Scrittori suicidi

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“Conosco un uomo che ha smesso di fumare, di bere, di fare sesso e di mangiare pesante. È rimasto in salute fino a che non si è suicidato.”

JOHNNY CARSON

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“Non manca mai a nessuno una buona ragione per uccidersi.”

CESARE PAVESE

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Come si ammazzano gli scrittori che vogliono uccidersi?

Quando mi sono accostato al problema, questa è stata la prima domanda che mi è venuta in mente: come si ammazzano gli scrittori che scelgono la via del suicidio? Non dubito ci sia un certo grado di voyeurismo nel porsela, e perfino un accenno di macabra curiosità malata. Dei motivi che spingono uno scrittore ma anche qualsiasi altra persona – a suicidarsi, invece non mi importa nulla. Ho sempre pensato che giudicare gli altri, le loro intenzioni e le loro azioni, sia un modo poco elegante di accostarsi a un problema tanto diffuso. Che sia diffuso, è certo. Le statistiche, tuttavia, non rientrano nel focus di questo articolo. Quello che mi interessa invece, il motivo per cui ho deciso di concludere in questo modo le pubblicazioni di questa prima metà del 2018, è indagare sui metodi adottati dagli scrittori famosi per porre fine alla propria esistenza.

Poiché la volta scorsa, quando vi ho presentato un racconto di autofiction in cui parlavo palesemente di suicidio, ho ricevuto decine di messaggi privati dal tono preoccupato o indignato o entrambe le cose, ci tengo a precisare che tutto quello che pubblico su questo blog ha un esclusivo valore narrativo. Per intenderci, non ho intenzione di legarmi un cappio al collo per poi pencolare rancoroso dal soffitto di casa o di procurarmi una carabina usata per solleticarmi l’ugola del palato; niente barbiturici per il sottoscritto, e nemmeno gas combustibile dallo scappamento della mia automobile. E poi, comunque, non avrei un garage in cui farlo e saturare Torino di monossido di carbonio costerebbe troppo alle mie tasche asfittiche. Quindi potete stare tranquilli. Potete rilassarvi e porre da parte le vostre preoccupazioni piccolo-borghesi, almeno per un momento.

Il perché ho deciso di indagare questo argomento è correlato, almeno in parte, al romanzo in lavorazione. E mi dà fiducia osservare che le mie parole riescono ancora a smuovere gli animi. Sapete come si dice, no? Bene o male, basta che se ne parli. Che è un modo estremamente disonesto di attirare l’attenzione. Nel mio caso, non cerco attenzione. Decidete voi se la merito o meno. Quello che cerco, quello che ho sempre cercato con questo blog, è la verifica empirica dei sentimenti che riesco a suscitare infilando parole come perline su un filo di seta. Non prendetevela con me, quindi, se ciò che scrivo a volte può essere doloroso. Ma bando alle ciance, come direbbe uno dei peggiori presentatori TV dell’ultimo secolo, ecco la classifica dei metodi di suicidio più diffusi nel mondo della letteratura.

Comincerei con il famigerato David Foster Wallace. Il quale passò una corda attorno a una trave del patio di casa sua, a Claremont in California. Vi fece un cappio e vi infilò il collo. Il cadavere venne ritrovato il giorno seguente dalla moglie, Karen Green, ancora appeso. Quello di impiccarsi tuttavia, che fa molto film western ed è forse un metodo adeguato per gli Stati Uniti d’America, non è il più diffuso tra gli scrittori di casa nostra. Noi preferiamo gettarci nel vuoto e schiantarci a terra. Così hanno fatto due nostri connazionali: Primo Levi e Franco Lucentini. Entrambi si sono lanciati nella tromba delle scale. Entrambi dovevano vivere in uno di quei palazzi con le scale a elica. Io non potrei mai, il mio condominio nonabbastanzaborghese non ha alcuno spazio aperto fra una rampa e l’altra: ho controllato. Se anche voi vivete in un simile penoso fabbricato, forse potreste decidere di lanciarvi da una finestra come fecero Elise CowenKurt Vonnegut.

Restando in territorio europeo, una delle morti suicide più poetiche e allo stesso tempo più cruenti in cui mi sia imbattuto in questa ricerca, è certamente quella scelta da Virginia Woolf. Lei si riempì le tasche di sassi e si incamminò nel letto del fiume Ouse, nell’East Sussex inglese. Morì annegata. Quando visualizzo nella mia mente l’immagine di questa gracile donna (la immagino gracile perché era malata) che cammina nel fiume fino a che il pelo dell’acqua non supera le narici, non posso fare a meno di chiedermi come abbiano fatto i sassi a non scivolarle dalle tasche durante le inevitabili convulsioni. Poi mi chiedo quanto debba essere tremenda e dolorosa una morte per affogamento. Ci vuole tempo! La imitarono John Allyn Berryman, che si lanciò nelle acque del fiume Mississipi e, in un certo senso, Jerzy Kosinski, il quale utilizzò un sacchetto di plastica in cui infilò la testa. Sempre asfissia è.

La paura di soffrire e il timore per il dolore sono in genere le prime preoccupazioni di chiunque intenda suicidarsi. Quindi la ricerca di metodi indolori può diventare quasi ossessiva. Molti scelgono un banale sonnifero. Chi non vorrebbe morire nel sonno, quasi senza rendersene conto? Fra coloro che hanno scelto di addormentarsi per non risvegliarsi mai più figurano l’italiano Cesare Pavese, l’austriaco Stefan Zweig e lo scozzese John Henry Mackay, quest’ultimo per overdose di morfina. Molti altri, invece, preferiscono un buon vecchio colpo di pistola alla tempia. Anche questo pare essere un metodo indolore. Fra questi, ricordiamo: Carlo Michelstaedter, Guido Morselli, Robert Ervin Howard, Heinrich von Kleist, Romain Gary, Hunter S. Thompson, Guy-Ernest Debord… Alla pistola  Ernest Hemingway invece preferì il proprio fucile da caccia. Si infilò le canne in bocca e Bang!

Un altro metodo indolore dicono essere quello di inalare gas di scarico. Si collega un tubo allo scappamento dell’automobile e si mette in modo il veicolo. Ci vuole un po’, ma dev’essere una morte simile a quella data dai sonniferi. Vi hanno fatto ricorso: Anne Sexton e John Kennedy Toole. Forse non possedeva un’automobile Silvia Plath, che invece infilò la desta direttamente nel forno.

La morte più cruenta, anzi no, la più sanguinosa che si possa immaginare auto-inflittasi da uno scrittore, resta quella di Emilio Salgari. Il quale si squarciò gola e ventre col proprio rasoio da barba. Seguito dal giapponese Yukio Mishima, che scelse il seppuku, il suicidio rituale dei samurai: prima ci si apre il ventre con un pugnale, poi un compagno ti decapita. Ma bisogna essere almeno in due…

E siamo a ventiquattro. Non so se ho esaurito l’argomento, ma di sicuro ho visto troppi morti per un giorno solo. Coloro che desiderano ardentemente diventare scrittori famosi, forse dovrebbero valutare con attenzione i pro e i contro della loro scelta. Pare che scrivere faccia male alla salute. Vi auguro un’estate spensierata e “vivace” [letteralmente piena di vita]. Ci si vede a settembre, gente. E tenetevi lontani dalle finestre, dalle corde, dai medicinali, dalle pistole e da tutto quello che potrebbe fornirvi un pessimo finale per la vostra storia personale.

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Note

Sì, ho usato un tono leggermente sarcastico per la stesura di questo articolo. Mi pare il minimo, visto l’argomento.

40 Comments on “Scrittori suicidi”

      • La intendo in questo modo e penso sia inerente eccome: uno scrittore si guarda dentro e scrive alla ricerca di verità che con molta probabilità mutano così velocemente da essere inafferrabili. Fin quando non si arrende o non capisce (o chiunque ha un buon motivo per voler morire) che l’unica verità comprensibile certa è la morte. Allora ci si ficca la testa dentro un microonde e sblaff. Di che argomento parli se non di questo? Di un elenco di scrittori che si sono tolti la vita?

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        • Genio, avevo perfettamente capito quello che intendevi al primo messaggio. Ma il focus dell’articolo è: come vorresti suicidarti se fossi uno scrittore? 🙂

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          • Avevo scavato troppo affondo allora! 😀
            Di sicuro vorrei fosse divertente per far dire ai posteri: guarda quel cretino era famosissimo aveva tutto era così bravo e come si è ammazzato. Un tuffo dentro al cratere di un vulcano attivo. I giornali scriverebbero: Oro al tuffo sincronizzato con la morte del famoso scrittore – Si lancia dentro al cratere e muore quasi sul colpo. Morte dolorosa ma veloce.

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    • Domanda interessante. A me viene in mente un caso limite: non ritengo che lo si possa definire suicidio, perché non sembra derivato da una precisa volontà, ma è legato a doppio filo con la scrittura. Mi riferisco al caso di Luciano Bianciardi, che morì a causa dell’alcolismo dovuto a un successo improvviso che non voleva. Diciamo che per lo meno è strano. Gli unici altri casi che mi vengono in mente sono Pier delle Vigne, di cui ignoro la dinamica, e i casi simili di Seneca e Petronio; delle loro morti, atipiche come suicidi perché imposte da terzi (Nerone), le fonti antiche forniscono dettagliate e raccapriccianti descrizioni, perciò sorvolo…

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      • Con suicidio, almeno per come lo intendo io con questo post, si tende a indicare una morte prematura auto-inflitta per volontà personale. Se Seneca s’è suicidato, io sono Napoleone. È omicidio! Qualsiasi fosse la mano che impugnava “l’arma”.

        Bianciardi non lo conoscevo. 🙂

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        • Appunto, la terza parte propose sia a lui sia a Petronio di risparmiare a lui la fatica di intentare un processo ‘de majestate’ e a sé stessi l’ignominia della condanna pubblica. Seneca obbedì alla maniera stoica, Petronio con la parodia della stessa maniera; e alla fine dispose che circolassero per Roma delle lettere anonime con tutte le altre malefatte dell’imperatore, a quanto ricordo dalla scuola: non se n’andò senza un ultimo sberleffo.

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  1. Comunque vorrei segnalarti il suicidio più originale, quello di Empedocle. Secondo la leggenda che circola da noi, pare che si sia gettato dentro l’Etna in eruzione. La versione B della leggenda però dice che più che gettato, vi sia caduto, tanto era l’ardimento di capire il mistero del magma incandescente. Secondo altri è morto altrove, quindi in questi casi, lo si può far morire dove si vuole.
    Però sì, dai, suicidarsi dentro un’eruzione vulcanica con il magma a mille gradi, non è poi così male. Io che sono stato a due metri dal flusso magmatico, posso dirti che quel rosso frammisto al giallo, è molto affascinante. L’unico inconveniente di questo suicidio è attendere che l’Etna sia in eruzione. Il che non è prevedibile e metti il caso, che giusto quando scoppia, in quel momento hai da fare. Perché si sa, le sfighe suicide, non vengono mai col buco. 😛

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    • Non riesco a immaginare se sia o meno una morte orribile. Voglio dire, magari è rapida e quasi non te ne accorgi. Però mi dà l’idea di essere molto simile all’immaginario comune di inferno. Sai, per via del calore, la lava, i gas, ecc.

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  2. La morte per annegamento è terribile, perché lentissima e dolorosa, proprio per l’acqua che penetra nei polmoni, e ci mette troppo tempo il cervello a saturarsi di anidride carbonica (alla fine ti “addormenti” ma molto alla fine). Mentre quella da gas è sempre asfissia, me accelera la saturazione, ti stordisci più velocemente. (Ho chiesto ad un medico i dettagli, anche se non era un medico legale).
    Spararsi o buttarsi o fare karakiri o harakiri (il volgare dello scritto “seppuku”, cioè solo il taglio all’addome, la decapitazione era riservata agli alti gradi della gerarchia militare) richiede parecchio coraggio. O incoscienza, dato che l’istinto di sopravvivenza e salvaguardia della specie è contenuto nel nostro dna. Probabilmente conviene drogarsi o ubriacarsi prima di tale atto. Solo che se poi sbagli il colpo, sei fregato. Resti un vegetale in un letto d’ospedale e allora sì che la vita si complica.
    (Tra l’altro, io sto scrivendo un racconto in cui ammazzo un marito… 😀 )
    Buone ferie eh!

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  3. Alessandra Appiano si è suicidata due settimane fa, non so se era abbastanza famosa ma per me lo era, la seguivo da sempre e avevo letto alcuni suoi libri, a quanto pare soffriva di depressione ed è stata vinta dal male oscuro. Mi è dispiaciuto molto, mi sono sentita come se avessi perso un’amica.
    Per tornare al tuo post, cosa sceglierei per suicidarmi? Il metodo più indolore e rapido che esista, visto che sono una fifona terribilmente attaccata alla vita.
    Certo che sono davvero tanti gli scrittori che si sono suicidati! Io ricordavo bene solo Cesare Pavese che ho adorato da adolescente, all’epoca ho letto tutti i suoi libri ed ero piuttosto affascinata da lui anche per l’idea del suicidio. Il suicidio sembrava un gesto quasi romantico (non so voi ma io a sedici anni ero stranamente attratta dai gesti estremi…credo sia una coglionaggine dell’adolescenza, poi superati i vent’anni si rinsavisce, almeno per me è stato così).
    Purtroppo diventare famosi non salva dalle proprie ossessioni e dal proprio male di vivere, ma gli artisti di solito trovano ispirazione per la propria arte proprio dalle tristezze-ossessioni-depressioni personali (ho esteso il discorso dagli scrittori agli altri artisti e qui andiamo da Van Gogh a Jim Morrison ecc)

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    • Nanni Delbecchi: «Era un’artista vera, duplice anche nel suo lavoro, capace di tormentarsi per tre mesi sul “non ho più niente da dire” e poi di buttar giù di getto un romanzo nei tre mesi successivi. Sentiva come pochi l’ineluttabile trascorrere del tempo e aveva i suoi momenti di crisi; ma quale persona intelligente e sensibile non ne ha?»

      Non la conoscevo, però riesco perfettamente a capire quanto oscura e ineluttabile possa essere la depressione. È una malattia che ti divora da dentro. È più aggressiva del tumore e raramente lascia scampo. I medici non riescono ancora a comprenderla davvero, questa patologia. Le persone normali la vedo ancora come una sorta di svogliatezza… Come se la colpa fosse dell’individuo e non della malattia. Tutto ciò che aggredisce il cervello o l’umore viene ancora visto con sospetto e derisione. E questo non aiuta.

      Le persone intelligenti e sensibili, come dice Delbecchi, sono le più esposte a questo tipo di patologie. Ecco perché tra gli scrittori se ne trovano tanti che decidono di porre fine alla propria esistenza.

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  4. Farò gli incubi stanotte dopo aver letto questo post! Quello che mi ha dato più brividi è l’annegamento coi sassi in tasca, penso al momento in cui le è venuta a mancare l’aria e magari ha freneticamente cercato di togliersi il peso di dosso… che orrore.

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  5. Bell’articolo Salvatore, affrontato con il tono giusto senza scadere mai in ipocrite considerazioni. Bravo.
    Per quanto concerne l’argomento, ho sempre avuto una mia tesi a riguardo: eccesso di consapevolezza. Lo diceva lo stesso Wallace: un eccesso di consapevolezza può portare all’autodistruzione in quanto è capace di far cadere quel velo di “ignoranza” (passami il termine) che ci permette di vivere “ignorando” la realtà.
    Saliresti mai su una macchina se sapessi che questa si sfracellerà contro un muro a 120Km/h? Eppure noi viviamo una vita mortale, che avrà una fine certa. Non sappiamo quando, ma di sicuro avverrà. Cosa cambia con l’esempio della macchina? Nulla. Solo questa argomentazione potrebbe portare l’intera umanità all’estinzione se ci pensi.

    Buon week end!

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    • L’ignoranza è una benedizione, hai ragione. E ti ringrazio per i complimenti. Riusciamo a vivere perché, per nostra fortuna, ignoriamo il momento esatto e le modalità con cui la nostra esistenza si concluderà. Il grande demiurgo ha certamente valutato bene le sue scelte se alla fine ha preferito che noi, umili mortali, non avessimo consapevolezza di questo. Ignorando il momento della nostra morte, possiamo perfino fingere di essere immortali. Ed è così, almeno quando siamo ancora ragazzi forti e sani. Per i vecchi il discorso cambia. Osservano il loro corpo deteriorarsi e marcisce. Vedono la fine avvicinarsi. Diventa persino palese. E questo cambia tutto. Bell’argomentazione, grazie.

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  6. Pensi che un’idea suicida sia da piccolo-borghese? Comunque se io fossi una scrittrice non sceglierei mai il suicidio. Piuttosto verserei tante lacrime rileggendo la stesura del mio primo romanzo , troppo introspettivo. Soffrirei insieme alla mia protagonista. Sprofonderei con lei nei miei pensieri più nascosti. Sarebbe un continuo faccia a faccia con tutte le emozioni che avrei deciso di resuscitare . Quanto dolore e malinconia in quei pomeriggi da scrittrice . La mia storia poco coraggiosa rischierebbe di non trovare mai un finale .Se io fossi una scrittrice non spegnerei mai il mio corpo con una dose di morfina . Non sopprimerei mai le mie urla stringendo un cappio intorno al collo. Dopotutto è così bello e liberatorio urlare.

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    • No, non penso che l’idea né l’atto in sé siano prerogative della sola borghesia, grande o piccola. Se proprio vogliamo entrare in argomento, pare che le classi meno agiate, forse perché abituate a lottare di più e da sempre, ne siano meno soggette. Ma questa è un’opinione senza alcun supporto statistico che, invece, potrebbe smentirmi. Quindi lascerei stare.

      Dunque, il primo romanzo era introspettivo. Lo posso capire. Credo sia una cosa abbastanza diffusa. Almeno in chi non scrive narrativa di genere. La domanda che sorge spontanea invece è: com’era il secondo?

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