Considera l’o’o

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In libreria da oggi

«Avevi promesso!» disse il piccolo Abe: braccia incrociate, sguardo infuocato.

Il vecchio Corbin Keep, che dalla finestra sulla veranda fissava i margini della palude da ormai cinque minuti buoni, parve non sentirlo. Era tutto proteso verso le fronde degli alberi. Il mento alto, i lineamenti tesi.

«Avevi promesso…» ripeté Abe, un po’ meno convinto.

Corbin mosse impercettibilmente il viso nella direzione della sua voce. Scorse il nipote con la coda dell’occhio, e ne fu sorpreso.

«Come dici?»

«La storia,» precisò Abe, «avevi promesso».

«Ah. Sì, sì certo: la storia…» ma l’attenzione di Corbin era ancora conquistata dalla vegetazione. Qualcosa si nascondeva nel folto di latifoglie, felci, mangrovie, licheni e muschi che componevano la biodiversità floreale dell’isola; qualcosa che conosceva, ma che non vedeva più da molto tempo. Poi parve ricordarsi della presenza del nipote.

«Hai finito i compiti?» chiese Corbin, fingendo un tono completamente diverso: più serio.

«Tutti!» puntualizzò Abe.

Corbin era di Oakland, California. Da ragazzo aveva seguito il padre alle Hawaii. Nel ’69, come molti suoi coetanei, era partito per il Vietnam. Dismessa la divisa, era tornato a casa e aveva conosciuto Leia, che era hawaiana: pelle color caramello, lineamenti sottili. Si erano sposati l’anno successivo. Nel frattempo Corbin aveva trovato lavoro come guardiacaccia nel parco dell’isola Kauai, la quarta per grandezza. Avevano avuto due figli maschi e una femmina. I quali, a loro volta, si erano sposati e avevano dato loro molti nipoti. Abe era l’ultimo arrivato, figlio di sua figlia, e più di tutti assomigliava alla nonna di cui aveva preso i lineamenti.

«Tutti? ne sei sicuro?» chiese Corbin.

«Tutti!» disse Abe.

Abe aveva solo dieci anni. Passava a trovarlo quasi tutti i pomeriggi. Si muoveva con agilità per le strade dell’isola. Amava le storie e i libri. Corbin aveva preso l’abitudine di raccontargliene una, dopo i compiti. Quando era a corto di storie: leggeva.

«Bene,» Corbin si finse contrito, «pare che debba mantenere la mia promessa». Si avviò verso il salotto dove l’attendeva la scancosa, una sedia a dondolo in bambù dallo schienale alto che aveva riportato molti anni prima dal Vietnam. Era la preferita di sua moglie.

«Cosa stavi fissando, prima?» chiese il piccolo Abe, curioso, mentre lo seguiva.

Corbin volse nuovamente lo sguardo verso la finestra, e per un momento parve tornare a perdersi nei suoi pensieri.

«Tu non lo senti?»

Abe tese le orecchie. La palude era piena di piccoli rumori. Non ne colse alcuno fuori dall’ordinario.

«Io non sento niente».

«È un fischio,» precisò il nonno. «Ripetuto due volte: ‘o’o, ‘o’o. Niente?»

Abe si concentrò ancora di più: niente.

Corbin parve dispiaciuto. «Non importa. Me lo sarò sognato».

«Quale animale fa quel suono, nonno?»

.

… continua sul numero 133 di Ellin Selae

15 Comments on “Considera l’o’o”

    • Per di più una di quelle di cui abbiamo parlato nel tuo articolo. E poi devi vedere la recensione che hanno fatto del mio racconto. Lo messa ieri su FaceBook, poi ci scriverò un articolo dedicato, ma è stata parecchio incoraggiante. Loro hanno questa rubrica in cui spiegano il motivo per cui hanno pubblicato un racconto, e quando stroncano ci vanno giù pesante. Nel mio caso, invece, la recensione è stata addirittura imbarazzante per quanto è positiva.

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  1. Pubblicato, quindi! È una bella notizia, ricordo di averlo letto su tempi in cui era inedito (o no? In effetti, se uno mette in racconto su un blog, si può considerare inedito, anche considerando che non c’è da nessuna parte il marchio di un editore? Dilemma filosofico, lo lascio a chi volesse dibatterne). In ogni caso, sono contento per te☺

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    • Non solo pubblicato. Questa rivista, al fondo, ha una rubrica davvero carina in cui, senza troppi scrupoli, dichiarano il perché hanno pubblicato o escluso un certo racconto. Ed è a causa di questa rubrica che, la scorsa settimana, quando mi sono trovato la rivista nella buca della posta, l’ho aperta con una certa titubanza. Sapevo da mesi che il mio racconto sarebbe stato pubblicato; quello che non sapevo è cosa ne pensassero. Anche perché quando stroncano ci vanno giù pesante. Leggi tu stesso:

      «Una scrittura fluida per un racconto costruito con un registro letterario elegante, classico, quello che ogni scrittore di narrativa dovrebbe usare sempre e che invece, oggi, in tempi di scrittura con lo smartphone, si è fatto assai raro. Frasi e paragrafi perfettamente strutturati, ben pensati, non una parola di troppo. E poi, al centro, una idea forte e bella. Ma oltre questo – che già basterebbe – c’è di più: il punto in cui il racconto finisce, dando inizialmente la sensazione che ne manchi un pezzo, è invece il punto in cui risveglia la consapevolezza e chiede al lettore di continuare il filo della narrazione nella sua mente, e allora si capisce che è proprio questo che la letteratura deve fare: accendere l’immaginazione, aprire nuovi sentieri nella mente che porteranno in posti nuovi, mai visti prima. Proust diceva che la buona letteratura deve abolire l’abitudine, rimetterci in contatto con la realtà della vita e dello spirito, almeno per qualche istante, prima che l’ordinario si riprenda lo spazio perduto. Quando questo succede – e dio solo sa quanto è raro nella letteratura moderna – allora la scrittura ha raggiunto il suo scopo più alto e difficile. Questo racconto, pur nella sua brevità, ci è sicuramente andato molto vicino…»

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