Singletudine

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singletudine s. f. [der. da single su modello di solitudine • 1990]. – Nel linguaggio giornalistico, condizione di chi vive solo e/o non coltiva un rapporto sentimentale stabile.

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Lo chiamano amore

Siamo costantemente alla ricerca di qualcosa che ci completi. Qualcosa che ci definisca come individui e ci faccia sentire sicuri, soddisfatti, felici. Per questo motivo compriamo oggetti costosi che in realtà non ci servono: automobili veloci, cellulari potenti, vestiti alla moda, accessori firmati, appartamenti lussuosi… Per permetterceli, competiamo fra di noi nel tentativo di ottenere un posto di lavoro ben pagato anziché appagante. E visto che tutte queste cose non ci danno la soddisfazione che speravamo di raggiungere, siamo costretti a fare paragoni con gli altri.

Funziona in questo modo. L’impiegata trentasettenne con un ruolo medio-alto in una grossa multinazionale scopre improvvisamente di non avere più vent’anni. Si guarda attorno e vede donne più giovani di lei. Si osserva allo specchio e nota più rughe di quante ne ricordasse. Come rimedio acquista un vestito o accessorio ma rigorosamente firmato. Lo fa perché il bombardamento propagandistico a cui è continuamente sottoposta le dice che in questo modo si sentirà più realizzata; e realizzata, in questa nostra epoca, ce l’hanno venduta come sinonimo di felice.

Indossa quindi l’abito o accessorio costoso ma felice non ci si sente per nulla. Difatti, non è cambiato niente. Con o senza quel vestito è la stessa identica donna di prima. Ma ormai i soldi li ha spesi, e la propaganda non può sbagliare. Quindi, o c’è qualcosa che non va in lei, oppure non sta valutando se stessa nel modo corretto. Si guarda ancora attorno e comincia a fare confronti per avere un termine di paragone. La ventenne, infatti, sarà pure più giovane, ma un vestito o accessorio come il suo (ancora) non può permetterselo. Quindi LEI, la trentasettenne, è per forza migliore della sua “concorrente in ascesa”.

Quando anche la sua “concorrente in ascesa” potrà finalmente permettersi lo stesso vestito o accessorio costoso, ormai non avrà più vent’anni. E quel vestito o accessorio costoso l’avrà comprato non perché le piacesse o ne avesse un disperato bisogno, ma solo per confermare a se stessa che tutti quegli anni passati a fare carriera per potersi finalmente permettere il vestito o accessorio costoso della trentasettenne di cui sopra, non sono stati anni sprecati. Siamo costantemente alla ricerca di qualcosa che ci completi dicevo, e per farlo disgreghiamo senza troppi indugi la nostra identità.

Sia chiaro, l’esempio della donna trentasettenne che acquista un vestito o accessorio costoso è solo un facile espediente retorico a cui ricorrere. Ma questo discorso coinvolge tutti: donne e uomini, giovani e anziani, ricchi e poveri, e ogni aspetto della vita… pure quello sentimentale. Sì, perché, per parlarci chiaro, quante persone sono onestamente innamorate del partner che hanno accanto? Quanto tempo impiegherebbero a sostituirlo, se ne avessero la possibilità e se per farlo non rischiassero nulla e non venissero giudicati, a sostituirlo con uno/a “socialmente migliore”? La risposta non chiedetela a me: io nell’amore credo ancora.

Il termine singletudine è stato coniato negli anni novanta da un qualche giornalista di rotocalchi scandalistici a basso budget, che necessitava di un argomento futile con cui riempire una mezza paginetta patinata. Deriva da single, sostantivo inglese che indica un individuo – uomo o donna – non accoppiato. In italiano abbiamo i termini celibe e nubile, ma non abbiamo un termine neutro come gli anglofoni. I nostri zitella e scapolo, che al pari di celibe e nubile non sono neutri, oltre a essere desueti hanno pure un retrogusto sprezzante. Come se essere “soli”, cioè il non far parte di una coppia, sia in qualche modo avvilente; o ci definisca come individui, sì, ma in modo detrattivo, sminuendoci.

Il giornalista di cui sopra doveva avere un’opinione fortemente negativa di chi forma un nucleo familiare singolo, di chi fa coppia con sé stesso per essere chiari, visto che per coniare il termine ha preso come modello di riferimento la parola solitudine:  single + solitudine = singletudine! Il genio deve aver pensato che si è singoli solo per motivi puramente causali: l’essere stati mollati, ad esempio; o l’essere stati traditi. Oppure per sottrazione: separazioni, divorzi. O, ancora, per motivi di tipo naturale: la morte del compagno/a, quale che sia la causa del decesso. O per essere stati respinti, ignorati, sfruttati (sessualmente o sentimentalmente), ecc. Infine, la più negativa di tutti, a causa di un aspetto talmente ributtante che riuscire a trovare qualcuno/a che ti si fili assomiglia più a una cerca cavalleresca, tipo Sacro Graal.

In genere, per essere politicamente corretti, si concede anche un’alternativa meno mortificante: avere gusti altamente selettivi. Di una donna raffinata che fa vita da single e che non avrebbe difficoltà a trovare un uomo, se solo lo volesse, infatti si dice (o si pensa senza dirlo) che ha gusti difficili. La signora ha la puzza sotto il naso. Se la tira come se ce l’avesse solo lei. È concentrata sulla propria carriera, la troia, e non trova il tempo di fare quello per cui è geneticamente predisposta: la casalinga; rubando il lavoro, e il conseguente successo, alla controparte maschile che, solo a causa del fatto di non essere fornito di apparato mammario sviluppato, non riesce a competere.

Che, ammettiamolo, è pur sempre meglio di un’altra etichetta. Quella della ninfomane affamata di sesso che, anche volendo, non potrebbe condividere il letto con un solo uomo. Ma questo, in realtà, non pregiudica il riuscire a convolare a nozze. Perché, per loro fortuna, esistono anche uomini a cui le corna piacciono. E poi, anche non piacessero, devono pur sempre riuscire a beccarle: le adultere. E le donne non sono facili da beccare.

La controparte maschile è quella dei vitelloni. Verso gli uomini si hanno pregiudizi di tipo diverso, è vero. Ma non cambia il risultato. Un vitellone, parafrasando il noto film di Fellini, era un giovane disoccupato di provincia che, non riuscendo a trovare lavoro, passava le giornate a oziare. Aggiornandone il significato alla nostra contemporaneità, un vitellone è un ragazzo di buona famiglia che privo della necessità di lavorare, perché prima o poi erediterà, passa il suo tempo in modo dissoluto senza alcuna ambizione. Anzi, con una ambizione solamente: farcire quante più femmine gli riesca. Ma anche questo però, non pregiudica l’avere al proprio fianco una partner fissa e accomodante.

Tutti questi pregiudizi di cui siamo vittima non possono non avere una conseguenza. Il vero dramma della contemporaneità è che ognuno di noi vorrebbe essere qualcos’altro. Nessuno ha il coraggio di essere semplicemente se stesso. E quindi, per concludere, siamo alla costante ricerca di un equilibrio che ci stabilizzi. La stabilità è l’autostrada per la felicità. O almeno, così dicono. Solo che, anziché cercarlo dentro di noi, dove in effetti risiede, ci aspettiamo che a procurarcelo sia qualcosa di esterno a noi. Per la maggior parte degli uomini e delle donne, avere al proprio fianco un partner è un’esigenza. Un modo per sentirsi appagati, sicuri, felici… In una parola: completi.

Tutti conoscono la storia dell’anima gemella; dell’altra metà della mela. Ma questa è, appunto, solo una storia. Bella da ascoltare e, forse, da raccontare; persino romantica. Ma solo una storia. La verità è che nasciamo soli, moriamo soli, e passiamo buona parte della nostra vita da soli. Non è la persona che abbiamo al nostro fianco a fare di noi ciò che siamo. Quella persona non è un accessorio costoso da indossare per sentirci “migliori”. È un uomo/donna che vede in noi quello che noi, proprio, non riusciamo a vedere. Lo chiamano amore.

Il vero single, colui che non è vittima della singletudine, è un individuo – uomo o donna – che pur non avendo un compagno/a al proprio fianco, perché per sentirsi completo/a o appagato/a non necessità di una figura esterna, è comunque circondato da amici, ha affetti, intesse relazioni amorose, pur saltuarie, ritagliando però per sé buona parte della propria giornata. Il vero single, colui che non è vittima della solitudine, è una persona piena di amore. L’amore non sgorga da qualcosa che abbiamo, da ciò che possediamo o da quello che ci circonda; sgorga da noi stessi.

33 Comments on “Singletudine”

  1. Singletudine non mi piace come termine. Chi lo dice che chi non è sposato, fidanzato, in coppia insomma, soffra o viva in solitudine? Potrebbe essere il contrario qualche volta, eh. Si è soli in coppia. Si spera di no, ma non è mica detto che chi è accoppiato sia felice e in compagnia del partner.

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    • Ottima riflessione, Tiziana. La solitudine non tiene conto di quante persone ti circondano o con chi condividi la giornata. Anzi, la solitudine che si coltiva in coppia, a parer mio, è persino peggiore. Almeno chi è single per scelta (ma anche come conseguenza) è più onesto con se stesso. Grazie.

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  2. (Bentornato). Lo stesso equivoco, infatti, avviene per il concetto di solitudine. E forse non a caso viene abbinato a single. In una società dove si è tutti connessi anche”avere tanti amici” è uno status symbol. Quando ero giovane io (un secolo fa) lo status symbol consisteva nel far parte del gruppo più figo, ovvero andare nei locali di un certo tipo e potersi considerare parte dell’ambiente, conoscere tutti. Anche allora, che non erano amicizie virtuali, erano pure conoscenze, che poco avevano dell’amicizia reale. Oggi contano i like, ieri contavano le conoscenze.
    Ecco, io credo che il bisogno di socialità sia innato. Certamente c’è una propensione ai rapporti sociali e alla dimensione del gruppo poi della coppia. Ma è anche vero che spesso la ricerca dell’altro (in qualsiasi forma essa sia) è un bisogno di colmare un vuoto cosmico che, come dici tu, non riusciamo a colmare da soli.
    Io penso che finché non si sta bene da soli con sé stessi sia quasi impossibile riuscire a star bene con gli altri.

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    • Grazie, Silvia. I tuoi commenti mi mancavano. Ti ho sempre considerata una donna molto, molto intelligente. La tua analisi è perfetta. Per dimostrartelo, vorrei citarti alcuni passaggi tratti da Amore liquido di Zygmunt Bauman:

      «I protagonisti [di questo libro, n.d.r.] sono uomini e donne contemporanei, abbandonati a se stessi, che anelano la sicurezza dell’aggregazione e una mano su cui poter contare nel momento del bisogno, e quindi ansiosi di instaurare relazioni ma al contempo timorosi di restare impigliati in relazioni “stabili”, poiché paventano che tale condizione possa comportare oneri e tensioni che non vogliono né pensano di poter sopportare e che dunque possa fortemente limitare la loro tanto agognata libertà di… instaurare relazioni. […] I nostri contemporanei sono tutti alla ricerca di amicizie, legami, aggregazione, comunità. In realtà, tuttavia, l’attenzione oggigiorno dell’uomo tende a incentrarsi sulle soddisfazioni che le relazioni si spera arrechino, per poi scoprire che spesso il prezzo di tale appagamento è eccessivo e inaccettabile».

      Ieri frequentavamo i gruppi, i locali, gli eventi; oggi frequentiamo i social, i gruppi dei social, gli eventi dei social… La lancetta si è solo spostata da materiale a virtuale, ma il risultato non è cambiato. Ci sentiamo soli. In coppia, in famiglia, in gruppo: non importa. Ci sentiamo soli e per compensare il vuoto cosmico che ci portiamo dentro, ci circondiamo di oggetti che non ci servono o di persone a cui non abbiamo nulla da dire. E questo coinvolge quasi tutti. Sai come faccio a saperlo?

      Qualche tempo fa, sotto pseudonimo, ho aperto una pagina Facebook in cui chiedevo alle persone cosa pensassero della solitudine e se si sentissero soli. La risposta più tipica è stata: «Non lo so, non mi sono mai sentito solo/a. Ma mi dispiace molto per chi ci soffre…» Ecco, quando un’intera comunità ribatte che… no, io no, mai vissuto un’esperienza del genere, stai sicura che sono proprio i primi a soffrirne. Ne prendono le distanze per difesa. Ma il primo passo per guarire, e vale per ogni “malattia”, è rendersi conto di avere un problema (o limite, situazione, ecc.) e accettare la propria condizione. Il resto viene da sé.

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  3. Io però (ed è sempre tragico cominciare uno scritto con io però), ho sempre più difficoltà a analizzare le cose e il nostro tempo. Perché più vado avanti negli anni e, oltre a un certo strato di saggezza, non voluta, subentra il riscontro, sempre più evidente, che tendiamo a estremizzare i giudizi sul nostro tempo. Studiare la storia, le epoche passate, mi fa credere che un antico e pessimista detto siciliano, abbia sempre più ragione: Munnu a statu e munnu è. Cioè il mondo in fondo non cambia rispetto al passato e intendo anche il passato ormai remoto, antica Grecia, periodo romano.
    Nel senso che, da quei tempi, a livello sociale, è cambiato tutto indubbiamente, ma a livello umano, siamo composti dalle stesse sostanze di desideri, passioni, tristezze e solitudini.
    Per cogliere il tuo esempio iniziale sulla donna che va a comprarsi l’abito nuovo per colmare un vuoto, non è poi molto dissimile da una donna greca di 2500 anni fa. Basta visitare un museo, e se venite in Sicilia, consiglio il museo Paolo Orsi di Siracusa, per vedere come quelle donne avevano pettini cesellati, strumenti per le acconciature, specchi e tante di quelle cose e necessità per sentirsi belle, che noi oggi reputiamo moderne, ma che in realtà fanno parte dell’istinto naturale dell’essere umano. Essere soli dentro, è un sentimento che cogliamo pienamente anche nella letteratura antica.
    Cioè, quel che a me non quadra, è il giudizio (negativo) che spesso diamo ai nostri contemporanei, quando in realtà determinate condizioni sono sempre esistite perché fanno parte della nostra natura innata.
    Oggi, abbiamo di diverso, il contesto sociale, che può accentuare o diluire la condizione esistenziale. Gli strumenti, di cui, a me pare ovvio, spesso non siamo preparati nell’utilizzo, perché giunti troppo repentini.
    Un esempio classico, di mal giudizio facile, è prendersela con i giovani d’oggi perché stanno sempre attaccati agli smartphone. Sento, vedo e leggo su Facebook giudizi delle nostre generazioni, in cui si esalta che noi ai nostri tempi, avevano una vita sociale diversa. Come se fosse colpa dei giovani d’oggi, se si ritrovano in un’era in cui c’è questa nuova tecnologia.
    Io potrei fare il Muzio Scevola della situazione e immergere una mano sul fuoco, se gli smartphone di oggi, fossero stati inventati ai nostri tempi, noi giovani di allora saremmo stati tali e quali ai giovani di oggi, attaccati ad uno schermo.
    E infatti, anche noi adulti di oggi, ci siamo, passami il termine, rincoglioniti con smartphone e social. Tantissime coppie ormai scoppiano perché galeotto è Facebook, Messanger, Whatsapp.
    Ecco, non so se sono andato a tema con il post, ma il post mi ha ispirato queste considerazioni, che probabilmente saranno anche strambe e incomplete. Ma tronco qui perché fra poco ho un appuntamento telefonico importante e non ho ancora fatto i compiti. 😛
    Vedi te, prima il diletto e poi il dovere.
    Come si dice sempre in Sicilia: semu pessi! XD

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    • Non potrei essere più d’accordo. È un dato di fatto che in ogni periodo storico si possono leggere caratteristiche proprie dell’essere umano molto simili tra di loro e, sebbene il progredire della cultura e della scienza abbia in certi casi migliorato certe condizioni, le pulsioni e i sentimenti quelli sono. Anche perché, mi dicono amici che si intendono di neoscienze, il cervello è molto più recente del corpo e deve fare i conti con sensazioni fisiche che non riesce ancora a interpretare e a gestire. Pensiamo che la Storia ha poco meno di 6000 anni, mentre la Preistoria ne ha 3,5 milioni. Come dire: siamo molto più simili noi agli antichi greci di quanto lo fossero loro nei confronti di un uomo primitivo.
      Detto ciò è anche verissimo che, quand’ero giovane io, il tormentone era sulla televisione e sui videogiochi, che sembravano fonderci il cervello, anziché sui social. Come dire: la colpa è sempre dei giovani, ma lo dicevano già gli antichi romani (O tempora, o mores.).
      Forse quello che è diverso ora è che c’è molta più consapevolezza dei limiti della nostra società e molto più tempo per discuterne.
      Pensiamo, per esempio, che siamo geograficamente e storicamente nella società più sicura possibile, eppure siamo in quella più paurosa. Vediamo ovunque pericoli e siamo molto più apprensivi con i nostri figli di quanto lo fossero i nostri genitori, che invece avrebbero avuto molto più ragioni di noi di esserlo, ma non lo sapevano o non ci pensavano. Verrebbe da dire “beata ignoranza”.
      Perché alla fine siamo quasi schiacciati dalla consapevolezza e facciamo ben poco per porvi rimedio. Come se il benessere raggiunto ci avesse un po’ impigriti e, per tornare al tema iniziale, in fondo ci stesse bene crogiolarci in questa specie di vuoto cosmico, da cui ci distraiamo con l’intrattenimento vuoto (che sia quello dei social o quello dei locali di moda o quello del salone del libro).

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      • Splendido commento. Mi permetto di intervenire solo su un aspetto: la differenza, in positivo, tra social e televisione è sita dell’interazione dei primi. Per fortuna internet, a differenza del televisore, ha il pregio di permettere uno scambio – come stiamo dimostrando noi in questo momento – tra un lato e l’altro dello schermo. Questa è, a mio avviso, una differenza fondamentale. La televisione rincoglionisce il cervello proprio perché non permette alcuna replica; mentre dove c’è replica, c’è pur sempre una forma di scambio e quindi cultura. Cultura pop, certo, ma cultura. 🙂

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      • Hai ragione Silvia, viviamo nel periodo di maggior sicurezza, eppure ci sentiamo altamente insicuri. Abbiamo più consapevolezza, è vero. Probabilmente anche l’eccessiva informazione ci sta influenzando. Il sapere tutto ciò che accade nel mondo, come se accadesse dietro l’angolo di casa, ci porta a costruire barriere naturali contro i mali del mondo. Ne siamo un po’ tutti vittime. Di recente, mi è capitato al Bowling, eravamo in gruppo, una persona che conosco, il figlio di cinque anni gli aveva chiesto di andare al bagno e il papà gli aveva detto, vai pure. Io subito ho detto all’amico: ma come, mandi un bambino di 5 anni al bagno, di sabato sera, con il boowling pieno di centinaia di persone, con il bagno dei maschi che possiede i pisciatoi a vista. Il pensiero istintivo è stato di orrore. Eppure qual era la probabilità che in quel bagno ci fosse un pedofilo o sequestratore di bambini? E’ chiaro che la mia paura è una paura influenzata da tutto il male che accade quotidianamente in un territorio vastissimo.

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    • Apri un mondo che non avrei voluto scoperchiare. Non per la difficoltà nel rispondere a questo tuo splendido commento, ma per la mole di tempo e parole che mi costa farlo in modo decente. Parto dunque con una carica propositiva: hai perfettamente ragione nel sostenere che le esigenze di oggi, con tutte le loro criticità e meschinità e tristezze e gioie e speranze, non sono affatto dissimili da quelle di un tempo. L’uomo a stimoli dati, risponde sempre allo stesso modo. I sociologi, e le multinazionali, ci hanno costruito imperi sopra a questa cosa. Cambia il mondo, cambiano alcune esigenze sociali in termini di organizzazione e cambia la tecnologia, ma noi restiamo sempre gli stessi.

      Parlando di epoca romana, non credo di conoscere nessun altra società in cui il maschilismo e il machismo del maschio fosse tanto presente, stimolato, supportato e dilagante quanto presso la Roma antica. Ma, leggendo, ho scoperto una cosa interessante: la cura ed educazione dei figli, in epoca repubblicana, era affidata alla donne. Come la Cornelia dei Gracchi, erano proprio le donne a educare i loro figli affinché fossero degni discendenti della lupa. Le donne di epoca romana accettavano il loro ruolo di “subordinate” in cambio di due cose: estremo rispetto e sicurezza.

      Fu Romolo, si narra, il primo a obbligare i propri concittadini a cedere il passo alle matrone romane quando le si incrociava per strada. Nessuno, a parte il pater familias, poteva alzare la mano contro una donna romana. Era non solo sconveniente da un punto di vista sociale, era soprattutto perseguito dalla legge. Il solo a poter punire, persino con la morte, le donne della famiglia era in “padre padrone”. Ma ci torniamo fra un attimo… Dall’altro lato, quando vivi in un luogo e in un tempo in cui al di là dei tuoi confini esistono tribù barbare che non esiterebbero un solo istante a invadere, uccidere, saccheggiare e stuprare, la cosa più importante diventa proteggere se stessi da loro. Il mondo dei romani non era come il nostro; era un mondo violento. Quindi gli uomini romani dovevano essere a loro volta fieri, audaci, virili, privi di scrupoli… in una parola: machisti!

      Il machismo nasce prima di tutto nella mente. È un atteggiamento mentale che si forma e rinvigorisce con l’educazione. Le donne romane della repubblica educavano i loro figli a essere uomini duri, affinché difendessero le loro mamme, le loro sorelle e le loro donne dai barbari. E poiché il modo migliore di difendersi è attaccare per primi, ecco che si spiegano le conquiste romane; almeno, le prime. Oggi, quando si parla di maschilismo, la cosa mi fa sorridere perché, inevitabilmente, mi viene in mente un confronto: persino il peggiore tra i maschilisti di oggi impallidirebbe difronte all’atteggiamento di un romano medio dell’epoca repubblicana. L’uomo romano viveva in una società che aveva determinate esigenze, e la sua educazione rispondeva a quelle esigenze.

      Quando dalla repubblica si passò al principato, soprattutto nella maturità dell’impero, le esigenze erano ormai cambiate. L’impero era forte, ricco e, apparentemente, sicuro. O almeno, così si sentiva. Le donne avevano intrapreso una strada di sdoganamento dei costumi. Erano più libere. Il marito non ereditava più il ruolo di pater familias, che restava al padre della sposa. Era cambiato proprio il rito cerimoniale. Quindi quando il padre moriva, la donna non solo ereditava la sua parte del patrimonio, ma diventava automaticamente una donna libera. Sopra di sé non aveva più alcun padre padrone! Ecco che allora le donne con alle spalle quattro o cinque matrimoni erano sempre più comuni da incontrare. Le donne volevano divertirsi, finalmente, e vivere! Soprattutto, non volevano più mettere al mondo figli.

      Mettere al mondo figli in epoca romana per una donna significava essenzialmente due cose: da un lato il corpo, a causa del parto, si sforma; dall’altro il rischio di morire era molto elevato. Le donne preferivano conservare il proprio aspetto, vivere avventure e non rischiare la vita. Questo è comprensibile, credo. Persino il compito di allevare e educare la prole ormai non era più loro. Non ne avevano il tempo, prese da tanti impegni, da tanta vita mondana e dalle sue esigenze. Quindi i pargoli venivano affidati ad acerbi, grigi e sterili estranei, in genere schiavi o liberti. Ed ecco che il noto machismo romano comincia a smorzarsi… Le conseguenze sono storia.

      Per tornare a oggi, le esigenze della nostra società sono diverse da quelle della società romana, soprattutto della repubblica. Oggi il machismo non ha più senso non perché sia culturalmente illegittimo – è legittimissimo, infatti, che gli uomini vengano educati alla virilità e alla guerra se il loro ruolo comprende la difesa dei confini; ma perché i barbari lungo il limes non esistono più. Anzi, se va come sta andando, fra qualche generazione non ci sarà più nemmeno un limes da difendere. Ci stiamo muovendo nella direzione di una nuova società globale, senza confini, senza guerre, senza pericoli: un nuovo ordine mondiale…

      Di conseguenza il ruolo dell’uomo oggi risponde e si adegua ad altre esigenze. Questo spiega la minore virilità, il numero ridotto di spermatozoi e tutto il resto. Sia chiaro, non lo dico in termini critici. È semplicemente una conseguenza di esigenze sociali nuove. Se il mondo dovesse tornare a un periodo di barbarie, ecco che il ruolo dell’uomo cambierebbe ancora. Quindi i giudizi, negativi o positivi, quando si fa un analisi di questo tipo sono sempre fuori luogo. Da scrittori ci limitiamo a osservare la nostra contemporaneità, a dedurne delle logiche e a condensare il tutto in un libro, se ci riusciamo.

      Per concludere, ti sembra più facile giudicare i fatti storici perché, come dice la parola stessa, sono ormai storicizzati. Le cose del nostro tempo, invece, sono ancora in fase di evoluzione e attualizzazione. Per fare un esempio, dai dati ISTAT del 2017 appare chiaro che la nostra società sta andando verso la rottura del nucleo familiare fondamentale: la famiglia. Il 31,6% delle famiglie italiane sono composti da una persona singola. Vale a dire che un terzo delle famiglie sono uomini e donne single. Non so dire se questa tendenza sia solo un passaggio verso qualcos’altro o un punto d’arrivo; posso solo limitarmi a osservare il dato. Se fosse un punto di arrivo, è chiaro che, poiché la società contemporanea è per sua natura ancora in movimento, alcuni sono ancora indietro e formano famiglie molto numerose, altri sono un po’ più avanti e formano famiglie nucleari, altri ancora formavano famiglie singole già decenni fa anticipando i tempi. Il presente è, per sua natura, in divenire.

      Grazie per il commento. 🙂

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      • Caspita! Hai scritto un secondo post come commento.
        Già avendo come conoscenza le società antiche, riusciamo più facilmente, rispetto ad altri, a cogliere le evoluzioni della società, rispetto alle pulsioni umane che alla radice sono uguali per tutti. La società di oggi si sta molto sensibilizzando.
        Basta considerare che le donne in Italia hanno acquisito il voto nel 1946 per subito pensare: così tardi? Cioè stiamo parlando dell’altro ieri. I miei nonni maschili potevano votare sin dalla maggiore età, mentre le mie nonne no.
        Sull’integrazione invece non ti so dire. Stiamo avendo una fase di involuzione. La lunga pace che ha segnato l’Europa dal dopoguerra, la pace più lunga in Europa dalla caduta dell’impero romano in poi, sembra volgere alla disgregazione.

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        • Secondo me si stanno solo disgregando i confini. La nostra è, a mio parere, un’era di passaggio. Ci troviamo sul ciglio di due realtà bene diverse e non riusciamo a capire cosa sia giusto e cosa sbagliato; dove stiamo andando; quale sia il senso di tutto questo.

          È chiaro che tutti i grandi cambiamenti hanno fondamentalmente due cose in comune: impiegano più di una generazione ad attuarsi; portano con sé disagi e conflitti. I conflitti sono sotto i nostri occhi e crediamo che il mondo pacifico che abbiamo conosciuto da piccoli stia finendo.

          Non è così. Oggi ci sono meno guerre nel mondo di quante ce ne fossero quando eravamo bambini noi. Ci sono meno dittatori. Più “civilizzazione” e istruzione e condivisione. Stiamo cambiando in meglio, anche se con fatica e difficoltà. Alcuni si adeguano subito; altri non si adegueranno mai. Tale è il destino degli uomini.

          Per quanto riguarda il diritto di voto delle donne, ciò è facilmente spiegabile: all’epoca il nucleo familiare era un pilastro fondamentale della società occidentale. Quindi che senso aveva che le donne votassero? Lo faceva già il capo famiglia che, in quanto capo, si assumeva l’onere di rispondere per tutta la propria famiglia.

          In effetti, il fatto che dal 1946 le donne abbiano acquisito il diritto di voto non è tanto un sintomo di “sensibilizzazione” della nostra società rispetto al passato, quanto un segnale preciso che il ruolo della famiglia stava già cambiando allora. Già nel 1946 si stavano imbastendo quei fenomeni che oggi stanno conducendo alla disgregazione del nucleo familiare e alla creazione di famiglie formate da singoli. Forse un giorno saremo tutti single e i bambini verranno allevati in massa in nidi gestiti dal governo o da società private specializzate.

          Ecco un ucronico che potresti scrivere. 😉

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          • Prima ero ottimista come te. Il problema della disgregazione al quale accennavo, è invece basato sul constatare la recrudescenza di certi fenomeni razzisti, di estremismo. I continui sbarchi e la percezione di invasione che ne hanno molti.
            Noi Europei siamo diventati buoni. Abbiamo la faccia da santerellini e noi europei di oggi, non abbiamo colpe.
            Ma in realtà l’Europa è il peggior crogiolo di crimini mondiali. Le crociate, la scoperta dell’America e i massacri di Cortes e soci. Il colonialismo.
            Se oggi esiste il terrorismo islamico, è perché lo abbiamo reso possibile noi Europei facendo diventare nazioni sovrane, prima colonie e poi stati allo sbando perché lasciati al proprio destino di punto in bianco. La stessa crisi alimentare dell’Africa subsahariana, la malnutrizione, i bambini scheletrici, li abbiamo resi possibili noi.
            Nell’antichità, un popolo che non aveva di che sostentarsi, o emigrava o si estingueva. Quei popoli hanno vissuto per migliaia di anni senza soffrire la fame, poi siamo arrivati noi col colonialismo, abbiamo fatto terra bruciata sulla possibilità dei locali di procacciarsi il cibo e infine visto che dopo la seconda guerra mondiale e i nazisti abbiamo capito che eravamo cattivi pure noi a sottometterli, li abbiamo lasciati senza più nulla.
            Oggi, tutti noi europei mettiamo le foto francesi quando i terroristi islamici colpiscono. Ma nessuno considera che li abbiamo creati noi quei terroristi. E non perché li abbiamo finanziati come pensano i complottisti. Abbiamo creato l’humus coloniale per farci odiare. Noi non sappiamo niente dell’Algeria, dell’Egitto o dell’Arabia. Nelle nostre scuole non si studia la loro storia. Mentre loro, nei libri di testo, hanno ben scritto quanto fossero prevaricatori gli europei. Le stragi, le sottomissioni. Ma non perché se li inventano, ma perché sono accadute sul serio. Eravamo cattivi.
            Nel mio nuovo romanzo, c’è un personaggio particolare, che fa al commissario un paragone importante sulla causa/effetto.
            Una donna seduta in un tavolino del bar, sorseggia un succo d’ananas. Una scena che vediamo di consueto. Eppure quel succo in un viaggio a ritroso ha avuto un cameriere che lo ha servito, il bar che lo ha acquistato, un corriere che lo ha trasportato, una fabbrica che lo ha spremuto, i frutti che sono entrati in fabbrica, le navi che hanno imbarcato i frutti in America Latina, i raccoglitori sotto pagati che li hanno innaffiati e raccolti, i semi piantati e infine il terreno.
            Il terreno dell’Uruguay dove è cresciuto l’ananas, non ha niente a che fare con la signora seduta al tavolo che si gusta il succo. Eppure il terreno e la signora sono una conseguenza di causa ed effetto. L’ananas nel passato, è stato piantato perché nel futuro una signora in un bar occidentale ne avrebbe bevuto il succo.
            Gli europei, nel passato, hanno piantato i semi perché nel futuro gli islamici venissero ad ammazzarci da terroristi. La causa ed effetto l’abbiamo smarrita. Oggi noi diciamo questi pazzi che vengono a ucciderci, ma quanto sono cattivi!
            Oh cavolo, questi cattivi li abbiamo creati noi quando eravamo pure cattivi.
            Questo ragionamento, non l’ho mai sentito da parte di nessun politico. Si parla a vanvera di invasione, di terrorismo, ma ogni analisi politica non si distanzia da due amiconi che litigano al bar per il rigore non concesso all’Inter con la Juventus. Invece, dovremmo studiare le considerazioni di causa ed effetto che stiamo creando adesso.
            L’unione europea potrebbe disintegrarsi, proprio perché queste spinte di rivalsa, l’emergere della estrema destra un po’ ovunque (che in Italia ha trovato sfogo nel Cinque Stelle e nella Lega), possono portare a scenari del tutto diversi da quelli che immaginiamo adesso.
            Ok, credo d’essere andato un tanticchia fuori tema rispetto al post. 😛

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            • Tutto giusto. Interessante la storia di causa/effetto. Questi stessi ragionamenti li ho sentiti fare anni fa in campo sindacale. Come sempre la pancia del Paese, ovvero gli operai che producono, sono ben più lungimiranti e attenti della testa. Chiudiamo qua, comunque. Siamo davvero fuori tema. 😛

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  4. Ma sono solo io che nella parola “singletudine” ci vede un mondo meraviglioso, pieno di opportunità fantastiche?? XD
    Niente, è che il prato del vicino è sempre più verde (e volutamente ho omesso “erba” sennò partivate con le battutine…) Stai di là, e a volte pensi che sarebbe meglio stare di qua, che l’età avanza, ma dove vuoi andare dopo i 30 anni? (questa l’ho sentita in palestra e io che i 30 non li vedo manco più col binocolo, stavo per tirare fuori la lista delle mie mete preferite…); stai di qua e ti dici che era meglio se rimanevi di là, che “two is megl che one”, che come c’è al rottamazione per l’auto e la lavatrice ci dovrebbe essere pure per la moglie/il marito, dopo un po’ vorresti non dico un modello iper tecnologico, ma semplicemente guidare un altro motore o un cestello che faccia meno casino durante la centrifuga, noooo? 😀
    Riprendo col neurone serio. Mia nonna diceva che noi nipoti eravamo fortunate, ai suoi tempi non c’era niente di tutto questo (erano gli anni ’80); adesso io dovrei dire che i giovani d’oggi sono fortunati, che ai miei tempi non c’era niente di tutto questo. Invece penso che la vita sia sempre uguale, cambiano gli strumenti, le tradizioni, i problemi, viviamo più a lungo ma lavoriamo più a lungo… e gli unici che non hanno pensieri sono quelli già sottoterra.

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    • No, siamo in due. Ma il punto, credo, non è cosa è meglio o peggio; il punto è il modo in cui vivi la tua condizione.

      Mi spiego meglio: ci sono coppie che stanno insieme per paura della solitudine, di affrontare ciò che tocca affrontare dopo una separazione; ci sono donne e uomini che, credendo di non poter scegliere, si “accontentano” della loro presunta unica scelta; ci sono donne e uomini che non ne possono più di stare assieme al loro partner perché credono che un cambiamento gli darebbe una sferza vitale, questo sia che la coppia abbia dei problemi sia che problemi non ce ne siano; ci sono single che odiano essere single; single che amano essere single ma vorrebbero essere in coppia; single che odiano essere single ma odiano di più, date le esperienze negative, essere in coppia; single che vorrebbero essere accoppiati ma odiano tutto ciò che esso comporta… e via dicendo. Siamo perennemente insoddisfatti. 🙂

      La condizione del singolo può essere molto triste se non è frutto di una libera scelta. Stessa cosa si può dire della coppia. Alla fine, forse, è proprio una questione di scelta. Allora dovremmo scegliere cosa vogliamo essere; per poi, temo, scoprire che ciò che eravamo prima in fondo ci rendeva più felici di ciò che siamo diventati dopo aver… scelto.

      Chi trova il bandolo della matassa, mi faccia un fischio. 🙂

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      • Da questo punto di vista l’essere umano è perennemente insoddisfatto. Non ci credo infatti alle persone che si dicono felici, c’è sempre un qualcosa di -non dico superiore, ma diverso- a cui anche solo per curiosità, brami. Può essere l’amore, il denaro, la carriera, il successo, vivere in un altro paese, avere un altro lavoro, un’altra lingua, vestirti alternativo, tingerti i capelli di blu elettrico. E secondo me questa insoddisfazione nasce dall’evoluzione stessa. Altrimenti saremmo rimasti tutti Australopithecus e la ruota non l’avremmo mai inventata.

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        • La spinta al cambiamento può essere un traino eccezionale per l’evoluzione. Oggi, però, questa esigenza di cambiare è diventata sistematica, rapida, folle addirittura.
          Cambiamo da un giorno all’altro; da un’ora all’altra.

          Certe volte invidio i nostri nonni che erano, nel loro modo di essere, granitici. Non erano loro a cambiare. Loro rimanevano fedeli a se stessi; a quello che la loro società era ed esigeva quando da giovani si sono formati la propria personalità. Il cambiamento avveniva, certo, ma da una generazione all’altra; non all’interno della stessa generazione.

          Oggi, addirittura, all’interno di una stessa generazione si cambia di continuo, molte e molte volte. Non mi pare salutare… C’è qualcosa di compulsivo in tutto questo.

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  5. Mi sono un po’ persa leggendo i commenti, però tornando al tuo post concordo sul fatto che abbiano bisogno di oggetti che riempiano i nostri vuoti interiori, ma questo non ci da nessuna reale soddisfazione. In realtà la maggior parte dei bisogni sono indotti dagli altri, dalla società che ci vuole in un certo modo e con un certo ruolo, uomini forti e potenti, donne belle e sexi che non pensino troppo, coppie felici con bambini da pubblicità che vivono in case da Mulino Bianco e così via. E invece la felicità (o la serenità almeno) si raggiunge solo se si è liberi di essere se stessi, fregandosene della società e degli altri, anche degli oggetti inutili di cui ci circondiamo che non servono a niente se non a occupare spazio e a toglierci l’aria. Solo che questa consapevolezza non si raggiunge facilmente, è frutto di un percorso sofferto. Stare bene con se stessi, questo solo conta e, partendo da se stessi, si starà bene anche in coppia e con gli altri.

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  6. Siglitudine non mi piace e neppure mi appartiene.
    Narrativamente parlando sai cos’ho scoperto che è proprio difficile scrivere: una coppia rodata e che funziona. E non perché sia banale, forse perché che ne sono poche in circolazione…

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