti rifiuti editoriali: da Stephen King a Garcia Marquez, da Marcel Proust a James Joyce. Prima di scartarlo, Virginia Woolf definì l’Ulisse: «Una noia mortale». Forse aveva ragione. Lolita, il celebre romanzo di Vladimir Nabokov, fu rifiutato praticamente da tutti e pubblicato infine solo dalla Olympia Press, una piccola casa editrice specializzata in romanzi erotici. Stephen King collezionò un numero improbabile di rifiuti prima di diventare l’autore di bestseller che oggi conosciamo.

Avrei potuto intitolare questo articolo “Rifiuti Eccellenti” o “L’editoria da strapazzo”, ma lo scopo non era quello di sciorinare un lungo elenco di clamorosi errori di valutazione, quanto ribadire l’inevitabilità del pozzo stocastico da cui è necessario emergere per avere successo. Non è solo questione di fortuna. Non è solo questione di bravura. Non è solo questione di moda o della capacità di scrivere cose aderenti all’interesse della contemporaneità. È un insieme di fattori, quelli che intercorrono e interagiscono a tessere una carriera artistica di successo. Alcuni li chiamano cigni neri, e non sempre riusciamo a riconoscerli per tempo. Tutto questo può farci storcere il naso e urlare all’ingiustizia, ma il mondo non smetterà di ruotare.

17 Comments on “Il genio inosservato”

  1. Il mondo continua a girare di fronte a catastrofi, epidemie, tragedie, figuriamoci di fronte a un rifiuto letterario.
    Non vorrei essere cinica, ma il punto che cogli è proprio questo: se guardiamo da molto lontano, nello scorrere dei secoli e nell’infinità dell’Universo, ogni opera è niente, come niente siamo ognuno di noi.
    E da un parte, almeno per me, è estremamente liberatorio: non siamo affatto il centro del mondo né nella nostra genialità né nella nostra mediocrità. Siamo uno dei miliardi di formiche che brulicano e che in un attimo possono essere spazzati via.
    Se parliamo di scrittura, forse dovremmo tornare all’antica domanda: perché scriviamo?
    Se per passione, il problema non si pone perché la passione si dovrebbe esaurire nell’atto stesso di scrivere. Se per soldi, nemmeno, perché arricchirsi con la scrittura non richiede affatto genialità. Forse il problema è quando si associa a queste pulsioni una forma di narcisismo che ci vorrebbe non solo ricchi, non solo famosi, ma anche geniali.

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    • Esatto. Solo che ad alcuni di tanto in tanto bisogna ricordarlo.

      Su una cosa non sono d’accordo: “Se per soldi, nemmeno, perché arricchirsi con la scrittura non richiede affatto genialità”. Credo che scrivere un romanzo commerciale, che venda molto, serva una certa dose di genialità.

      Per il resto concordo.

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  2. Che il mondo possa fare a meno di ciascuno di noi è indubbio. Chissà quanti potenziali geni nella storia sono andati smarriti. Un possibile grande cantante nato cinquemila anni fa, quando ancora la musica non l’avevamo inventata. O il contadino genio del calcio, solo che nascendo nell’anno mille i calci li poteva prendere solo dal feudatario.
    Oppure io considero il più grande scrittore del Novecento Vincenzo Rabito, uno scrittore analfabeta che quasi nessuno conosce. Nato in un piccolo paese della Sicilia l’ultimo anno dell’Ottocento, senza scuola se non quella della sopravvivenza, ha imparato a scrivere da grande. Non aveva cognizioni di grammatica, ortografica e conoscenza delle parole se non per uso orale. Eppure, giunto alla pensione si è rinchiuso in una soffitta e con una vecchia macchina da scrivere ha cominciato a battere l’unica cosa che conosceva, la sua vita.
    Ha realizzato un manoscritto immenso nelle pagine, dove l’unica punteggiatura è data dal punto e virgola che a casaccio separa le parole. Il tutto in un siciliano italiano che nemmeno Camilleri poteva concepire, perché quella era la sua parlata reale, da ignorante.
    E in queste condizioni, non sapendo nulla di storytelling, viaggio dell’eroe e non avendo mai letto alcun libro, ha scritto una storia, la sua storia, con una potenza espressiva incredibile.
    Il manoscritto è stato scoperto dal figlio dopo la sua morte. Rovistando la soffitta dove il padre si rinchiudeva ha trovato quella testimonianza. Rabito non l’aveva scritta per la sua famiglia, per i lettori, per l’editoria, per il successo, ma l’aveva scritta perché per istinto sapeva che ciò che aveva vissuto non doveva andare perduto del tutto.
    Il figlio portò il manoscritto all’archivio storico, essendo una testimonianza delle due guerre mondiali e da lì, nella sua incredibilità è circolato di mano fino ad essere pubblicato da Einaudi, rimaneggiato nella lunghezza e con la punteggiatura corretta da un editor.
    E’ incredibile quale talento possedesse Rabito e come le congiunture del destino lo abbiano fatto nascere in un contesto che non gli ha dato la possibilità di studiare i rudimenti basilari della lingua.
    Per me è il più grande scrittore del Novecento. Avesse avuto i mezzi avremmo avuto un gigante della letteratura. Ma il destino lo hai delineato tu, segue strade avverse nella maggioranza dei casi. Ma quello di Rabito è il messaggio potente di quel che significa vivere e scrivere, perché la scrittura, nonostante tutto, abbia un senso.

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    • Nel tuo commento aggiungi un’ulteriore sfumatura al discorso: se ho un talento ma nasco nell’anno o secolo o millennio sbagliato, del mio talento non me ne faccio niente. Purtroppo è così. Ed è molto triste se capita a se stessi. Ma il mondo non smette di ruotare per questo.

      Conosco l’autore che citi. Mi pareva di ricordare, però, che l’editore avesse scelto di non modificare in alcun modo il testo in questione. La cosa interessante stava nel fatto che un perfetto analfabeta avesse deciso di rendere per iscritto la sua storia, inventando letteralmente il come la scrittura dovesse essere ai suoi occhi analfabeti. O una cosa simile.

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  3. Lo stesso Bukowski che citi all’inizio del post, era profondamente angosciato dalla fama che aveva riscosso in vita perché le parole di uno scrittore non devono parlare al presente, ma al futuro, diceva ci volevano 100 anni almeno. Oggi purtroppo parlano quasi sempre al passato. Il commento non sarà a tema con il tuo argomento ma il mondo…

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  4. I dinosauri non scrivevano e non leggevano libri, e il meteorite li ha estinti lo stesso. 😀
    Si, scrivere dovrebbe essere una passione, dato che anche scrivere per soldi non è così semplice e il risultato non è assicurato. L’uomo però è mortale e usa l’arte per lasciare un segno tangibile dietro di sé. In Victoria Lord Melbourne, l’ex cancelliere gravemente malato, guardando il nuovo Parlamento in costruzione, dice “Avrei dovuto costruire qualcosa, lasciare qualcosa di grandioso che portasse il mio nome”. Non lasciava figli dietro di sé, nessuno che continuasse il nome o il dna. Per alcuni di noi i libri sono anche questo: un segno del nostro passaggio. Anche se molti libri di epoche diverse sono comunque andati perduti, e magari sono arrivati a noi quelli che nemmeno lo meritavo, non possiamo nemmeno saperlo. Però cerco di comprendere chi si cruccia tanto per non essere pubblicato, non è sempre e solo questione di vanità. 🙂

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    • Questa cosa di essere letti dai posti e di lasciare un segno di sé, per quanto riguarda la scrittura mi lascia sempre il sospetto di un grande egocentrismo. È come se uno scultore scolpisse la statua di se stesso. Non mi convince.

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      • Egocentrismo…non lo so. Magari solo istinto di sopravvivenza. O addirittura per qualcuno un riscatto per una vita passata sotto tono. Dovremo essere in ognuna di quelle scarpe per capire le vere motivazioni. 🙂

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        • Ma ci siamo. Dentro di noi ci sono già tutti gli istinti, anche solo in modo sopito. L’arte di scrivere non sarebbe altrimenti possibile. E secondo me, chi scrive per essere ricordato va guardato con grande, grandissimo sospetto. Parere personale, eh.

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  5. Anch’io, come Silvia, trovo liberatorio sapere che non c’è niente di così importante negli scritti e nei relativi rifiuti da inceppare l’universo. A volte si può essere tentati di prendersi troppo sul serio, invece la letteratura è irrilevante. Che bello. ;).

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  6. Mi piace molto il titolo del tuo post “Il genio inosservato”, chissà da quanti geni siamo circondati e di cui non ci accorgiamo. Conoscevo la storia de Il gattopardo e mi aveva portato alcune riflessioni simili alle tue, grazie per averne parlato e condiviso anche le altre storie di autori “incompresi” in vita e diventati pietre miliari della letteratura. Di esempi di autori rifiutati da molte case editrici prima di diventare famosi ce ne sono molti ancora oggi, purtroppo non sempre chi sceglie e decide in una casa editrice ha l’occhio lungo o la giusta sensibilità per captare una storia giusta, il giudizio è sempre inficiato dalla propria visione personale o da considerazioni di budget. Forse vince il più tenace, colui che ci crede e persevera nonostante i rifiuti delle case editrici troppo distratte…comunque alla fine il mondo continua a girare, è vero. Bel post!

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    • Grazie, Giulia. Dici, nel tuo commento, molte verità. E porti in luce molte questioni che meriterebbero un post a parte. Sarei quasi tentato di chiederti di scrivere un guest sulla sensibilità necessaria per chi, nelle case editrici, svolge il ruolo di scegliere.

      Secondo me, ma è solo un’impressione la mia, gran parte degli addetti ai lavori è finita nel settore editoriale perché nella vita non sapeva fare niente di meglio. O niente, punto. Io che vengo dal settore metallurgico e che, per questo, posso tentare un confronto fra gli imprenditori di quel settore (l’Italia è uno dei paesi più forti nella metallurgia) e gli imprenditori del settore editoriale, i secondi mi sembrano degli improvvisati.

      Se a questo aggiungiamo la superficialità e l’improfessionalità di chi li affianca – dandosi delle grandi arie da guru per il solo fatto di lavorare nel settore editoriale – forse riusciamo a intuire come mai tra le sessantamila pubblicazioni annue, una cifra mostruosa!, gran parte vende meno di cento copie… Ma forse è meglio lasciare stare questo discorso.

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  7. Al di là della scrittura, se non ci sono dei geni e noi non ce ne accorgiamo è un problema non solo per quel genio (poveretto) ma per tutti coloro che avrebbero potuto beneficiare del suo talento. Per la scrittura a un certo punto, pace, è un peccato, ma non ci cambia la vita. Un talento nella medicina, nella biochimica, nella fisica, invece, potrebbe farlo. E qui si aprirebbe un capitolo immenso sui talenti inascoltati e le occasioni perdute dell’umanità.

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    • Beh sì, essendo questo un blog dedicato quasi esclusivamente alla scrittura, davo per scontato che con genio ci si riferisse al “genio letterario”. Per quanto riguarda le altre discipline, potrebbe essere un problema ma non credo. E per due buoni motivi:

      1. E lo disse Einstein: se non avessi scoperto io la relatività l’avrebbe fatto qualcun altro, la musica di Bach invece poteva inventarla solo Bach;

      2. In genere se si è un genio della fisica o della medicina o di un’altra disciplina scientifica, è probabile che si è fatto l’università e qualche accademia di specializzazione, per cui è difficile passare inosservati.

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