Piccola storia antica delle droghe

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Bacco, perbacco!

“L’inclinazione frenetica 
dell’uomo per tutte le sostanze,
salutari o rischiose,
che esaltano la sua personalità,
 testimonia della sua grandezza.”

– Charles Baudelaire

Quello che separa l’edonismo, la magia, la religione dalla medicina è un confine labile. Ossessioni, sventure, malattie e malocchi in principio sono la stessa cosa: un castigo che si cerca di scongiurare con un sacrificio. Le prime ostie furono sostanze psicoattive non diverse dalla canapa, dal vino o da certi funghi. Le prime droghe comparvero non per caso, ma come estrema difesa del mondo vegetale da quello animale. Vatti a immaginare che questo fu poi allo stesso tempo la ventura e la sventura di flora (e fauna).

Quando le piccole comunità di cacciatori-raccoglitori scoprirono che alcune piante potevano con vantaggio essere coltivate, il loro mondo cambiò per sempre. Da nomadi divennero stanziali. Le abitudini, gli usi, i costumi e i rituali cambiarono con essi. Anche il sistema di credenze dovette adeguarsi. Queste comunità di uomini, in principio piccole e poi via via sempre più grandi, dovettero imparare a riaffermare la propria identità culturale facendo esperienza con qualche tipo di sostanza psicoattiva. In termini tecnici ciò si chiama verità rivelata.

Sono due i tipi di sacrifici che possono essere innalzati per ingraziarsi il favore dei cieli: sacrificare qualcosa sugli altari delle divinità; oppure mangiarlo, il “divino”. L’agape, il banchetto sacrificale, è inderogabilmente legato alle droghe. Il pane viene spezzato, il vino versato, l’ostia ingerita: i rituali sono sempre gli stessi. La cristianizzazione ha solo reso simbolico ciò che prima era… reale. Corpo e sangue di Cristo sono la metafora, il ricordo di un capro espiatorio: «l’agnello che lava i peccati del mondo».

Funziona così: tu, che stai leggendo, una mattina ti svegli e scopri di soffrire di mal di denti, oppure di leucemia o di vaiolo, non importa. Oggi correresti da un medico o da uno specialista. Ti sottoporresti a esami, tremando nell’attesa di una diagnosi. E poi: terapie, interventi… ingerendo medicinali. Nell’antichità lo stregone, il demiurgo della comunità, avrebbe invece sacrificato un agnello; non per sollecitare il divino a intervenire, ma per trasferire il dolore o la malattia dal malato a quest’ultimo. Questo è il senso del sacrificio cristiano: «l’agnello che lava (col suo sangue) i peccati (malattie, sventure, malocchi, fissazioni) del mondo».

«Si noti come la parola greca per indicare la droga sia phármakon, e che phármakon – cambiando solo la lettera finale e l’accento (pharmakós, n.d.r.) – significhi capro espiatorio. […] questo mostra fino a che punto la medicina, la religione e la magia siano agli albori inseparabili».[1]

Il senso dello sciamanismo è quello di amministrare le tecniche dell’estasi; ovvero la trans che cancella le barriere che separano la veglia dal sonno, la terra dal cielo, la vita dalla morte. L’ebbrezza estatica in antichità era un’esperienza a volte religiosa a volte edonista. In questo gli uomini di allora non ci vedevano nulla di male.

Il papavero veniva coltivato in Spagna, Grecia, Africa, Egitto e Mesopotamia. La parola che lo indica compare per la prima volta su alcune tavolette sumeriche del terzo millennio a.C. Capsule di papavero compaiono nei cilindri babilonesi e in immagini della cultura cretese-micenea. I geroglifici egizi lo raccomandano come analgesico e calmante. È perfino citato da Omero nell’Odissea, anche se non in modo accondiscendente. I primi resti di fibra di canapa, invece, sono stati ritrovati in Cina: databili nel 4000 a.C. Un millennio dopo la troviamo già in Turkestan. In India, secondo l’Atharva Veda, la pianta spuntò quando caddero dal cielo gocce di ambrosia divina[2].

In tempi antichi la canapa veniva adoperata come incenso cerimoniale. Il primo riferimento di questo tipo lo si ha in Mesopotamia, durante la dominazione assira, già a partire dal IX secolo a.C. Gli Sciiti mettevano grossi pezzi di hashish sulle pietre riscaldate dei bracieri. Gli egizi adoperavano la resina di canapa allo stesso modo (kyphi). Nel VII sec. a.C. i Celti esportavano corde e stoppe di canapa in tutto il Mediterraneo, e con essa molte pipe. L’uso di alcune solanacee allucinogene – giusquiamo, belladonna, datura, mandragola – lo si ritrova nel Medio ed Estremo Oriente. Le piante produttrici di alcool sono infinite e il loro uso testimoniato perfino dalla Bibbia. Una tavoletta d’argilla incisa con caratteri cuneiformi del 2.200 a.C. raccomanda la birra come tonificante per le donne che allattano. L’atteggiamento verso il vino nell’Antico Testamento è senza dubbio assertivo. Al vino resinato alludono perfino Democrito e Galeno.

I greci furono i primi a negare la validità di una cura intesa a trasferire il male da una persona a un capro espiatorio. È l’alba della medicina moderna. La nuova scienza utilizzerà invece il phármakon adeguato per curare, ovvero per combattere la malattia. Di fronte a un’epidemia di colera, ad esempio, era ritenuto sensato adoperare l’oppio, considerato un astringente. La nuova filosofia raccomandava di curare il corpo aggredendolo; ancora oggi la stessa filosofia si applica a cure che prevedono l’uso di antibiotici. Essenziali diventano quindi le proporzioni: solo la quantità distingue la medicina dal veleno. È questa la grande innovazione della medicina greca; e le droghe cavalcano, come ancora oggi, il nuovo corso.

A proposito della datura:

«Si somministra una dracma se il paziente deve solo essere rinvigorito e deve pensare bene di se stesso; il doppio se deve delirare e deve soffrire di allucinazioni; il triplo se deve diventare pazzo permanentemente; si somministra una dose quadrupla se deve morire».[3]

Oltre al vino, i greci fecero largo uso cerimoniale e ludico della canapa e di altre solinacee. Allungavano il vino con un estratto di hashish. Ma nessuna droga ebbe la popolarità dell’oppio. Il papavero era il simbolo di Demetra, dea della fecondità. Le donne che non riuscivano ad avere figli portavano una spilla con la sua foggia per propiziare il fato. Gli innamorati ne sfregavano i petali secchi per conoscere attraverso gli scricchiolii il futuro delle loro relazioni. Fu Ippocrate a dargli il nome, traducendo opós mekonos: «succo di papavero».

Tuttavia l’uso delle droghe, ‘si diffuso, non incontra nel mondo greco un problema − come ci aspetteremmo oggi − di “tossicodipendenza”; esso era riservato al vino. Il vino era considerato una vera sventura. Simbolo di Dioniso, la sua pericolosità sociale è argomento delle Baccanti, il dramma di Euripide. Nelle scuole filosofiche la norma, tuttavia, era di considerarlo uno «spirito neutro»: capace di produrre il bene o il male a seconda dell’individuo. Ecco il suo più grande difensore:

«Non vilipendiamo il regalo ricevuto da Dioniso pretendendo che sia un cattivo ossequio e non meriti che una repubblica ne accetti l’introduzione! […] Basterà una legge che proibisca ai giovani di assaggiare il vino fino ai diciotto anni, e fino ai trenta prescriva che l’uomo può assaggiarlo con misura, evitando radicalmente di ubriacarsi perché ha bevuto in eccesso. A partire dai quaranta la nostra legge permetterà di invocare, nei banchetti, tutti gli dei e, va da sé, una invocazione speciale diretta a Dioniso, in vista di quel vino che, essendo contemporaneamente sacramento e divertimento per gli uomini di una certa età, gli è stato concesso dal dio come un farmaco per il rigore della vecchiaia, per ringiovanirci, facendo sì che l’oblio di ciò che affligge l’anziano scarichi la sua anima di rozzezza, e gli conferisca più giovialità».[4]

Tuttavia sono i Misteri Eleusini, precedenti ai poemi omerici, il vero simbolo spirituale della cultura greca. L’iniziazione avveniva in autunno, di notte. Ai pellegrini, epoptés, veniva data da bere una tisana a base di «farina e menta». Essi giuravano sulla loro vita di non rivelarne nel modo più assoluto il segreto. Ecco in proposito cosa ne pensava Cicerone:

«I Misteri ci hanno dato la vita, il nutrimento; hanno insegnato alle società il costume e la legge, hanno insegnato agli umani a vivere da umani».[5]

La religione eleusina, ci spiega Escohotado, si basava in «un solo atto di grande intensità, orientato a produrre una esperienza estatica di morte e resurrezione». Morte e resurrezione… vi dice nulla?

L’atteggiamento del mondo romano, riguardo alle droghe, è sulle stesse posizioni di quello greco. La Lex Cornelia recita:

«Droga è una parola indifferente, che comprende sia ciò che serve a uccidere sia ciò che serve a curare, e i filtri d’amore, ma questa legge condanna solo ciò che viene usato per uccidere qualcuno».

I romani, pur essendo inclini a stabilire pene feroci per qualunque trasgressione, hanno chiara la distinzione tra diritto e morale. Ad esempio, il pater familias, se lo riteneva, aveva il diritto di punire la donna che facesse uso di vino, anche con la morte, ma questa infrazione non poteva essere stabilita, e quindi punita, dalla legge. Anche per i romani le “droghe” avevano uno spirito neutro, le quali intensificavano le naturali inclinazioni dell’individuo, buone o cattive che fossero. Addirittura si consigliava di eccedere all’ebbrezza almeno una o due volte ogni tanto, poiché il rilassamento è terapeutico.

Ai tempi di Cesare era diffuso il costume di fumare fiori di canapa durante le riunioni; essa incitava all’ilarità e al godimento. Ma come per i greci, le piante di Roma furono la vite e il papavero. Plinio il Vecchio considera beni della natura quelle sostanze che infliggono una morte a tempo che ognuno può cagionare a se stesso. Dioscoride descrive l’oppio come un medicinale che elimina il dolore, mitiga la tosse, contiene la diarrea e aiuta a dormire. La domanda di questa droga superava l’offerta.

Durante l’Impero l’oppio, come la farina, era un bene sottoposto a prezzo controllato, sul quale non era permesso lucrare. Nel 301 d.C. Diocleziano fissava i prezzi di un modius castrense (vaso da 17,5 litri) in 150 denari. Non è molto se si considera che un chilo di hashish nello stesso periodo veniva 80 denari. Un censimento del 312 d.C. rivela come a Roma ci fossero ben 793 negozi specializzati. Il volume d’affari rappresentava il 15 per cento delle entrate fiscali.

È possibile che l’oppio, come altri allucinogeni, fossero nel mondo greco-romano adoperati alle stregua di medicinali; la canapa e il vino invece avevano anche un ruolo ludico. Nonostante questo, il consumo di oppio e canapa non crea alcun tipo di disordine pubblico; tanto che non esiste in latino alcun vocabolo per indicare un “oppiomane”, mentre ce ne sono più di una dozzina per il “dipsomane”.

Poi fu l’avvento del cristianesimo, ma questa è un’altra storia.


Note

[1] Antonio Escohotado, Piccola storia delle droghe, Donzelli editore 2008

[2] Informazioni estratte da Escohotado

[3] Theophrasto, Historia delle piante

[4] Platone, Leggi

[5] Marco Tullio Cicerone, De legibus

 

11 Comments on “Piccola storia antica delle droghe”

  1. ho appena letto volentieri qualcosa di non banale sulle droghe che mi ha dato degli ottimi spunti di riflessione. . Davvero interessante. Complimenti

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  2. Da che c’è l’uomo c’è la droga. Pare che i paleolitici si facessero di fegato d’orso crudo, che sembra faccia sballare di brutto. C’è da dire che il fatto che l’orso andasse prima ucciso era un valido deterrente…

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  3. Interessante. Fra l’altro, pare che ai tempi dei Romani, per il modo in ciò costruivano, ci fosse un fortissimo inquinamento da piombo, che produceva effetti nefasti già da solo; non credo ne fossero consapevoli, ma col senno di poi potremmo dire che la droga fosse per loro quasi un problema secondario. C’è molto su cui riflettere.

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    • Vero; facevano le tubature dell’acqua in piombo. E la cosa è andata avanti fino al principio dello scorso secolo. Secondo uno studio, i casi di intossicazione da piombo erano così diffusi nell’Ottocento che si presume un’abbassamento dell’intelligenza media causato proprio da questo fattore. Non so se sia vero, ma ne deriva che fino all’Ottocento le tubature dell’acqua erano tutte in piombo.

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      • Per certi versi non stento a credere che l’intelligenza media si sia abbassata per questo: gli ultimi due secoli sono forse quelli in cui ne abbiamo pagate le conseguenze in maniera più forte, per esempio attraverso politiche dissennate – tutt’ora in corso – guerre e massacri senza precedenti, sfruttamento coloniale ed economico – tutte cose che fanno sospettare un’incapacità di prevedere le conseguenze di lungo termine e delle proprie azioni. Ricordo un articolo in cui si riportava uno studio scientifico: pare che chi evade il fisco – e non mi riferisco a chi altrimenti non riuscirebbe a vivere – sia meno intelligente perché non vede gli svantaggi pubblici come svantaggi suoi sul lungo periodo. Se allarghiamo la prospettiva…

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