“Tanta gente urla verità, ma senza stile è inutile.”

— Charles Bukowski

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Come scrivere con stile e sopravvivere a esso

Di Stile si muore. Lo sanno bene i tanti autori che pur di suffragare la propria singolarità, scelgono di non svendersi alle occorrenze editoriali. In libreria un libro che non vende è out nel giro di poche settimane: quasi subito. Un libro scritto con “stile” è quasi certo che non venderà, e un autore che non vende è defunto ancora prima che di lui ne vengano esposte le esequie. Se volete considerarvi scrittori quindi, vi conviene piazzare almeno 1200 copie del vostro prezioso manoscritto già alla sua prima edizione. Meno di così, e non siete niente. Anzi, nessuno! Ma perché lo stile non vende? Soprattutto: cos’è lo stile?

“Quello che qualifica un buon libro non è la prima lettura, ma la rilettura.”¹

In Italia c’è questa idea: per dare l’impressione che si sia scritto qualcosa di valore, nessuno dev’essere in grado di capire cosa capperi si è scritto. Non alla prima lettura almeno. Se da un lato posso capirlo, frutto dei classici latini e della lunga storia della letteratura volgare, che per essere goduta necessita di un’opera di traslazione o di traduzione vera e propria nel moderno italiano; dall’altro sono a chiedermi se non ci si possa sforzare di includere forme espressive che non si focalizzino solo su un uso articolato della sintassi. Perché quando si parla di stile, viene quasi istintivo pensare a un “bello stile”; ovvero a una sintassi elegante, lemmi vezzosi e un uso generoso di vocaboli desueti ed espressioni altisonanti.

Ma lo “stile” in letteratura, o almeno, nella letteratura contemporanea, non è solo questo. Prima di affrontare questo discorso però – e rispondere alla fatidica domanda: cos’è lo stile? – vorrei spendere due parole su quella che sempre più spesso nella Repubblica delle Lettere appare come una divisione di campo: da un lato i fautori dello Stile sopra ogni cosa; dall’altro i suoi acerrimi detrattori: scrittori di genere o di narrativa commerciale, per lo più. Proviamo a osservare le ragioni degli uni e degli altri; entrambe a mio avviso in parte giustificate.

Se è vero che riuscire a toccare “certe corde” è facile (o almeno lo si presume), basta in fondo applicare una formuletta per tracciare un percorso da eroe, allora l’importanza letteraria di un libro deve per forza fondarsi su altri aspetti. Infatti, una volta che si conosce la meccanica del dramma, chiunque può scrivere narrativa d’intrattenimento che faccia piangere o ridere o struggere o indignare o tifare per questo o quel personaggio. Lo stesso Aristotele, più di duemila anni fa, l’ha indicata a tutti noi:

“È possibile che quanto produce terrore e pietà nasca dalla messa in scena, ma è anche possibile che derivi dalla stessa composizione dei fatti, il che è preferibile ed è proprio di un poeta migliore.”²

Viene da sé, quindi, che alcuni fondano il valore letterario di un’opera su altri elementi. Lo stile è uno di questi. In un mondo in cui tutto è stato detto, più volte e in molti modi diversi, non importa più cosa dici ma il come lo dici. Un problema simile l’avevano gli autori latini nella fase decadente dell’Impero, dove la retorica era diventata più importante del contenuto che avrebbe dovuto veicolare. Con retorica s’intende naturalmente un “modo elegante e attrattivo di dire le cose”, ovvero quella che Tacito con intenzione critica definisce la magna eloquentia. La vera eloquenza, infatti, ride dell’eloquenza fine a se stessa.

I detrattori dello “stile sopra tutto” fondano parte della propria critica sul vuoto pneumatico che certa eloquenza sembra volere nascondere. Se, prendendo in prestito l’immagine da Marziale, l’eloquenza è una fiamma e il contenuto il suo combustibile; venendo a mancare il combustibile, per quanto brillante, anche la fiamma è destinata a estinguersi. Certi vuoti riempiti da belle parole spesso lasciano spazio a un dubbio: “perché l’autore sta sprecando il nostro tempo senza dirci assolutamente nulla?” Magari lo fa con eleganza; ma il dubbio rimane.

L’uso di un linguaggio altisonante non nasconde solo una seccante mancanza di idee; a volte veicola perfino l’ambizione dell’autore di voler mostrare al lettore quanto bravo egli sia. Egli, l’autore. Certe composizioni infatti, sembrano urlare: io, io, io, io, io, io, io, io… senza soluzione di continuità. Pare che alcuni romanzi siano scritti solo per questo: dimostrare quanto l’autore si senta superiore a tutti gli altri, compreso il lettore. In Italia, e in certi ambienti soprattutto, questo avviene con una regolarità sconcertante; suffragata da certa critica di parte. A cui si aggiunge tutto un codazzo di “sodali e razzolamerda”, i quali nella speranza di vedersi cooptati dal club letterario esclusivo del momento, non hanno remore a ripetere come pappagalli quanto lo stile sia superiore a… cosa?… alla comprensione del lettore?

Chi ha ragione? chi torto? In realtà tutti e nessuno. Se è vero che la letteratura di una certa fase del Novecento, e penso ad esempio a Pavese, aveva soprattutto il compito di cercare «anime affini» da cui farsi leggere, e quindi non di indagare verità o intrattenere lettori, ma di scovare persone che condividessero un sentire gemellare con la “poetica” dell’autore; nella nostra realtà ormai molto diversa, basta connettersi a un social qualsiasi e digitare poche, semplici parole chiave per trovare una carrettata di gente che la pensa come te, che la pensa diversamente da te, ma soprattutto, che non pensa affatto. Il compito della letteratura oggi non può più essere quello che si davano gli autori del secolo scorso. Cambiando il contesto, cambia anche lo scopo per cui si scrive letteratura.

Gli autori di oggi devono essere più audaci dei loro timidi predecessori, i quali erano audaci a modo loro, sia chiaro, ma il compito dello scrittore nel contesto attuale è diverso: si ha un dovere verso i propri contemporanei – i contemporanei, non i posteri! – e per attenersi a questo sacro dovere, non ci si può permettere di tralasciare né il contenuto né lo stile. Viviamo in un’epoca di mezzo. Ciò che facciamo oggi, caratterizzerà il domani. Ma per farlo, non si può più pensare che i propri scritti verranno letti solo dagli uomini del futuro. Ciò non avverrà, e anche se dovesse avvenire non ci si può permettere di sprecare tempo e risorse verso qualcosa su cui non si ha alcun controllo. Sono i suoi vicini di casa le persone a cui l’autore moderno ha il dovere di parlare.

Tornando allo stile, esso è un mezzo per veicolare nel modo più efficace possibile il contenuto. Ma ci riesce solo se: 1. un contenuto esiste davvero; 2. lo stile riflette l’essenza stessa del messaggio che si vuole veicolare. Lo stile nel postmoderno è contenuto, ma lo è solo in parte. La struttura del romanzo, l’uso gergale del linguaggio, l’aderenza o meno alla Grammatica – con la G maiuscola – l’aspetto stesso del libro concorrono tutte a formare il messaggio, ma non a scapito del messaggio stesso. Nel secolo scorso ci avevano già provato Carlo Emilio Gadda, Thomas Pynchon, DFW,  Bret Easton Ellis, Italo Calvino e tanti altri. Per loro era sperimentazione, per noi un’esigenza.

A tutti coloro – editori in primis – che pensano che un libro scritto con Stile non sia destinato a vendere, vale la pena ricordare che anche i libri scritti senza stile sono destinati a fare la stessa fine. Ci si può omologare a un linguaggio editoriale e sperare che questo aiuti il lettore medio a immergersi con più facilità nella storia; o si può perseverare nella propria dialettica sperando che un giorno ne venga riconosciuta se non la genialità, almeno l’originalità. In entrambi i casi si commette un tragico errore.

L’errore consiste nel pensare che il lettore debba leggere un determinato libro per il semplice fatto che sia stato scritto. Di romanzi scritti con un linguaggio omologato traboccano le librerie. Di romanzi scritti con un linguaggio originale traboccano le librerie. Perché un lettore dovrebbe sceglierne uno in particolare? L’autore deve parlare al lettore, e lo deve fare con ogni mezzo a sua disposizione. Ma allo stesso tempo deve avere qualcosa da dire, altrimenti di cosa gli parla? E deve sforzarsi di farsi comprendere. Scrivere con stile, dunque, non è un modo per complicargli la vita; al contrario dev’essere un tentativo di andargli incontro. Serve Amore per scrivere qualcosa che abbia davvero valore. Il lettore non è un nemico e non è nemmeno un consumatore: è un uomo o donna che ha esigenze, sentimenti, idee, sensazioni del tutto simili a quelle dell’autore.

Per quanto mi riguarda, il primo dovere della narrativa – e parlo di “narrativa” a proposito – è di intrattenere il lettore. Il secondo, è di riuscire a parlare a quante più persone riesce. Lo stile viene solo al terzo posto. Ma un libro scritto davvero con stile, dove lo stile è funzionale al colloquio e non vuoto formalismo, esso assolve a tutte e tre le funzioni perché ne è parte integrante e mezzo veicolare. Se poi la narrativa, o certa narrativa, è destinata a diventare anche

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Note

¹ Carlo Nordio, presidente Premio Campiello ed. 56ª

² Aristotele, Poetica

49 Comments on “Lo Stile in letteratura”

  1. Passo al commento serio (o almeno ci provo :P)
    Da ing. aeronautico come dovrei rispondere alla domanda se per un aereo è più importante l’ala o la fusoliera?
    Senza l’ala l’aereo non vola, ma senza fusoliera è inutile che voli.Sì, è vero, esistono aerei tuttala, ma sono per lo più esercizi di stile (appunto :P).
    Non è lo stesso per un romanzo? Senza contenuto (la fusoliera) è inutile leggerlo, ma senza stile (l’ala) è difficile che riesca a volare 😉

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  2. Come sappiamo lo stile è qualcosa di complesso. Non è il semplice utilizzo delle parole, ma l’intero sistema libro. Come la storia è stata gestita nel passaggio tra un capitolo e l’altro. La successione dei paragrafi. Il ritmo narrativo. La linguistica adottata. Il tipo di immagini, metafore, similitudini. I vocaboli e via dicendo.
    Un romanzo potrebbe avere uno stile linguistico elementare, ma presentare uno stile di distribuzione della storia lungo i capitoli straordinario o innovativo.

    Molti invece riducono lo stile soltanto all’elaborato del testo. Ma chi è fautore del bello stile, spesso è fuorviato dalla sua stessa percezione mentale. A livello inconscio o palese, ritengono che i best seller, ovvero i romanzi popolari, per essere tali, hanno uno stile scarso o minimo. Pertanto se i best seller si concentrano sul valore della storia e hanno uno stile minimo, io che voglio scrivere letteratura devo abbassare il valore della storia e far risaltare il libro nello stile linguistico.
    In pratica la maggior parte dei fissati del bello stile, fonda il proprio credo su una premessa errata. Se quelli hanno successo, io faccio l’opposto e quindi sono letterario.
    Ma il paradosso ancor più pregnante di questa tipologia di scrittori, è un altro. Cioè loro aspirano a scrivere alta letteratura e in cuor loro desiderano il successo di pubblico. Puntano tutto sull’opposto di quel che ama la massa dei lettori, disdegnano i libri che piacciono ai lettori, realizzano robe astruse che leggeresti solo sotto allucinogeni e in cuor loro aspirano al successo per meriti letterari. Boh.

    Io penso che la storia sia alla base. E che la storia sia alla base di qualsiasi testo è un dato tangibile. Empirico. Possiamo prendere i capolavori della letteratura mondiale e verificare.
    Qual era lo stile dell’Iliade e dell’Odissea? Boh. Ma tutti conosciamo la storia dell’assedio di Troia e delle peripezie di Odisseo. Com’è il Don Chisciotte? Beh, anche tradotto il Don Chisciotte dimostra uno stile che non rispecchia più i canoni attuali, eppure la Storia del Don Chisciotte, la sua metafora è di una grandezza universale. I grandi classici della letteratura, sono tali, perché la storia è ciò che si è preservata fino a noi. Gli scritti del passato che invece si basavano sostanzialmente sul bello stile, sono tutti scomparsi. Un esempio eclatante? Il Metastasio. Metastasio diceva proprio che lo stile deve avere la meglio sulla storia. E’ stato famosissimo nel suo tempo, ma dato che i gusti stilistici cambiano, di Metastasio già in pochi ricordano il nome e soltanto chi ha studiato lettere classiche potrebbe raccontare la storia di qualche sua opera.

    Perché il paradosso finale di questo ragionamento è proprio questo.
    Molti scrittori vorrebbero diventare immortali scrivendo un’opera dal grande stile, senza rendersi conto che le storie basate solo sullo stile sono le più mortali di tutti, perché il gusto del linguaggio varia con le generazioni e diventa sempre più incomprensibile col passare dei secoli.
    Ariosto, Dante, continuano ad avere una valenza importante, perché al grande stile delle loro opera, sono associate delle storie importanti, universali sull’essere umano. I loro contemporanei che avevano basato tutto sullo stile o che raccontavano storie meno universali, sono del tutto scomparsi. Di qualcuno ne conosciamo appena il nome, la maggior parte regna nell’oblio.
    Poi tutto è opinabile. Anche questo. 😉

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      • Certo. Infatti sono fra i più grandi di tutti i tempi. Io non dico che non bisogna ricercare un proprio stile, dico che lo stile è più complesso del semplice uso linguistico. Ogni scrittore dovrebbe ricercare il suo bello stile, però è anche evidente che uno come Dante che ha scritto la Commedia con terzine alternate di endecasillabi, con la sua potenza di storia, è pressoché un unicum di tutta la letteratura mondiale.
        Proust è il fenomeno per antonomasia del bello stile in prosa. Ma prenderlo a modello è da folli. Solo pochissimi nella storia dell’umanità hanno avuto il suo talento.

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        • Forse ognuno dovrebbe semplicemente scrivere come sa. Se poi quello che produce è bello si pubblicherà. Spesso si pubblica anche se è brutto, però. 🙂

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          • Beh, secondo me ognuno dovrebbe provare (almeno proavre, dai) a scrivere meglio di come sa. Però si sa che noi lettori abbiamo pretese assurde 😀

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          • Io ad esempio ho una mia idea sullo stile. E cioè che non è l’autore a determinare il proprio stile, ma l’opera a suggerire quello congruo.
            Cioè, secondo me, ogni romanzo dovrebbe essere scritto con uno stile diverso.
            Il mio secondo romanzo, quello sentimentale, ha uno stile completamente diverso dal primo romanzo il giallo. Il distopico che ho nel cassetto, ne ha un altro ancora.
            A me piace questo. Non imparare un proprio stile e seguirlo dal principio alla fine della vita. Trovo affascinante variare gli stili a seconda dell’opera, di come vuoi comunicare. Sempre considerando che lo stile non è solo la cifra linguistica, ma il romanzo nel suo complesso.

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  3. Io sono dell’idea che stile (o forma) e contenuto siano, anzi debbano essere, un unicum inscindibile. Lo stile diventa parte del contenuto perché contribuisce a dargli forma e a renderlo visibile.
    Voglio dire, nella pittura non ci stupiamo quasi mai del fatto che per rappresentare un determinato contenuto venga scelta una determinata forma. Anzi, proprio la scelta di quella forma per quel contenuto ne dà senso espressivo.
    Mi viene in mente la Guernica: avrebbe avuto la stessa forza espressiva se fosse stato scelto uno stile, chessò, impressionista? Credo proprio di no.
    Lo stesso accade nella narrativa, come in tutte le forme d’arte. Una storia diventa qualcosa di speciale e di specifico proprio in virtù di come viene narrata.

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  4. Un esempio di stile perfettamente coniugato con il contenuto è Camilleri. So che molti storceranno il naso. Essendo best seller, viene messo in automatico nella lista degli scarsi. In realtà Camilleri è riuscito in qualcosa di straordinario. Ovvero diventare popolare con uno stile tutto sommato non semplice. Di fatto ha inventato un meta linguaggio. Una lingua che si ispira al siciliano, ma che non è siciliano, fusa con le strutture sintattiche e verbali dell’italiano.
    Dare per scontato che questo tipo di meta-linguaccio o Grammelot come lo avrebbe definito Fo, potesse aver successo, è un azzardo assoluto. Ci provino altri scrittori a creare meta-linguacci con il romanesco, il milanese o il sardo e poi vediamo se giungono al successo.

    E in tal senso, c’è un aneddoto che pochi conoscono. Io dai diciasette ai vent’anni ho letto tutti i libri di Leonardo Sciascia, dai romanzi, ai saggi. Ma proprio tutti. Sciascia è il mio padre spirituale, in tal senso. E fra i saggi, Sciascia, racconta di uno scrittore che gli aveva presentato un romanzo (sperando che a Sciascia piacesse per intercedere nella pubblicazione, vedi te) che era un misto di italiano e siciliano. A Sciascia quel modo di raccontare non piacque e lo disse all’autore e l’autore rispose che a lui gli veniva solo così di raccontare. Sciascia da illuminista qual era gli disse che se sapeva raccontare le storie così, così avrebbe dovuto continuare a raccontarle. Purtroppo non riesco più a trovare il passaggio, ma poi quando vidi i romanzi di Camilleri e il successo crescente, pensai ma guarda, sicuramente era lui che Sciascia aveva citato. E la cosa è possibile perché Camilleri ha raccontato tante volte della sua amicizia con Sciascia.
    Questo per dire che, anche Camilleri in principio, non solo non fu capito per il suo stile ardito, ma che non ebbe successo di pubblico. Esplose successivamente quando già aveva pubblicato parecchi romanzi.
    Lo stile non è per nulla scontato. Può essere anche complicato, eppure, se la storia c’è, se il personaggio riesce a colpire i lettori, nulla è impossibile.

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    • Bell’aneddoto. Ma lo stile, aggiunge qualcosa alla storia? Voglio dire, i libri di Camilleri che citi, avrebbero avuto lo stesso successo se fossero stati scritti in un italiano standard? Forse la storia da sola non basta…

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      • Non c’è una controprova che Camilleri avrebbe avuto successo a prescindere. Probabilmente sì, visto che la trasposizione televisiva del suo commissario è sempre la più vista.

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        • Io ho provato a leggere un romanzo di Camilleri e non ci sono riuscita, anche se non mi perdo neanche una puntata del Montalbano televisivo, repliche comprese. Insomma pur apprezzando Camilleri la lettura di quel mix italiano-dialetto non mi prende, magari ci riprovo più avanti.
          Così come non impazzisco per Saramago che scrive senza virgole e punti, con una punteggiatura tutta sua. In ogni caso penso che ogni autore abbia un suo imprinting che si riconosce anche in romanzi diversi e anche se la storia presenta delle differenziazioni necessarie (come quelle tra giallo e rosa).

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            • Anche Saramago, niente caporali o virgolette, almeno è così nel libro che ho letto io “Le intermittenze della morte”. Stranamente si capiva tutto lo stesso, però preferisco i libri scritti in modo normale. Però devo dire che la storia non è male, è una provocazione, con tanta ironia…

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    • Per il romanesco mi viene in mente quel pasticciaccio brutto, ma l’ho letto un sacco di anni fa (e quindi non mi ricordo bene come funzionava) e parliamo di Gadda.
      Oltre tutto il romanesco non è propriamente un dialetto, ma più una parlata, il che rende il gioco stilistico più facile.

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      • Certo, Gadda è un esempio importante. Ma il Pasticciaccio Brutto è il classico romanzo che tutti citano, ma pochi hanno letto. Io ci ho provato da ragazzo e l’avevo trovato molto ostico. Dovrei riprovarci con la maturità e la pazienza.

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        • Io l’ho letto quando ero al liceo e mi era piaciuto, anche per la storia. Però devo ammettere che ai tempi del liceo leggevo roba più ostica di adesso 😉

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      • Quel Pasticciaccio è complicato da leggere; forza il lettore a una continua opera di traduzione. Non solo per l’uso del dialetto. Perché l’autore passa continuamente dal dialetto romanesco, quello proprio basso, a un italiano che adopera termini talmente tecnici e specifici che devi andarteli a cercare sul dizionario.

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  5. Bene, hai voluto riprendere l’argomento dopo la discussione su FB. Abbiamo esposto le nostre opinioni. Io ho esposto le mie. Come mi capita spesso sono stato frainteso. Questo è bene. In un dialogo onesto non può che incentivare l’approfondimento e la discussione.
    Mi ero permesso di affermare quanto segue (faccio copia e incolla), ovviamente dando per scontate alcune considerazioni di base inerenti alla scrittura e allo stile dei singoli:
    … I riferimenti linguistici sono marginali. Ha valore tutto ciò che aggiunge un piccolo tassello al più ampio mosaico che attiene alla memoria ancestrale, collettiva. Non vedo alcuna utilità nella letteratura che rientra nei canoni di una ricerca stilistica fine a se stessa …
    Ovvio che lo stile sia importante, ognuno ha il suo e la ricerca della perfezione stilistica è imprescindibile. Il mio j’accuse è indirizzato alla ricerca stilistica fine a se stessa. Lo ripeto perché è meglio, visti i trascorsi. Mi è stato risposto attribuendomi pensieri che non ho, una visione che non mi appartiene, controbattendo con una dichiarazione che involontariamente afferma in pieno quello che volevo sottolineare. Sono stati fatti esempi di persone che, come sostengo debba accadere, hanno rivisto e reinterpretato gli stili della loro epoca. Artisti che non si sono accodati ma che hanno aperto nuovi capitoli interpretativi. Rivoluzionari che hanno superato i canoni stilistici loro contemporanei creandone di nuovi. Persone che hanno aggiunto quel famoso tassello di cui sopra. Ovviamente sempre nell’ambito di ciò che è imprescindibile: la cultura dell’uomo e delle sue forme espressive, addirittura sublimandole.
    Quindi, mi sono preso la mia botta di scemo, me la sono tenuta limitandomi a far osservare che nel contraddittorio in realtà mi veniva data ragione. Ribadisco, non ho sottovalutato lo stile, ognuno ha il suo e molti ne coltivano una forma che è senz’altro aulica. In riferimento all’articolo che ha provocato la discussione,ho soltanto stigmatizzato l’artificio stilistico fine a se stesso, quello largamente riconosciuto dalla parrocchietta di intellettuali che se la cantano e se la suonano spartendosi i premi letterari sempre tra loro, e con in evidenza sempre le stesse case editrici. Punto
    Io, da umilissimo cultore e scribacchino da diporto, mi affido alla definizione di quel pazzo visionario di Van Gogh nella lettera al fratello Theo del 1879. E qui ti ripropongo un commento di qualche tempo fa. Non so nemmeno dove lo postai.
    “A tutt’oggi non ho trovato miglior definizione dell’arte di questa: l’arte è l’uomo aggiunto alla natura. Natura, realtà, verità. Ma col significato, il concetto, il carattere che l’artista sa trarne, che libera e interpreta.”

    Personalmente credo che il tempo, inteso come contemporaneità o passato, sia ininfluente, come anche le architetture sociali che ruotano attorno “all’oggetto” artistico. Ciò che annichilisce, stupisce per la sua bellezza, e subito dopo ci impone, come reazione, una profonda riflessione, beh, quella per me è arte. Devo anche aggiungere che credo nell’estinzione del concetto classico di arte. Le sensibilità cambiano, la società cambia, tutto è funzionale. Sono pessimista. La mia piccola nota polemica è legata alla differenza tra letteratura aulica e narrativa a larga diffusione nel senso comune del termine. Una cosa non esclude l’altra, così come non escludo l’importanza di alcuni successi editoriali nel panorama artistico, vedi Philip Roth: milioni di copie, film tratti dal suo lavoro, eppure è innegabile che la sua sia Letteratura.
    Per concludere, mi scuso per il pippotto, tutto ruota intorno a canoni stilistici, al messaggio, alle singole sensibilità che beneficiano del prodotto artistico. Quindi? Quindi niente, torniamo alla difficoltà di definire l’arte, perché l’arte attiene al trascendentale ed è tale se il prodotto artistico ci offre qualcosa che va oltre il contingente, il triviale e banalissimo quotidiano. Il resto è pura accademia.

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