Riuscire a pubblicare con una casa editrice

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L’arte di mendicare

Elemosinare voti politici, vendere porta a porta elettrodomestici e pubblicare un libro con una casa editrice hanno in comune una cosa: l’arte di mendicare. Non è per tutti. Anche fare il politico, il promotore o lo scrittore non è per tutti. Solo che nel caso della scrittura, oltre che una certa predisposizione alla faccia da tolla (sin. di latta, avere una faccia da tolla significa avere una faccia da c***), una lingua ruvida per leccare culi pelosi – non dire quello che si pensa è un modo elegante di farlo – e uno stomaco robusto per digerire rospi, all’arte del mendicare bisogna aggiungere un talento innaturale nel narrare storie.

Se posso dirlo, lo scrittore ha un ulteriore handicap: i tempi di attesa neolitici. Nell’era del digitale, del wi-fi, della connessione a ogni costo e a ogni palo, ricevere una risposta (positiva) dalle case editrici significa attendere mesi, in alcuni casi anni. Quando infine arriva servono altri mesi (in alcuni casi anni) prima che il libro finisca in libreria. Le risposte negative invece non arrivano mai, ma è comunque necessario «aspettare sei/otto mesi per essere sicuri d’essere stati scartati». Lo scrittore deve quindi aggiungere al proprio bagaglio di risorse inesauribili una pazienza da bradipo e una fede paragonabile a quella di Abramo: robe dell’altro mondo.

Ma vediamo nel dettaglio, grazie al vocabolario Treccani, in cosa consiste l’arte della mendicatio:

Mendicare v. intr. e tr. [dal lat. mendīcare, der. di mendīcus «mendico»] – Cercare di ottenere qualche cosa vivamente desiderata, per lo più chiedendo con insistenza e in modo poco dignitoso: m. un incarico, una promozione; m. lodi, favori, riconoscimenti, benemerenze. Anche soltanto invocare, supplicare per avere quasi per carità cosa abitualmente negata e di cui si sente vivo bisogno: m. aiuti materiali o morali; m. un po’ d’amore, un sorriso, uno sguardo, un po’ di conforto, una parola gentile.

Mendicare quindi significa chiedere con insistenza e in modo poco dignitoso qualcosa che si desidera vivamente, invocando e supplicando per ottenere ciò che solitamente è negato. Molti aspiranti scrittori si abbattono e rinunciano, altri insistono per tutta la vita fino ad approdare disperati alle pubblicazioni a pagamento; molti si danno al self, come se l’autoerotismo fosse una soluzione alla mancanza di… be’, avete capito. Ma se davvero volete giungere alla pubblicazione, c’è una cosa sola che dovete fare: scrivere un buon libro; e imparare a mendicare.

Potreste esercitarvi elemosinando qualche monetina agli incroci delle strade, accanto al semaforo, sbavando sui finestrini degli automobilisti in attesa. Potreste dedicare interi weekend a battere la stazione centrale della vostra città, contendendo spiccioli agli altri barboni. Potreste suonare a ogni portone, distribuire volantini patinati di merce avariata e cercarvi un’occupazione estemporanea – nell’attesa del grande successo che il vostro romanzo certamente otterrà – come venditori porta a porta di olio extravergine d’ulivo, quelli che stanno espiantando in Puglia, a prezzi davvero interessanti; e magari, tra un paragrafo e l’altro scritti per ammazzare il tempo e un insulto preso al volo dal passante scocciato di turno – sempre nell’ottica del market training, potreste racimolare qualche soldo da spendere (quando tutti gli altri tentativi saranno falliti) per le stampe on demand.

Non vi sorprenderà sapere che io, in fondo, l’ho fatto. Ho fatto tutte queste cose. Non con l’intento di allenarmi in vista della pubblicazione, sia chiaro, ma perché la vita è fatta così: è per sua stessa natura complicata. Ti mette costantemente davanti a situazioni imbarazzanti, o impossibili, o drammatiche a cui devi comunque trovare una soluzione. Col tuo romanzo, dopo averlo scritto, puoi anche tirarti indietro raccontando a te stesso di non essere disposto a scendere a compromessi; a umiliarti; a trasformarti in un mendicante. Nella vita, però, questo non lo puoi fare.

Da ragazzo, dopo che i miei genitori si sono separati, per qualche tempo mi sono ritrovato a passare i weekend a Ivrea con mia madre e i giorni di scuola a Torino con mio padre. Da ragazzi c’è sempre un periodo della propria crescita, subito dopo la pubertà, in cui ti ribelli; un periodo dove tutto ciò che ti circonda ti risulta insopportabile. Dopo una litigata mi ero ritrovato alla stazione dei treni di Ivrea. Gli unici soldi che possedevo era la paghetta settimanale che mi veniva passata. Era il fine settimana e quel che mi rimaneva non bastava per comprarmi un biglietto per Torino. Ma non volevo neanche tornare indietro con la coda fra le gambe. Così ho fatto l’unica cosa che potevo fare: ho elemosinato gli spiccioli per comprarmi il passaggio.

Studiavo ancora all’Università di Torino, il vecchio Palazzonuovo, quando tra un fuori corso e l’altro mi sono ritrovato a cercare lavoro. All’epoca un’azienda di Grinzane Cavour assumeva promotori per vendere porta a porta olio d’oliva. Nella prima settimana di attività ho venduto olio per un valore complessivo di sette mila euro, a Ivrea. Dovevo dimostrare all’azienda di saperci fare, di essere utile per essere assunto a tempo indeterminato. Ho fatto quello che dovevo fare. Ho visto e mi sono state raccontate storie che a scriverle avrebbero dell’incredibile. Compresa quella di una signora sulla quarantina che, avendo perso il posto di lavoro che occupava in modo sereno e continuato da circa un decennio e non trovandone un altro, aveva riposto tutte le proprie speranze nella riparazione domestica di abiti usati: rifare gli orli, impunturare bottoni, accorciare maniche o pantaloni. Aveva pochi risparmi, che si andavano assottigliando ad ogni affitto da saldare, a ogni bolletta da pagare, e con quelli che le restavano si manteneva nella speranza che una soluzione piovesse dall’alto. A quella signora ho venduto dodici bottiglie d’olio extravergine a undici euro l’una. Ho fatto quello che dovevo fare.

Qualche anno fa con la mia ex ce la passavamo male. Lei non trovava lavoro e io non guadagnavo abbastanza per mantenere entrambi. Ogni mese l’affitto era una coltellata da subire in silenzio; ogni bolletta un’umiliazione. Vivevamo con la paura d’essere sfrattati e col timore che ci tagliassero la corrente. Per fare la spesa contavamo gli spiccioli, e andavamo rigorosamente al discount meno caro della zona: tra prodotti di seconda scelta e di dubbia provenienza. La sera si stava in casa, e fare figli per farli cresce in quel modo non era un’opzione. Perfino scopare ha un costo se devi comprare i profilattici o la pillola. A volte non bastava nemmeno questo. Allora eravamo costretti a chiedere aiuto ai parenti, sopprimendo l’amor proprio e sopportando le occhiatacce piene di stizza tipiche di chi non comprende; e quando arrivava Natale, e con esso le buste con dentro i contanti come quando eri piccolo, tiravamo il fiato ed eravamo felici: anche la felicità ha un costo. Ma non si può sempre fare affidamento nella pazienza dei genitori. Così, alcune volte, quando compravamo la verdura o la frutta, tiravamo su la busta. La mia ex, che come ogni donna aveva esigenze femminili comprensibili, di tanto in tanto si intascava il rimmel o lo spazzolino da denti o una cosa così, sperando di non essere beccata all’uscita. Può sembrare bizzarro, ma anche uno spazzolino da denti di tanto in tanto dev’essere cambiato; e ha un costo assurdo.

Quando mi hanno pubblicato i racconti che ho venduto, nessuno è venuto a chiedermi se ero disponibile. Nessuno ha bussato alla mia porta dopo aver letto le “geniali” parole di questo blog. Sono io che mi sono dovuto proporre, è anche questa è una forma di mendicatio. Ora, potete anche credere a tutte le storie che vi ho raccontato o credere che sono stato bravo a raccontarvela: in un caso o nell’altro l’unica morale di questo post è che se nella vita vuoi riuscire in qualche cosa, allora non puoi tirarti indietro: devi fare ciò che va fatto.

135 Comments on “Riuscire a pubblicare con una casa editrice”

  1. Pingback: RIUSCIRE A PUBBLICARE CON UNA CASA EDITRICE – Onda Lucana

  2. Quando ero all’università facevo lezioni private, era un lavoro che non avevo cercato ma siccome prendevo voti alti agli esami una mia amica che gestiva un centro didattico (no, non era il Cepu) mi chiese se potevo fare ripetizioni per ragazzi delle superiori. Così cominciai ed ero molto richiesta, sembra che io riuscissi a far capire la ragioneria e la matematica finanziaria anche ai più somari. Capii allora che non esistono somari solo studenti con cattivi insegnanti. Ma questa è un’altra storia. Spesso ero costretta a rifiutare perché non avevo tempo. Era un lavoro che non avevo cercato ma io volevo fare altro, quindi alla laurea smisi anche se per i primi tempi dopo la laurea mi aiutò a sbarcare il lunario. Cosa c’entra con il mendicare? Niente, leggendo il tuo post mi sono ricordata quei tempi. Tornando alla scrittura e alla casa editrice quando vuoi ottenere qualcosa e c’è qualcuno che te lo può dare come prima cosa bisogna chiedeer.

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  3. Sarà, ma questo è il Salvatore che mi piace di più, quello che dice le cose chiare e ci mette un po’ di sé. Solo pochi, rarissimi esseri umani non hanno attraversato momenti bui, e possono dirsi esenti dall’aver mendicato. E’ anche vero che le storie di chi diventa grande, sport, politica, storia, partono sempre dal basso, senza una grande motivazione non si va da nessuna parte. E mi aspetto che tu vada molto avanti.

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  4. Io comunque penso che per pubblicare con un editore non occorra mendicare affatto. Perché se si vuol intraprendere un percorso, qualunque esso sia, occorre comprendere il settore che si vuol praticare…
    Se uno vuol far l’assicuratore deve imparare a comprendere il mondo delle assicurazioni.
    Se uno vuol progettare aerei (a prescindere delle conoscenze tecniche) deve conoscere il mondo dell’aeronautica.

    Quindi per meglio dire, occorre conoscere le specifiche regole del gioco.

    Io le regole del gioco dell’editoria le ho studiate a fondo e continuo a studiarle perché sono vaste, complesse e mutano nel tempo. Perché spesso si fa confusione. Tu dici che il self è autoerotismo, ma dicendo così non inquadri il vero fine di un libro.

    Il fine vero di un libro non è essere pubblicato col marchietto dell’editore (che sembra molto erotico tanto è bramato), ma un libro deve essere letto dai lettori. Un libro non esiste per l’atto della pubblicazione, esiste soltanto se ci sono lettori che lo leggono.
    Un libro Mondadori che vende zero non esiste. Un libro self che vende dieci esiste poco. Un libro che vende un milione a prescindere dal mezzo esiste tantissimo.
    Pertanto editoria tradizionale e self publishing sono semplicemente due strumenti diversi per giungere a un medesimo fine: i lettori.

    E confondere la pubblicazione (tu la sai benissimo la differenza, ma molti non la concepiscono) con il suo fine, i lettori, è anche una delle cause per cui gli scrittori credono di dover mendicare per essere pubblicati.

    Io pongo a te e a tutti gli altri la più semplice domanda possibile (roba da farci un post dibattito) quali sono le regole del gioco dell’editoria?

    In tanti anni di blogging io non ho mai visto qualcuno porre e rispondere a questa domanda fondamentale.
    Eppure è la prima che occorre porsi se si vuol fare lo scrittore.
    Perché basterebbe conoscere la prima regola del gioco dell’editoria, per comprendere che un libro per essere pubblicato, non va mendicato affatto.

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    • A parte che mi offri l’occasione di ribadire quanto saputello sai essere nei tuoi commenti… (la capiremo solo io e te, questa). XD

      La prima regola dell’editoria è vendere. La seconda regola dell’editoria è vendere di più. La terza regola dell’editoria è non parlare mai delle prime due regole dell’editoria. Ho risposto? Potremmo farci un libro in stile Fight club, cazzo… 😛

      Continuo a pensare che la pubblicazione abbia qualcosa di estremamente erotico: in self è autoerotismo, con l’editore è sado-maso, le raccolte di racconti di autori vari sono ammucchiate di gruppo. e poi c’è perfino chi annusa ossessivamente i libri… L’ho visto fare pure coi tablet! Peggio di così… XD

      P.S. e se non bastasse: tira più una pubblicazione che un carro di buoi trainato un pelo di f***…

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      • ahah io come diceva Socrate sono il primo degli ignoranti. Ho molta curiosità e sete di conoscenza per questo penso di non saperne abbastanza. E se non ne so abbastanza devo studiare di più.

        Ecco, bravo, vedi che la sai la prima regola.
        Potremmo definirla così: L’editoria è un sistema imprenditoriale che ricerca il profitto attraverso il prodotto libro.
        Che poi gli editori si innamorino dei libri che pubblicano, degli scrittori (e quanto erotismo d’ammucchiata) è irrilevante ai fini imprenditoriali. Devono vendere libri, punto.

        Se un editore si ritrova un libro che sa che non può vendere, e questo è proposto da un amico, da un parente o da un leccaculo, lui non lo pubblicherà.
        Perché un’azienda non vive di sogni, ma ogni mese deve provvedere a costi di personale, tasse, bollette e altri dirimenti.

        Pertanto se è questa la prima regola dell’editoria, significa che il prodotto libro per l’editore è centrale. L’editore vuole, brama e ricerca libri che può vendere. E tanto è più certa la vendita, tanto più lui sarà felice. Perché pubblicano i Vip? Perché pubblicano gli youtuber con milioni di fans? Perché pubblicano gli scrittori affermati a occhi chiusi? Vendite facili.
        Perché pubblicano difficilmente un esordiente? Alto rischio di rimetterci l’investimento.

        Pertanto ancora, e per chiudere. Se l’editore con brama, ricerca libri da vendere, lo scrittore che sa questo, deve semplicemente mostrare all’editore che il suo libro si può vendere. Che ha mercato, che ha potenzialità.

        Se l’editore ha sentore di queste caratteristiche, è lui in prima persona che va a cercare lo scrittore.

        Cognetti, con le sue Otto Montagne, ha ricevuto le aste fra gli editori, per accaparrarsi i diritti. E addirittura, i diritti sono stati venduti all’estero, ancor prima che il libro uscisse in Italia e avesse un concreto riscontro di pubblico.
        Questa è l’editoria. Se vuoi essere pubblicato mostra il tuo valore (e qui dipende tutto se il libro al di là delle convinzioni dell’autore, un valore lo possiede sul serio.)

        Chi pensa che per pubblicare sia necessaria l’amicizia di Caio e Sempronio nell’editoria, non è che sbaglia. L’amicizia è utile, ma solo perché è più facile avvicinare l’editore per presentare il valore del libro. Ma se il libro per un editore non vale, si può mendicare quanto si vuole, non verrà mai pubblicato. E a beneficio del dubbio, in tal senso, gli editori a volte sbagliano e rifiutano libri che poi in altre circostanze, diventano bestseller. Ma è normale. Fa parte delle regole del gioco e del rischio di impresa.

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    • “Se uno vuol progettare aerei (a prescindere delle conoscenze tecniche) deve conoscere il mondo dell’aeronautica.”
      Qualsiasi riferimento a fatti luoghi o personaggi ecc. ecc. giusto? 😀 😀 😀

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      • L’articolo è molto molto interessante. A prescindere dall’allineamento del pensiero sul self che praticamente ti accomuna ai grandi direttori editoriali O.o.
        Ho trovato molto interessante un frammento di Antonio Franchini (ex Mondadori) colui che ha lanciato alcuni degli esordi più clamorosi, e adesso in Giunti.
        Lui dice che in teoria pubblicare esordienti è sì rischioso, ma economicamente conveniente per l’editore. Perché se pubblicare lo scrittore affermato è quasi una certezza. Con Volo, Ammanniti, Baricco, con loro vai sempre in profitto. Pubblicare l’esordiente può essere vantaggioso perché costano poco. A Volo l’editore deve sborsare anticipi enormi. Le royalty non potranno essere al di sotto del 15%. Quindi il profitto è certo, ma parte di questo profitto gioco forza va all’autore che se non lo accontenti ci mette un attimo a trovare un altro top editore.
        Viceversa, all’esordiente puoi accordare un anticipo minimo o zero. Le royalty te le giochi fra il 5% e il 8%. Il 50% in meno di un top. Un esordiente che becca il 10% è difficile.
        Cioè in termini di mercato, l’esordiente in teoria conviene. Adesso sono tutti concordi nell’affermare che l’editoria è in contrazione. Quindi investire sugli esordienti è un fattore di rischio che è difficile da intraprendere in maniera sistematica. Ma, se il mercato tornasse a espandersi, tentare, rischiare un esordiente con odore di successo, può diventare di nuovo propizio.
        Sapere queste cose per uno scrittore è importante. Il costare poco (roba orribile per me) è comunque un argomento da sfruttare con un eventuale editore. Si potrebbero anche studiare quegli editori magari medi più propensi a lanciare nuovi autori.
        Etc etc…

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        • Il mio interesse è stato attirato invece da un passaggio dell’intervento di Gianluca Foglia, editor Feltrinelli, e cioè questo: «[…] in un contesto di contrazione del mercato, l’unico criterio valido torna a essere la valutazione del testo: l’epoca in cui si andavano a cercare esordienti tra i blogger di successo è decisamente finita. Né il self-publishing mi pare una buona fonte: abbiamo avuto due esperienze con ‘Ilmiolibro’, pubblicando due opere vincitrici del concorso, e non abbiamo raccolto molto, né intercettato un qualche movimento che potesse dialogare in modo fruttuoso con una realtà come la nostra. L’esperimento è stato interessante ma ho avuto l’impressione di entrare in contatto con un mondo che si risolve in se stesso e quando poi si trova a essere trasportato in un contesto tradizionale, non lascia molto».

          Ecco, anch’io ho l’impressione che il self e il blogging sia un mondo che si risolve in se stesso. Il motivo per cui tengo aperto un blog, per il momento almeno, è che mi diverto; mi permette di conoscere persone come te, Grilloz, Stefania, Giulia, Nadia e tanti altri; alleno la mia scrittura (sono indubbiamente migliorato da quanto curo con costanza un blog), e via dicendo; ma non certamente per farmi notare. Non frega a nessuno quello che si scrive nei blog.

          Il modo per farsi notare da un editore viene indicato chiaramente nell’articolo citato: collaborare con le riviste; trovarsi un agente. Io questo l’avevo intuito fin dall’inizio, senza che nessuno me lo spiegasse. Gli editor annusano le pubblicazioni “minori” in cerca di voci fresche, idee originali, un nuovo punto di vista sul mondo capace di cavalcare i tempi. Ma sanno, e questo lo trovo positivo, che un autore “giovane” non può esplodere come hanno fatto Saviano e Giordano e pochi altri – di cui si è salvato solo il primo e per motivi contingenti – al primo libro, ma è necessaria una crescita. Non pretendere più il best-seller dall’esordiente è una nota positiva, secondo me. Indica una maturità in campo editoriale.

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          • Quel pezzo sul blogging e il self publishing l’ho letto anch’io e l’ho trovato interessante. Ora, non me ne si voglia, ma secondo me non ha detto tutto. Fra le righe si legge un ragionamento più articolato.
            Ovvero che né il blogging, né il self publishing, garantisco vendite sicure all’editore. Ovvero li metti in catalogo e questi titoli si vendono grazie all’abilità del blogger e del self publisher. Per poter vendere questi libri c’è bisogno lo stesso dell’impatto promozionale dell’editore. E se io editore devo comunque profondermi con un imponente impatto promozionale, non vado a scegliermi il blogger o il self publisher, ma vado a ricercarmi l’autore alla vecchia maniera.
            Ma puoi star tranquillo che se il blogger ha una community larga alle spalle (Enrica Tesio per dire una blogger pubblicata da Mondadori) o sei un self publisher che sa piazzare il suo libro, l’occhio dell’editore finisce anche su di loro.

            Sulla vecchia maniera sono d’accordo con te, riviste e agenti letterari sono i due modi attualmente possibili. Le presentazioni tramite lettera sono quasi nulle ormai.
            Però quello che non mi sconfinfera e che io dico tra le righe nei miei interventi è un’altra cosa.

            Siamo proprio sicuri che nell’epoca dei blogger, dei social a tutto spiano, dove il contatto col direttore editoriale è nella sua pagina Facebook, dico siamo proprio sicuri che lo scrittore non può inventarsi altri sistemi per farsi notare?

            Ma il punto è ancora più sottile. Perché non deve farsi notare lo scrittore, ma lo scrittore deve far notare il romanzo che ha scritto.
            Cioè si potrebbero creare strategie, creando un sito ad hoc basato sul romanzo o pagine Facebook che permettano di comunicare il romanzo ai direttori editoriali, ai talent scout, agli agenti.
            Occorre un approccio differente.
            Io quando pensavo di fare lo scrittore negli anni ’90. Non avevo strumenti se non quelli che esistono tutt’ora: invio agli editori, agenti o riviste.

            Ma negli anni 2010 con la potenza di comunicazione che ci circonda, possibile che non ci siano altre soluzioni?
            La tecnologia lo permette, le soluzioni alternative possibili sono delimitate dai confini della nostra fantasia. Occorre inventarsi nuove strategie, qualcosa che salti all’occhio, tentare fenomeni virali anche di un libro che non esiste e che si vorrebbe pubblicare.
            Attorno a noi esistono strumenti potenti. Dobbiamo solo studiarli e capire come possono tornare utili per il nostro sogno di diventare scrittore.

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            • Il tuo ragionare mi piace, lo sai, però ci vedo sempre una forma di facilitazione forzata, un voler trovare il mezzo per saltare la fila. Il mio capo, per farti un esempio, è fissato col pulsante magico: quello che premendolo gli permetterebbe di risolve i problemi. E’ sempre lì a scervellarsi su come escogitare un “pulsante” anziché su come risolvere i problemi. Col risultato di non cavare mai un ragno dal buco, o di fare una fatica immensa per cose relativamente semplici.

              Se scrivi qualcosa di veramente buono, mi dici a che ti serve inventare «strategie, qualcosa che salti all’occhio, tentare fenomeni virali anche di un libro che non esiste e che si vorrebbe pubblicare»? Basta un agente, se non più l’invio automatico all’editore, per saltare l’intera fila e venire pubblicati e, magari, pure con successo. Inventare un sistema per aggirare il sistema serve invece solo se quello che hai scritto non è abbastanza buono. E ci sta, ci mancherebbe; solo che per come la vedo io se non scrivo qualcosa di “abbastanza buono” che lo pubblico a fare? Meglio astenersi. Noi due differiamo sostanzialmente in questo, e credo solo proprio in questo.

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              • No, ma che saltare la fila. Anzi, devi lavorare di più. Pulsanti magici non esistono. Esiste solo il lavoro duro e l’abnegazione per portarlo avanti.
                Il punto chiave lo hai detto tu stesso.
                Se hai scritto il romanzo buono non c’è bisogno di altre soluzioni.

                Ne sei così certo che l’editoria sia in grado di accorgersi di un romanzo buono così come funziona adesso? Io no.
                Io credo che il grado di inefficienza di selezione dei romanzi sia altissimo.
                Tanti romanzi validi, commerciali e letterari, è probabile che vengano scartati e nessuno lo sa.
                Perché se tu hai scritto un grande libro che fai? Invii lettere di presentazione. Le lettere non le legge nessuno o l’ultimo della redazione annoiato per i tanti manoscritti mediocri e magari ti ignora. Nelle riviste che contano non ci arrivi. Magari fai vedere il tuo scritto a un agente e l’agente non crede nel tuo lavoro e non ti prende in scuderia.
                Hai scritto un romanzo buono, ma se non lo puoi comunicare al mondo che esiste ti resta fra le mani.

                L’editoria è un sistema altamente inefficiente nel selezionare i libri. Perché è un filtro. Il famoso filtro che voi adorate, conoscendo le regole del gioco, in realtà è un grosso limite.

                Perché in giro ci saranno tantissimi romanzi che possono piacere ai lettori, ma gli editori, che non sono indovini, ma agiscono per istinto, a naso, non sanno intercettare e scartano.
                Una prova evidente di questo è il genere del momento.
                Qualche anno fa gli editori cercavano tutti i thriller religiosi alla Dan Brown. Poi cercavano i vampiri moderni. Poi i distopici alla Hunger Games.
                Adesso, ho sentito che gli agenti cercano libri alla Ferrante.

                La tendenza editoriale è di sfruttare la coda lunga dei romanzi apripista. Un modello funziona e provano a replicarlo fino a quando dura.
                Ma in realtà esistono altri modelli che in questo momento potrebbero piacere ai lettori e vengono scartati perché fuori linea. Sarebbero investimenti rischiosi. E il rischio non è contemplato in un sistema economico quello editoriale in cui i margini sono risicati.

                Quindi io resto per lo scrittore che si autodetermina, sia in self che per cercarsi l’editore. Non è una scorciatoia. E’ la strada più difficile. Ma è il tuo sogno in ballo. E io il mio sogno non lo affido a nessun altro se non a me stesso. Preferisco fallire da solo che essere scartato da altri.

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                • Una volta chiesero ad Einstein se fosse possibile che un genio restasse incompreso e lui rispose: no, perchè la genialità sta proprio in quello.
                  Credo poco alla storia del capolavoro incomprso che resta sul tavolo degli editori a prender polvere, certo, statisticamente a qualcuno sarà successo e certo qualche “lolita” fara fatica a vedere la stampa, ma alla fine persino un romanzo difficile come dalle rovine ha trovato un editore: se c’è la ostanza alla lunga qualcuno che la nota c’è.

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                  • Einstein ero un genio, ma sulla teoria quantistica non lo era abbastanza nemmeno lui. 😉

                    Quel che dici è vero. Ma allora dovremmo prendere per buono che Harry Potter si uno scarto scampato per miracolo. O il Gattopardo. O Stoner pubblicato con scarsi risultati più di 20 anni fa e poi diventato best seller mondiale. Cioè dovremmo ammettere che tutti i casi scartati e poi diventati best seller siano stati trovati e che non ne sia sfuggito neanche uno.
                    E magari molti di questi rintracciati che potevano ambire di più, sono finiti in piccoli o grandi editori che non li hanno saputi valorizzare.
                    Vedi Kent Haruf pubblicato 15 anni fa Rizzoli e fu un flop (non ci hanno creduto a sufficienza?) e adesso sta facendo la fortuna di NN Editore.
                    Ma questi sono i casi eclattanti. Ma quanti libri che potrebbero vendere non 1 milione di copie, ma dieci mila, che non è un risultato da buttare, vengono continuamente scartati?

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                    • Ragionando cinicamente da lettore (certo fossi uno degli autori scartate la penserei diversamente), pazienza. Pensa cosa ci siamo persi con l’incedio della biblioteca di Alessandria, e poi c’è talmente tanto da leggere…
                      In fondo 10000 copie pr chi lo vende sono tante, ma e consideri che in italia ci sono 6 milioni di lettori forti sono un nulla statistico 😉

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                    • Per la biblioteca di Alessandria io ancora do la colpa a Giulio Cesare.
                      La cosa più bella di questo ragionare è il gioco delle parti.
                      L’editoria ha le sue ragioni commerciali. In tal senso opera al meglio. Gli scrittori hanno le proprie. I lettori altre ancora.
                      Io da piccolo imprenditore guardo come lavora l’editoria e da collega (collega di un piccolo editore s’intende) dico, è giusto che facciano così. Le royalty risicate allo scrittore devono sussistere perché altrimenti non tornerebbero i conti. I resi sono una palla al piede perché…
                      Però ragionando anche da scrittore e quindi comprendendo le scelte dietro le quinte dell’editoria, mi inalbero. Perché con l’editoria uno scrittore ha sempre più da perdere di quel che può guadagnare. E non guardiamo Camilleri e i casi di successo, come si fa sempre. Guardiamo dal fondo, da quel che succede agli ultimi. Che nell’essere ultimi non è detto che siano scarsi.
                      Se si legge bene l’intervista ai direttore editoriali, viene la pelle d’oca se sei uno scrittore. Dicono: sì effettivamente in quel caso quegli esordienti li abbiamo bruciati, però con quell’altro ci abbiamo guadagnato di più. Sembra che ragionino di patate al mercato. Mentre in quel bruciare per una scelta sbagliata editoriale ci sono persone, cuori che battono, sogni, aspettative. E se tu sei il bruciato perché l’editore ha sbagliato, non puoi fare nient’altro che: A) sputare sull’editoria se ne sei rimasto escluso. Da bruciato puzzi. B) Accettare a capo chino le scottature se in qualche modo ne riesci a rientrare.

                      Guarda i dati di messaggerie, il più grande distributore italiano e dimmi se non c’è da restarne agghiacciati (come dice Conte):
                      Messaggerie ha in catalogo: 171.160 titoli.
                      Di cui:
                      il 40% ha venduto meno di 10 copie.
                      il 35% ha venduto tra le 10 e 100 copie.
                      il 25% ha venduto oltre 100 copie.

                      Cioè il 75% dei libri che Messaggerie distribuisce è in perdita. In perdita per gli editori e per gli scrittori. Messaggerie tipo il banco, vince sempre.
                      E io dovrei entrare in un meccanismo in cui nel 75% dei casi il mio libro non venderà più di cento copie?
                      E’ questo il sistema efficiente?
                      Sbatti per anni per trovare un editore, lo trovi, sei felice, vendi 50 copie e dopo tre mesi è finito il giro di giostra. Scrivine un altro se vuoi di libro, magari al prossimo colpo sarai più fortunato.
                      Preferisco vendere 10 copie, almeno le ho vendute io e dormo felice la notte. 😉

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                    • Ma infatti, secondo me, il grosso problema in italia è la distribuzione, una volta ho seguito una discussione su facebook tra piccoli editori che ne parlavano, tra rasegnati al fatto che da messaggerie non si scappa ( che comunque ti distribuisce ovunque) a quelli che cercavano vie alternative (esistono anche i distributori indipendenti, che hanno meno libri a catalogo e quindi li presentano meglio ai librai, ma non arrivano ovunque).
                      In un mercato sano almeno quel primo 40% non dovrebbe neanche vedere la stampa, (poi ci sarebbero 70000 autori inviperiti in più perchè nessuno li capisce 😛 ), invece si sguazza così, perchè a messaggerie fa comodo portare a spasso per l’italia tanti libri.

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                    • Avevo detto a Salvatore che oggi non commentavo il post.
                      Ha insistito e vedi quante parole mi ha fatto scrivere. O.o Potevano uscirci tre racconti o 5 post per il mio blog. 😀
                      Io comunque non credo che Messaggerie e di conseguenza le librerie siano il male. I piccoli editori devono guadagnarselo il diritto all’esistenza in libreria con libri vendibili al grande pubblico. Altrimenti sembra proprio elemosinare uno spazio solo per il fatto di esistere. E nel commercio non funziona così.

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                    • Messaggerie non è il male, ma è un problema, ha quasi il monopolio della distribuzione ed è parte di un grosso gruppo editoriale. Nel commercio queste due cose messe insieme sono un problema, mi pare.

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                    • Messaggerie non è un problema perché è la realtà.
                      Non ci si può lamentare dei problemi senza soluzione.
                      Un mio amico si è trasferito a Londra per lavoro. E si lamentava che qui da noi il sole è la norma, lì il cielo è sempre uggioso. Da noi non trovava lavoro, lì guadagna un mucchio di soldi.

                      Il problema sono le librerie. Non c’è spazio per tutti. E la libreria preferisce libri di autori conosciuti o con un marchio editoriale dietro in grado di fare promozione.
                      Infatti, nonostante i piccoli editori provino a bypassare messaggerie, i librai non è che fanno salti di gioia. Sì, venite a noi e abbattiamo la tirannia.
                      I librai ai piccoli sono poco interessati a prescindere.
                      Per loro ha poco senso esporre accanto ad Ammanniti e a King autori sconosciuti di marchi improbabili. Già, le librerie non riescono a vendere i titoli forti con rese fra il 60 e il 70%, figuriamoci il resto.
                      Piccoli editori che vanno in libreria ce ne sono. Sur, Iperborea, Marcos & Marcos, NN Editore e molti altri.
                      Hanno le amicizie dentro messaggerie? No.
                      I librai vogliono quei libri, perché pur essendo marchi editoriali piccoli sono riusciti a farsi conoscere.
                      Quindi, quando io leggo le interviste dei piccoli editori che piangono come se subissero la più grande ingiustizia, io rispondo: il mondo è difficile. Lavora, impegnati, affermati, e quando ti vorranno le libreria raggiungerai la tua fetta di paradiso. Sempre ammesso che la libreria sia un paradiso per il piccolo editore.

                      Perché caso vuole, tanti di questi piccoli che si lamentano, poi vado a guardare su Amazon. E spesso o i titoli non sono disponibili. O non c’è la versione ebook. O la pagina Facebook dell’editore è assente o pressoché vuota. Lì dove il piccolo dovrei avere la sua forza, non c’è. Però poi piange.
                      Io li voglio bene i piccoli editori. Ma come dice il proverbio: aiutati che il ciel ti aiuta. 😉

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                    • Ni (oh, poi se troviamo la soluzione al problema dell’editoria in Italia ci devono pagare bene, eh, mica possono leggere i nostri commenti aggratis 😀 )
                      Ni nel senso che in un mercato se c’è un soggetto che ha il sostanziale monopolio il mercato ne risulta distorto e se quel soggetto ha anche il controllo dell’intera filiera la distorsione è ancora maggiore, ma ci cade anche Amazon in questo che non è che sia proprio “trasparente” se vogliamo.
                      Ovvio che l’editore deve rimboccarsi le maniche e avere un prodotto di qualità, che non significa solo avere buoni romanzi in mano, ma chi va dal libraio a proporre i libri è il distributore e mi pare logico che tra tra un romanzo di Guanda o di Longanesi e il tuo (che sei la concorrenza) spingerà più sui primi.
                      Quello che si domandavano gli editori in quella conversazione era se ha senso per un editore piccolo farsi distribuire dal distributore grosso, perchè in quel modo ti troverani inevitabilente a sgomitare tra il bestseller del momento e il classico che tutti leggono nelle scuole, mentre un distributore più piccolo che magari ha un migliaio di titoli a catalogo potrebbe presentarti meglio al libraio, col rischio però di non arrivare ovunque.
                      Sulla mancanza degli ebook su siti fatti coi piedi (ne ho visti ancora di fatti in flash o con abbondante uso di tabelle e grafica alla “MS publisher” – per noi che siamo giovini è abbiamo vissuto il boom del comic sans 😀 ) o pagine social prive di interazione sfondi un porta aperta. (tra l’altro hai visto che minimum fax si è rifatta il look?)

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                    • Di soluzioni non ne ho chiaramente.
                      Sul fatto che Messaggerie privilegi i propri marchi è vero, ma non è così determinante. Non è la causa perché i piccoli ne vengono esclusi. Perché i manager di Messaggerie hanno alle spalle i consigli di amministrazione che desiderano una cosa soltanto: profitti.
                      Pertanto non verrà mai boicottata una Sellerio, o qualunque editore che produce profitti. Perché se i profitti scendono o non mantengono le stime di crescita o di tenuta, le teste dei manager saltano. E ciascuno tiene alla propria testa.
                      Se un piccolo editore ha potenziale per vendere entra.
                      Il problema è farsi conoscere e affermasi fuori la libreria per poter entrare dentro la libreria. Ed è un bel problema.

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                    • Beh, però messaggerie guadagna sia che il libro venda sia che il libro non venda e questa è un’altra stortura del mercato, alla fine l’unico che si accolla rischi è l’editore: il distributore è pagato per portare carta avanti e indietro e per tenerla nei magazzini, indipendentemente che quella carta arrivi a un lettor o finisca al macero, il libraio, alla fine, col meccanismo del conto-vendita rischia poco, al massimo spreca un po’ di spazio sugli scaffali.

                      Ciò non toglie che gli editori, non tutti, ma molti, stiano un po’ seduti ad aspettare che la mela cada dall’albero, ma mi pare sia un problema diffuso nell’imprenditoria italiana.

                      P.S. la soluzione al problema nonl’abbiamo ancora, mavedrai che se andiamo avanti così… 😛

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                    • E allora per non dare soluzioni, meglio tacere va. 😉

                      Anche se… 😀
                      E’ la velocità di vendita per una attività commerciale la differenza fra successo o fallimento.
                      Il distributore è vero che guadagna sia che il libro non si vende, sia che si vende. Ma più i libri si vendono rapidamente, più lui deve rifornire, quindi guadagna di più.
                      Idem per il libraio. Il conto vendita è una soluzione necessaria altrimenti fallirebbe. Ma ogni mese il librario ha costi fissi inderogabili. Affitto, luce, dipendenti, utile del titolare per pagare le bollette. Quindi anche se il costo del libro non lo paga, ha necessità che sugli scaffali o in vetrina, sostino i libri che si vendono di più. Se un libro prende polvere sta occupando spazio prezioso che potrebbe essere destinato a qualcosa di più vendibile.
                      P.s. Il mio sogno da ragazzo era di aprire una libreria. Contattai pure il franchising Mondadori. E il loro promoter mi illustrò con i cataloghi come sarebbe venuta la libreria. Ma occorrevano 200 milioni cash. E dato che io come Salvatore ero e sono squattrinato, quel sogno non si è mai realizzato.
                      Vedi i sogni frantumati cosa producono? E poi uno dice che si butta nel self. 😛

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                    • Però sta anche al libraio venderli i libri, mica basta metterli sugli scaffali come al supermercato. Insomma, se entri in un neozio di abbigliamento ci sarà la commessa a seguirti e consigliarti, se vai dal macellaio lui ti proporrà i tagli adatti e magari ti suggerirà anche le ricete giuste, se entri in un mobilificio ci sarà un architetto pronto a “progettare” la soluzione più adatta a te, se vai in un autosalone ci sarà un impiegato che cercherà di venderti tutti gli optional possibili, dopo averti fatto sfiorare quella morbidissima pelle che usano per gli interni. Perchè non dovrebbe essere così anche per le librerie? Per alcune lo è, ma molte si limitano alla versione supermercato. Nella versione supermercato bastano gli scaffali pieni di bestseller, altrimenti serve qualcuno che capisca i gusti del lettore che entra e sia in grado di proporgli quel che cerca.

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                    • Ok, apriamo una libreria io te e Salvatore.
                      E poi facciamo a gara su chi ne vende di più.
                      Però mi dovete concedere un angolino per gli scrittori in self. Anche se dietro il pilastro, accanto alla toilette. 😛

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                    • P.S. io per il self qualcosa in più farei,più che altro per portare ai lettori ciò che di interessante c’è nll’ambiente.
                      Avevo pensato a un premio strega del self (mettendoci un rum, visto che siamo pirati), ma la fatica mi scoraggia un po’ 😀

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                    • Uhm… sul self io la vedo come il boss de: il Giorno della Civetta di Sciascia.
                      Lui dice:
                      “Io” proseguì don Mariano “ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà. Pochissimi gli uomini; i mezz’uomini pochi, ché mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini. E invece no, scende ancora più in giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi. E ancora di più: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito. E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre.”

                      Nel self c’è troppa confusione. Se provi a fare qualcosa per gli uomini, ovvero gli scrittori indipendenti, poi arrivano tutti i quaquaraquà, cioè coloro che scrivono un testo in due giorni e senza rileggere cliccano sul tasto pubblica.
                      Preferisco ognuno per sé e i premi lasciamoli agli scrittori che ambiscono all’editoria.

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                    • Ah, io pensavo che il mondo si dividesse in due categorie, quelli con la pistola e quelli che scavano 😀 Poi c’è l’uomo col fucile e si sa come finisce 😛
                      L’idea er proprio per dare visibilità agli indipendenti bravi, magari il premio non è gran cosa perchè poi arrivano solo i quaquaraqua e gli uomini stanno a guardare

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                    • Basterebbe bypassare il distributore e proporre alla libreria una percentuale di guadagno più alta. Stai sicuro che anche se il tuo marchio non è noto e così il nome dell’autore, il libraio il tuo libro lo spinge di più. Il problema però è raggiungerle le librerie…

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                    • Conosco una casa editriceche fa così, però vendono soprattutto online poi hanno un piccolo gruppo di libreire di fiducia.

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                • Ho letto il post e tutti i vostri commenti con molto interesse…
                  Ho cinquante idee che mi girano in testa in maniera scomposta… vediamo cosa riesco a fare per esporne almeno due in maniera ordinata.
                  La prima riguarda il fatto che il chiedere soldi per un biglietto da Ivrea a Torino, trovarsi un lavoro qualunque per mantenersi gli studi o far come si può quando non si ha soldi li assocerei più al rimboccarsi le maniche e spendere tutto il tempo spendibile nello scrivere un buon romanzo più che al mendicare nel mondo dell’editoria. Per me infatti è l’unica cosa da fare. Molto prima di preoccuparsi della pubblicazione.
                  Sono molto d’accordo inoltre con Marco sul fatto che lo scopo di un libro è di avere lettori e non di esser pubblicato. In questo senso alcuni giorni penso che sarebbe meglio inviare un pdf del mio romanzo a tutti quelli che conosco e vedere che succede piuttosto che cercare canoniche strade editoriali. Che succederebbe se lo mando a 200 persone e dopo poche settimane l’avessero letto in 2 milioni? Io in fondo – ma sarebbe meglio dire “il mio narcisismo” – voglio soltanto esser letta e apprezzata.
                  Una sola cosa mi frena (forse più di una, ma qui su due piedi mi viene in mente questa): Moccia distribuì il suo “Tre metri sopra il cielo” così e pochi mesi dopo era un caso letterario. Mah… il libro francamente non è che lo annovererei tra i capolavori della letteratura (ma l’ho letto sennò non avrei potuto darne un’opinione). Insomma, per me l’editore stava lì (ma probabilmente non è più questo il suo ruolo né una delle regole del gioco, se mai lo è stata) per garantire una certa qualità. Non so se il numero di lettori in breve possa davvero determinare la qualità di un libro, semmai la sua popolarità. Lo stesso vale per le canzonette contro certi capolavori musicali.
                  Come la mettiamo con questa contraddizione che riassumerei come “popolarità/tanti lettori vs genialità-originalità/incomprensione”? In entrambi questi ambiti si può esser pubblicati o meno visto che il criterio per l’editore è soltanto vender libri e farci soldi, ma magari non si è letti in quantità né in qualità comparabili. E, in questo senso, per il narcisismo è meglio esser letti tanto e diventare Moccia o esser letti poco o niente ma valere letterariamente qualcosa (con il rischio di saperlo soltanto per se stessi, tipo Einstein)? Questa domanda prescinde e forse precede quella sull’editoria, o almeno credo.
                  Spero di esser stata chiara: il post ha messo in moto tutti i miei neuroni in maniera scomposta e aleatoria… 😉

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                  • “Moccia distribuì il suo “Tre metri sopra il cielo” così e pochi mesi dopo era un caso letterario. ”
                    Non mi risulta sia andata così. Agli atti, Moccia pagò di sua tasca la prima pubblicazione (già, un eap, editore a pagamento) ancora nel 1992, ma non ebbe un gran seguito, la percezione fu di parziale flop. Venne ristampato nel 1998 e dopo aver esaurito le stampe, i liceali iniziano a fotocopiarselo. E’ lì che interviene Feltrinelli nel 2004, con la versione che ora conosciamo (e che differisce per ambientazione, è stata “armonizzata” all’epoca moderna, da alcuni riferimenti ad alcuni marchi noti inseriti nel testo). Perciò in realtà quel successo ha richiesto 12 anni per venire alla luce e probabilmente tre diversi editing.

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                  • Chiara, ad alcune domande non puoi che rispondere tu stesso: ognuno ha aspettative ed esigenze diverse. C’è chi scrive pensando di fare il botto e diventare ricco… Chi scrive perché fa figo avere un’aura da intellettuale. Chi scrive perché ha qualcosa che gli sta a cuore da comunicare, E via dicendo.

                    Tuttavia, piuttosto che il pdf, allora meglio il self. Almeno dai una possibilità di leggerti anche a chi non ti conosce.

                    Infine, era chiaro che il post volesse essere una provocazione rivolta a tutti quelli che “vorrebbero ma non possono”.

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                • Sostanzialmente sono ancora convinto che il merito venga premiato, sì. Credo che nell’editoria ci lavori gente che ha passione ed professionale, più che in altri ambienti. E la prova è che se così non fosse semplicemente non esisterebbero romanzi apripista, giusto? Bisogna distinguere tra un certo tipo di editoria che cerca di accumulare utili cavalcando un’onda, e un’editoria che fa ancora il proprio lavoro; e questo perfino all’interno della stessa casa editrice. In fondo le linee editoriali, le collane servono a questo.

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  5. Questo post casca a fagiolo ( o a fagiuolo 😀 ) Mi sovviene ( o mi viene su, rigurgita insomma 😀 ) un florilegio di cazzate giovanili inerenti al perché e al percome ci si lancia nell’avventura della scrittura. Vi propongo l’incipit di un saggio mai completato che avrei voluto intitolare “Aurea mediocritas. Ovvero, si chiama cane perché non canta” 😀

    Quando decisi di scrivere, scrivere sul serio voglio dire, fu per consolarmi dalla delusione schiacciante ricavata dal mio atteggiarmi a scrittore soltanto per darmi un tono e prendere della figa. Allora ero giovane, i liquidi e sfolgoranti anni ’80 regalavano promesse. Molti miei amici suonavano la chitarra, sapevano comporre canzoni. Ricordo quelle serate sulla spiaggia come qualcosa di avvilente. L’unico modo per farmi notare era buttare lì un ” sto cercando di terminare il mio primo romanzo”. Non avevo calcolato che in piena epoca dell’acid music non fregava un cazzo a nessuno della scrittura e dei libri…
    😀 😀 😀

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  6. In un mondo che è governato dalla perenne legge della domanda e dell’offerta, non sono del tutto convinta che essere pubblicati abbia a che fare con l’arte di mendicare. Forse occorre anche saper recitare, saper bluffare, scommettere sulle proprie carte anche senza poker d’assi, sapersi vendere (mero riferimento commerciale delle proprie capacità di scrittura… prima che ricominciate con le battutine di cui sopra… 😛 )

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    • Ma certo, c’è un gioco delle parti. Così funziona l’industria, il commercio e, perché no?, anche la cultura. La mia era chiaramente una provocazione rivolta a tutti quelli che “vorrebbero ma non possono”.

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  7. Io non mi sono mai posta nella condizione di mendicare nel vero senso della parola, però mi sono trovata a dover cercare un lavoro in modo abbastanza insistente, e l’ho fatto con l’atteggiamento psicologico sbagliato, come se fossero loro a fare un favore a me. è questo che, per me, significa mendicare. Invece, a un certo punto della mia vita, mi sono rotta i coglioni (scusa il francesismo) di demolire la mia autostima, e ho cambiato atteggiamento: “questo è un rapporto di scambio”, mi sono detta, “loro fanno guadagnare me e io metto le mie competenze a loro disposizione. Se non le vogliano, la mia professionalità andrà a chi se la merita”. Ho iniziato a presentarmi ai colloqui con un atteggiamento sereno e sicuro (ma non strafottente, perché a nessuno, nemmeno a me, piace chi se la tira impunemente), che mi ha molto giovato. Stessa cosa accade quotidianamente sul lavoro, perché ci sono capi convinti che gli impiegati debbano ripagare il debito di essere stati assunti con un mare di straordinari non pagati e subendo vessazioni di ogni tipo. Molti colleghi hanno subito un lavaggio del cervello e se ne sono convinti anche loro. Io, invece, no (e questo mi ha creato non pochi problemi) perché il debito nei confronti dell’azienda lo pago lavorando, come da contratto, punto. Stesso atteggiamento ci sarà in futuro nei confronti dell’editore: se non accetteranno ciò che avrò da proporre loro, e se non lo accetteranno a condizioni vantaggiose per me, amen. Preferisco mille volte il self, che essere umiliata. 🙂

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    • E questo è certamente l’atteggiamento giusto in ogni aspetto della vita, e quindi della professione; di qualsiasi professione. Ma non era il senso del post. 🙂

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      • Come no? Tutto questo pippone solo per non dirti che non sono d’accordo con il senso del post. Secondo me proporsi non significa mendicare. 🙂

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        • Neanche per me, almeno fino a un certo punto, ma per molti sì. Molti pensano che l’editore debba andargli a bussare alla porta di casa. E, per carità, a qualcuno sarà anche successo, ma se a quaranta/cinquant’anni non ti è ancora capitato, gambe in spalle e marciare dritto.

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  8. Sono sincera, i commenti li ho letti di sfuggita e non tutti, non so il filo logico del dialogo tra di voi. Andando alla parola “mendicare” è chiedere con insistenza a qualcuno perché se ne ha bisogno o trovarsi suo malgrado dover prostarsi per sbarcare il lunario.
    La storia, anzi la tua vita non è pOi così diversa dalla mia, da tanti altri. Alcuni nemmeno sanno, per loro fortuna, ciò di cui parliamo, ma ripeto è una sorte che non hai scelto.O sei fortunato o non lo sei.
    Sbagli nel dire che è elemosinare perché io ci ho visto il “tirarsi su le maniche” unito a spirito di sacrificio e tanta dignità. E comunque sia, se tocchi il fondo, credo che sia umano e lecito prendersi anche un panino. (Per dire).
    La scrittura invece è da condannare quella che tu cerchi di farti piazzare a tutti i costi, elemosinare una pubblicazione. Se viene, vuol dire che era giusto così, senza spingere nulla. Provarci, non pretendere. Ma lì non fai pena a nessuno. Non si mangia la scrittura e le bollette non si pagano col racconto che metti sul web.

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    • Il senso dell’articolo era proprio questo: rimboccarsi le maniche. In fondo scrivere fa parte della vita, e se nella vita di alcuni è necessario perché non dovrebbe esserlo anche nel cercare una pubblicazione? Nessuno viene a bussarti alla porta di casa solo perché hai scritto un romanzo che tieni nel cassetto.

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  9. E’ proprio vero il difficile nasce dopo che si è scritto un libro ma con perseveranza e tenacia, e ovviamente un pò di fortuna, si possono ottenere grandi risultati

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  10. L’unico motivo per cui ogni tanto mi viene il desiderio di farmi pubblicare da un editore è per trovare conferma di essere capace di scrivere qualcosa di pubblicabile. Poi ci ragiono un attimo e mi rendo conto che non sarebbe comunque una conferma.
    Al momento non so se continuerò a scrivere in futuro, ma se lo farò cercare un editore sarà l’ultimo delle mie preoccupazioni.
    Una cosa non capirò mai. Perché quando facevo software e lo distribuivo da me nessuno veniva a dirmi che ero un arrogante vanesio mentre se faccio lo stesso con un libro tutti lo pensano. Sarò scemo ma tutta questa differenza non la vedo.

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    • Perché a differenza dell’informatico o del medico o del geometra, quello dello scrittore non è considerato un lavoro. La stessa cosa vale per i cantanti/musicisti o per gli artisti in generale. Per essere considerato tale devi passare per una sorta di gavetta, nella quale tutti penseranno di te le peggio cose. Ricordo ancora una lezione di Maurizio Ferraris all’Università di Torino, dove lui sosteneva che, se si fosse trovato nel dubbio di stabilire se una persona (nel caso specifico un suo studente) fosse un genio o un idiota, lui sceglieva sempre la seconda. Questo perché nove volte su dieci è così (vale anche per gli scrittori: nove su dieci tra quelli che lo vorrebbero diventare non hanno le carte per esserlo).

      Tuttavia, secondo me, nel mestiere dello scribacchino c’è posto sia per il genio sia per il mestierante.

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      • Be’… ma anche quello che fa software potrebbe non esser tanto capace, ma nessuno penserebbe che è vanesio, semmai che è incompetente. E soprattutto non riesco a capire come mai per il software la communità decreterebbe immediatamente che non merita quindi la persona probabilmente smetterebbe, mentre per i libri non c’è un modo per far smetter di pubblicare gli “incompetenti” e valorizzare i “competenti”.
        Condivido con Mario l’idea che sia difficile avere una conferma di qualità. Non credo che la pubblicazione lo sia, ma alla fine neppure un alto numero di lettori forse lo è. Ma allora cosa potrebbe esserlo?

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        • Dipende dall’oggettività del “prodotto” o, se preferisci, del suo risultato. Mi spiego meglio: io e te possiamo guardare una cascata e concordare sul fatto che sia bella; tuttavia non sapremmo trovare una definizione univoca e condivisa di bello. Allo stesso modo io e te potremmo concordare, oppure no, sulla bellezza dei romanzi di Tolstoj; rimarrebbe il fatto che il prodotto in sé, cioè la sua bellezza, è indefinibile e quindi inopinabile. Fabio Volo, ad esempio, rientra tra quelli che secondo te sono meritevoli o fra quelli che definisci “incompetenti”? Facciamo finta che per te la risposta esatta sia la seconda; stai pur certa che troveresti moltissimi lettori che la pensano diversamente da te. Quello che intendo dire è che il valore di un libro, o di un dipinto, o di una qualsiasi opera d’arte non è oggettivo. Il buon funzionamento di un software invece sì. Ecco perché quello del progettista è un mestiere (o meglio, una professione) mentre quello dell’artista, inteso in senso lato, non lo è.

          Detto questo, è chiaro che all’interno della categoria degli scrittori, come in quella dei musicisti, c’è spazio, molto spazio, anche per chi non è un genio ma un buon mestierante. Quindi la “scrittura”, in senso lato, può anche essere una professione (giornalista, sceneggiatore, copywriter, ecc.). Ma per me la differenza è ovvia; lo è sempre stata.

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          • Ah… sì, certo, Fabio Volo lo metto senz’altro tra gli “incompetenti”!! 😉
            Ma, a parte gli scherzi, capisco cosa intendi e sono d’accordo. Tuttavia, mah… mi dico che ci deve comunque esser una soglia di qualità minima. Fabio Volo la supera probabilmente, ma tanti altri che sono pubblicati no.
            Per esempio scrivere in italiano corretto è un attributo minimo.
            Tante case editrici, non svolgendo alcun editing sui libri che pubblicano, non sono sicura che garantiscano nemmeno questo attributo minimo (ma minimo minimo, eh!! Perché francamente non credo che scrivere in italiano corretto e scorrevole sia un requisito in sé sufficiente a esser considerato scrittore).

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            • Non mi trovi d’accordo, e ti spiego il perché: qualche hanno fa una casa editrice – di cui non ricordo in alcun modo il nome, come tutti gli altri nomi di questa storia che sto per raccontare, e me ne scuso – si ritrovò per le mani un volumone autobiografico scritto da un analfabeta (in senso letterale) siciliano. Questo signore ormai molto anziano, si ritrovò a vivere in un periodo storico particolare: quello vissuto dai nostri nonni, e in un luogo ancora più particolare: quello siciliano. La casa editrice ritenne che la storia avesse un valore storico e umano, e lo pubblicò. Decise anche di non “correggere” il linguaggio, perché attraverso di esso, cioè la sua palese invenzione visto che il signore era, per carenza di studi, analfabeta, veicolava con maggiore forza il significato del libro. Ecco un esempio di “letteratura” sgrammaticata ma di valore. La morale, se c’è, è che nell’arte, sempre intesa in senso lato, è impossibile stabilire dei paletti, delle soglie e delle “limitazioni” di qualsiasi tipo. Perfino il canone, alla lunga, è controproducente; come dimostrano sempre le avanguardie.

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          • Attenzione Salvatore che un software che funzioni non è necessariamente un software di qualità (e viceversa, potrei dire 😛 persino il tubo tuker era stato certificato come dall’ente tedesco TÜV)

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            • Non importa, non facciamo dialettica per favore. Ci saranno sicuramente dei dati oggettivi di valutazione. Mentre nella letteratura non c’è (o quasi) alcun dato oggettivo, se va bene.

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              • No, niente dialettica, se parliamo di qualità la qualità si può misurare, anche il letteratura, ma non è detto che un’opera d’arte sia di qualità e viceversa un prodotto di qualità non è necessariamente un’opera d’arte.
                Hai letto Pirsig?

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                  • Mica sono un esperto di qualità 😀 e manco di letteratura. In ogni caso prima bisogna definire dei parametri e dei processi.
                    Potrei dirti ad esempio che un libro di qualità è un libro che è stato sottoposto ad un accurato processo di selezione, ad esempio attraverso lettori certificati (in numero minimo di tre che abbiano dato parere unanime, per fare un esempio) e sottoposto ad un editingo svolto da un editor professionista e certificato e una successiva correzione di bozze in due passaggi successivi svolto da due corretori con patentino rinnovato da al messimo 2 anni.
                    Ma questo è solo un esempio, senza una procedura non si può definire nè misurare la qualità di un prodotto. Prò come vedi non ti ho detto nulla sul testo, sulla sua piacevolezza, sullo stile, ecc. ecc.

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                    • Dice a me Salvatore? Stai parlando con me? Vuoi che ti dia io una definizione di qualità? Ok, però rispondo prima a Grilloz 😀

                      Dunque, Davide dice che con la qualità si fanno volare gli aerei. E che ne so io, se per volare gli aerei, hanno bisogno di qualità? Non sono ingegnere. A stento comprendo l’importanza della portanza. Poi per dire, se si vola con Ryanair, bisogna già essere contenti di riatterrare. 😛

                      Ah, già, devo rispondere pure a Salvatore.
                      Dicesi qualità, in ambito editoriale, quel qualcosa di tangibile, che tutti possono constatare in sfumature diverse, ma che per propria stessa natura dell’oggetto insito in sé, nessuno sa spiegare.
                      E mi consenta, come diceva il buon Totò: ho detto tutto. 😛

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                    • Per fortuna anche Ryanair è tenuta ad avere i certificati di qualità. Poi ho parlato con un ex dipendente e… vabbè, comunque io non ci volo 😛

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                    • Sì può giudicare la qualità di un piatto (inteso come cibo), di una schiuma da barba, di un aeroplano, di un computer… non si può giudicare la qualità di un libro (se non come oggetto: impaginazione, copertina, rilegatura, ecc.), di un quadro, di una sinfonia e via dicendo. Non sono oggetti. La loro forma fisica è solo un veicolo. Il loro contenuto colpisce ognuno in modo diverso. Gli aerei devono portare su, e poi si spera giù, chiunque vi entri. Un libro accompagna solo quei viaggiatori che sono pronti ad accoglierlo. Adesso, se permettete, voglio il Nobel per la pace. 😛

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                    • Un aereo è si curo che ti riporti giù, poi possiamo discutere del come 😛

                      La fai troppo romantica 😛 la qualità non ha nulla di romantico ne di soggettivo

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                • Anche secondo me la qualità si puo’ misurare e ho letto Pirsig che su questo dice la sua. Semplicemente per un libro o una qualsiasi opera d’arte credo dipenda dal numero di persone a cui questa suscita delle emozioni di un certo tipo, una “soddisfazione”, direbbe forse Pirsig.
                  Ma anche lasciando perdere questa “qualità” che, come sottolinea Salvatore, resta comunque per forza di cose soggettiva, c’è sempre almeno qualche criterio oggettivo o oggettivabile. Per esempio la correttezza grammaticale. In questo senso anche un romanzo scritto in dialetto da un analfabeta rispetta paradossalmente questo criterio, solo che la grammatica di riferimento non è quella dell’italiano né dello scritto, ma del dialetto orale! Se il tipo avesse scritto una roba nel suo idioletto personale non so se sarebbe stata considerata un’opera. Immagino che invece ne sia stato valutato il valore storico o tradizionale (che se ci pensi è un altro criterio di qualità). Un altro criterio potrebbe essere l’originalità.
                  Poi boh… ci sono libri che hanno fatto storia e dei quali nessuno direbbe mai che non sono dei buoni libri. Semmai direbbe che non gli sono piaciuti, ma non che sono mal scritti. Secondo me è anche questo un indice di qualità.
                  Sulla Ryan air invece sono tutti completamente d’accordo che non siano viaggi di qualità, ma questo non impedisce di dire che sono più economici e che questo sia un valore per qualcuno. Per me grossa parte della letteratura che si pubblica o autopubblica oggi è come un viaggio in Ryan air: nessuno avrebbe voglia di chiamarla “vera” letteratura ma chesso’… si potrebbe dire che tutti hanno la possibilità di vedere il proprio libro su uno scaffale di libreria, cosi’ come tutti ora possono andare a Parigi rapidamente ed economicamente…

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                  • Nel caso specifico, solo come precisazione, il signore a cui mi riferivo ha cercato di traslare il suo linguaggio orale in quello scritto, di fatto inventando un nuovo linguaggio. Non era il dialetto a cui era abituato a ricorrere nella quotidianità, ma qualcosa di completamente nuovo: un neoidioma. Era la sua idea di come dovesse essere scritto l’italiano, quello che non conosceva né nella forma scritta né in quella orale. Non si è sforzato di scrivere in dialetto, ma in italiano. Il risultato sembra essere uno slang che spiega molto bene il suo mondo, interiore ed esteriore. È questo è certamente uno dei motivi per cui è stato pubblicato. Tuttavia, pur non avendo letto Pirsig, sentire accostare il termine “qualità” a qualcosa di evanescente come l’arte mi mette i brividi.

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                    • Beh, direi che è arrivato il momento di leggerlo 😛

                      Io il termine qualità lo lascerei anche fuori dal discorso letterario, ma è tutto un parlare di libri di qualità, di case editrici di qualità, di letteratura di qualità, di scrittori di qualità, e tutte le volte che lo leggo mi domando, ma sanno di cosa stanno parlando?
                      Ma poi guarda che la qualità non è una bestia così brutta (soprattutto se non sei costretto a studiarti la iso 9001 😛 ) è più una questione di approcio, devi guardare più al processo creativo ce al prodotto della creatività. Prova a esaminare il processo che hai svolto per scrivere i racconti che hai pubblicato e vedrai che ti verrà facile individuare la qualità 😉

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                  • Quello che sostiene Pirsig con la metafora della motocicletta è che la qualità sta nel come più che nel cosa, Un po’ come la metafora del’arciere, sempre restando in tema zen, che si concentra sulla perfezione del gesto ignorando il bersaglio e il fatto che colpisca il centro è conseguenza della perfezione del gesto, non il fine del gesto stesso.

                    Tempo fa mi domandai se nel mio mestiere (Salvatore sa di che parlo) potesse esserci qualcosa di atistico e la risposta me la diede proprio Pirsig. Non è il risultato, non è il prodotto, ma e il processo, il modo in cui le cose vengono fatte che possono renderlo arte. Il discorso è un po’ filosofico 😀

                    La qualità resta qualcosa di misurabile ma impalpabile. La soddisfazione del cliente è sempre uno dei requisiti, ma attenzione che il successo di vendite non corrisponde necessariamente con la soddisfazione del cliente. Ul libro potrebbe essere scritto anche per un solo singolo lettore e se quel lettore è soddisfatto si è raggiunto lo scopo.

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      • Nell’ambiente musicale la gavetta la fai sul campo, strumenti alla mano, e il fenomeno indie è forte e apprezzato. Lo stesso vale per la gran parte delle arti, non è che un pittore va da un editore, espone, anche in maniera estemporanea. L’editore per altro non garantisce alcuna gavetta, non mancano esempi di autori che vengono pubblicati al primo tentativo, anche in tenera età. D’altra parte pubblicare in priorio non esclude che la gavetta la si sia fatta.
        C’é in questo settore un occhio profondo verso gli autori indipendenti che non riscontro in nessun altro campo.

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