I tre atti di una storia

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La regola del tre

Che siate scrittori di racconti o romanzi; sceneggiatori, drammaturghi o narratori; perfino semplici cronisti; dovete sapere che qualsiasi cosa stiate scrivendo, quella è divisa in tre parti: incipit, svolgimento e conclusione. Qualsiasi storia, se viene narrata, sarà raccontata rispettando questa partizione. Un vecchio detto dei tempi della commedia tardo settecentesca recita: «Digli cosa stai per fare, fallo, poi digli cosa hai fatto». Sembra ripetitivo ma è un modo molto efficiente di raccontare una storia. Tuttavia c’è un modo più efficace di dire questa cosa: nel primo atto fai un nodo, nel secondo un fiocco, nel terzo scioglili. Il segreto della narrativa, in ogni sua forma, è tutto qui.

Qualsiasi storia al suo esordio ha la necessità di chiarire la propria natura, creando col lettore/spettatore un legame. Man mano che il legame tra fruitore e storia si rafforza, l’esigenza che egli ha di partecipare emotivamente sarà sempre più forte. Fino a un punto di rottura, oltre il quale è necessario uno scioglimento. I tre atti servono all’autore per accompagnare il proprio interlocutore attraverso questo percorso. Se il vostro scopo è far provare delle emozioni al lettore, allora non potete sottrarvi a questa struttura. Il rischio è il fallimento.

Ogni storia in fondo deve avere un inizio, uno svolgimento e una fine; solo che il modo in cui essa è ripartita non è casuale o indifferente. Questa ripartizione ha un legame molto diretto con ciò che vorreste far provare al lettore/spettatore. Ogni viaggio comincia con un progetto, a cui segue un tragitto e termina con una destinazione. Nessun viaggio è un viaggio se viene a mancare una di queste tre componenti. Nella narrativa vale la stessa cosa: fai un nodo, fai un fiocco, poi scioglili.

Il nodo

Il fatto che il lettore abbia volontariamente scelto di immergersi nella vostra storia non significa che l’immedesimazione sia automatica. Il suo coinvolgimento deve essere costruito. Esattamente come nel giornalismo, all’inizio dobbiamo fornirgli delle coordinate: chi, dove, quando. Esse permettono al lettore di trovare dei punti di contatto tra la propria realtà e quella in cui lo state introducendo: chi è il protagonista? in che luogo si trova? in che tempo opera?

Non serve che la storia dia al lettore la sensazione di stare parlando di lui, ma per cominciare a imbastire una forma di partecipazione emotiva è necessario che il lettore riconosca in essa dei punti comuni. Per fare un esempio, Guerre stellari, come sappiamo, si svolge «tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana»; eppure parla di guerra, di principesse da salvare (Leila), di cavalieri romantici (gli Jedi). Anche se l’ambientazione è esotica, anche se parla di un’altra galassia in un’altra epoca, queste cose – la guerra, le principesse, i cavalieri – sono comunque riconoscibili da qualsiasi persona. Su di esse si fonderà il coinvolgimento dello spettatore. Da sole comunque non bastano. Bisognerà che il protagonista desideri qualcosa.

Aristotele diceva: «Prendi un personaggio verso il quale sai che il lettore proverà una forte empatia, poi fagli capitare le cose peggiori che riesci a immaginare». Se il vostro personaggio desidera qualcosa, allora dovrà sicuramente affrontare delle difficoltà per averlo. La partecipazione emotiva del lettore si ottiene solo quando egli comincerà a preoccuparsi per il futuro del personaggio. Se il lettore non avvertirà alcun legame con la storia, di essa allora sarà solo uno spettatore indifferente. Il primo atto dunque serve a creare questo legame: fai un nodo.

Il fiocco

Piantato il seme bisogna che la pianta cresca. Il secondo atto è di norma la parte più corposa di una storia. L’interesse del lettore ora deve accrescersi fino a livelli patologici. Bisogna fare in modo che questo avvenga. Il lettore vorrà conoscere meglio il personaggio; lo stesso personaggio vorrà ciò che desidera con maggiore ardore. Se la storia è cominciata, significa che il nostro “eroe” ha accettato la sfida: adesso arrivano i guai. La tensione deve salire fino al climax, il quale è il punto culminante della vicenda. Di esso parleremo un’altra occasione. Vi basti sapere che quello che diceva Aristotele a proposito del personaggio – fagli capitare le cose peggiori che riesci a immaginare – deve aver luogo ora!

Ci sarà un antagonista da presentare, degli aiutanti, dei nemici, un mentore. Ci saranno sfide da affrontare e vincere fino ad arrivare all’incontro finale, quello che decreterà la vittoria o la sconfitta del nostro eroe. Tanto più diventa difficile raggiungere l’obbiettivo, tanto più forti saranno le emozioni che farete provare al vostro lettore con lo scioglimento. L’obbiettivo del secondo atto è ancora quello di alimentare il legame tra lettore e protagonista. Per farlo abbiamo bisogno di altre informazioni su di lui e sui personaggi secondari. La figura del cattivo, ad esempio, potrebbe essere più complessa del solito malvagio. Quando la tensione sarà al massimo, il secondo atto sarà concluso. Per arrivare fin lì: fai un fiocco.

Lo scioglimento

Il terzo atto sembrerebbe quello più scarno, in termini di contenuti. Eppure è il più importante. È quello in cui vi giocate tutto. È la somma degli esiti delle prime due parti. Aver raggiunto o fallito l’obbiettivo può dare vita a un secondo obbiettivo. Un ricco uomo d’affari e una prostituta si sono infine innamorati; obbiettivo raggiunto. Ma adesso come se la caveranno fra di loro? Il climax non è nel secondo atto; il secondo atto è preparatorio: si raggiunge un obbiettivo per affrontare quello successivo, quello vero. Il climax si trova nel terzo atto (o per meglio dire a cavallo fra i due). Se hai fallito il primo obbiettivo, ad esempio sconfiggere in duello Dart Fener, vincere contro l’impero può rivelarsi decisamente problematico. A questo punto dovreste sfregarvi le mani: avete portato il lettore esattamente dove volevate.

Una volta superato il climax bisogna sciogliere il legame che tanto abilmente avete annodato. Nessuna storia può dirsi conclusa prima dello scioglimento. Questo avviene quando il lettore smette di preoccuparsi del futuro del protagonista. Il bello delle storie è che, a differenza della vita reale, hanno sempre una conclusione. Ed è il fatto che esista la parola fine a fare sì che il lettore tiri un sospiro di sollievo e torni alla sua vita. Se avete avuto la fortuna di vivere un’esperienza negativa che alla fine è passata, allora sapete esattamente quello che deve provare il lettore alla conclusione della vostra storia. Non è importante che la storia si sia conclusa felicemente, quanto che si sia conclusa concretamente. Esistono anche i finali aperti. La curiosità del: “… e adesso che succede?”, è sempre di grande stimolo per l’autostima di uno scrittore. Ma questo non significa che le vicende raccontate fino a lì non abbiano avuto comunque una conclusione. Sciogli i nodi.

Qualcuno sostiene che il primo atto sia ispirazione, il secondo mestiere e il terzo filosofia: posso concordare, ma bisogna intenderci. Nel primo atto prepariamo l’immaginario del lettore; nel secondo gli raccontiamo la storia; nel terzo tiriamo le somme. Questo non significa che deve esserci una morale o un insegnamento: guardatevi bene da una cosa del genere. Se una storia deve insegnare qualcosa, lo deve fare di riflesso e mai direttamente. Significa semmai che nel terzo atto, in base al modo in cui sceglierete di far concludere la storia, si manifesta il vostro modo di vedere il mondo. In questo senso, e solo in questo, il terzo atto è filosofia.

Per concludere, anche questo post è stato diviso in tre parti: nella prima vi ho detto di cosa avrei parlato, nella seconda ne ho parlato, nella terza l’ho ribadito. La regola del tre.

52 Comments on “I tre atti di una storia”

  1. Il triangolo no!
    😛
    Tempo fa mi era preso il ghiribizzo di leggere aristotele proprio per documentarmi su questa storia dei tre atti, il testo si trova in rete, ma al solito è prevalsa la pigrizia 😛 (anche perchè tanto poi il romanzo frattale continuerà a dividersi in tre parti all’infinito 😀 )
    Credo che però la divisione in tre atti sia da approfondire, ad esempio perchè il 3 ritorna sempre? Numero magico?
    Quello di cui però non parli nel post è dell’equilibrio che devono avere le tre parti, se lo devono avere (ma ingegneristicamente cerco sempre un equilibrio) e come questo equilibrio può essere “misurato” (noi inegneri cerchiamo sempre di misurare 😀 ).

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    • Caro ingegnere, avrà notato che i miei post sono tutti lunghi mille parole quasi esatte (la sfido a controllare), e mi creda: non è facile sviluppare un qualsiasi argomento sempre nella stessa lunghezza predefinita; lo sanno bene i giornalisti. Ora, per rispettare la regola delle mille parole – necessaria affinché il post venga letto, ché i muri di parole spaventano sempre tutti – di un qualsiasi argomento è possibile approfondire un solo aspetto per volta. Oggi abbiamo parlato della regola del tre. Perché il tre ritorna con tanta insistenza? Non lo so; deve avere a che fare con qualcosa di istintivo sito nell’animo umano. Anche le ripetizioni sono più efficaci se in numero di tre: due è troppo poco, quattro è decisamente troppo. In fondo non si dice che il tre è il numero perfetto?

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  2. Molti scrittori iniziano con un ottimo 1; si dilungano eccessivamente nel 2; ci lasciano un 3 frettoloso e deludente. Una regola del 3…irregolare😉

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  3. Regola del tre o regola del mille, personalmente tendo a rifuggire qualsiasi cosa si presti a perpetuare schemi. Del resto, uno schema è vincente quando porta una ventata di novità. Poi diventa consuentudine, finché non se ne può più e finché non si accoglie a braccia aperte qualsiasi tentativo, pur goffo, di andare fuori dagli schemi. 😛

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    • E’ strano come il mondo si divida in chi ha bisogno di regole, per sentirsi a proprio agio, e chi le rifugge. Nella nostra epoca abbiamo un atteggiamento ribelle, riguardo qualsiasi tipo di limitazione, eppure siamo l’epoca in cui ci siamo auto-inflitti le limitazioni peggiori della storia: mai tante leggi hanno governato il mondo, mai tante regole di buon comportamento hanno additato i profili social (tanto per dirne un paio). Ma per tornare al post, io trovo nelle ripetizioni un ché di confortante, e intrigante persino. Poi, i tre atti, e in generale la regola del tre, durano da sempre: un motivo ci sarà. 🙂

      Eccezione fanno i romanzi che rientrano nella categoria del realismo isterico… Isterico, non so se mi spiego.

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      • Più che all’atteggiamento ribelle, penso a un atteggiamento di ricerca. Il ribelle, spesso, va contro le regole solo per il gusto di farlo, per farsi notare, per manifestare (anche inconsapevolmente) un proprio disagio interiore.

        La ricerca invece solitamente è spinta dalla voglia di sperimentare qualcosa di nuovo, qualcosa di insolito. E per farlo occorre uscire necessariamente dagli schemi e ignorare qualche regola. Oppure inventarne di nuove… 😀 .
        Che poi, a loro volta, diventeranno inesorabilmente vecchie.

        Poi è anche vero che nel tentativo di razionalizzare la realtà che ci circonda cerchiamo di applicare a tutto, anche al nuovo, gli schemi che ci sono già familiari.

        Da quel che mi risulta, è dalla notte dei tempi che le scoperte scientifiche avvengono così: quando qualcuno, consapevolmente o inconsapevolmente, ignorare le regole.
        E in fondo accade anche nell’arte.

        La regola delle mille parole, invece, la rifuggo da ribelle 😛 : se scrivi un post di diecimila parole di sicuro interesse, stai certo che lo leggo. Il problema non è il muro di parole: il problema è suscitare il “sicuro interesse”… ma questo è un problema tuo che devi risolvere scrivendo il post. Io devo solo leggere con il secchiello di pop corn in mano… 🙂

        Quanto al realismo isterico non ti spieghi: ricade in quella vastissima area che è la mia ignoranza… 😀

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        • Su questo posso concordare. 🙂

          Sul realismo isterico il discorso è troppo lungo per poter essere affrontato in un commento; basti dire che è proprio quell’atteggiamento di ricerca, ma anche di ribellione, che ha portato o è stato il frutto del postmoderno. Il fatto che si chiami isterico dovrebbe far sorgere qualche sospetto. 😉

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  4. Pingback: L’arte della retorica

    • Il problema interessante delle strutture è che quando una storia non c’è – Purity di Jonathan Franzen per dirne uno – e non c’è sempre (i libri che non raccontano propriamente una storia sono molti e comunque validi), la struttura diventa un’ossatura eccedente, inutile, aliena, addirittura controproducente. I tre atti, invece, per loro natura sono flessibili e si adattano a tutto: un articolo di giornale, il post di un blog, un racconto, e via dicendo.

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      • Infatti, come tutti sanno, Hegel fu ricoverato per alluce valgo ad Heidelberg 🙂 ne approfitto per farti i complimenti, perché sono un tuo lettore silente (anche di penna blu). La teoria dei tre atti è un’ossessione per me. Quando facevo l’editor di cartoni animati, la usavo come una via di mezzo tra una cartina tornasole e una reliquia (tipo sacro prepuzio di Gesù bambino). Se proprio non hai nulla da fare, sarei onorato se leggessi questo mio post in merito: https://dottstorytelling.wordpress.com/2017/05/06/il-valzer-dei-tre-atti/

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        • Ciao Alessandro, mi piace un sacco conoscere i miei silenti lettori. Mi piacerebbe che fossero un po’ meno silenti, ma che ci vuoi fare. Sono andato a leggermi il tuo articolo e mi è piaciuto. Adesso che, come dici tu stesso, non fai più l’editor di cartoni animati, come occupi il tempo?

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          • A parte districarmi nella palude del divorzio (e t’assicuro che è un’attività difficile da gestire part time) ho ripreso a scrivere (questa passione è stato uno dei motivi del divorzio) e mi mantengo lavorando in un call center (esperienza che consiglio, anche se non auguro, a ogni scrittore, perché è un acquario di umanità varia). Il mio ultimo romanzo, edito da Ultra, ha venduto così poco, che sono state introdotte le quantità negative per i rendiconti ed ho scoperto che il piano commerciale di alcuni editori è: speriamo che la copertina sia azzeccata e incrociamo le dita. Ah, ho scoperto anche che il genere a la Douglas Adams, che è quello che scrivo io (i cartoni animati e la laurea in filosofia mi hanno fregato) fa davvero fatica ed infatti ora corro a scrivere qualcosa con pillole di saggezza su come vivere felici 🙂

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  5. Verissimo. Ho notato che in genere sono strutturate così anche le versioni di latino: l’autore tira fuori una massima o un riassuntino stringatissimo del racconto, poi si produce in sette o otto righe di aneddoto, e infine conclude ripetendo più o meno ciò che aveva detto all’inizio. In questo senso si può dire che tutto il racconto sia filosofia, per altro del tipo hegeliano: tesi, antitesi, sintesi. Quando arriva allo scioglimento finale, il lettore ripasserà mentalmente tutto quello che ha letto e gli tornerà in mente l’indicazione programmatica dell’inizio: se la storia è venuta bene, potrà rileggerla tutta alla luce della nuova consapevolezza che il finale gli ha donato, esattamente come Dante poteva dire, accingendosi a ricostruire tutta la storia del suo amore per Beatrice, che “nel libro della memoria” trovava una pagina con scritto: “Incipit vita nova”.

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    • Probabilmente l’uomo (inteso come umanità) ha scoperto piuttosto in fretta che questa ripartizione è il modo più efficiente per trasmettere informazioni in forma scritta. Oggi lo stiamo dimenticando…

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      • Questo succede quando si confonde il progresso con il consumo: ottenuta una conquista, il vero “progressista” la difende a tutti i costi e la mantiene come base per i progressi futuri; il consumatore, invece, è quello che compra sei sacchetti di biscotti secchi perché erano in offerta – in realtà li odia fin da quando era bambino – e ogni due anni cambia macchina perché se no i colleghi lo guardano dall’alto in basso – e poco importa se la prima auto, una 5oo del ’57, funzionava a meraviglia e lo farebbe tutt’ora. Il risultato è che i suoi figli erediteranno una splendida tonnellata di cambiali.

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        • Peggio: cambia auto perché, altrimenti, la sua si svaluta troppo e poi nel passaggio da quella vecchia a quella nuova deve metterci più soldi. E’ un meccanismo avviato deliberatamente dal mercato.

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          • Appunto. Per quel motivo tanto varrebbe tenersi la propria finché dura: se si è fortunati e regge per vent’anni, diventa auto d’epoca e si riduce il bollo (o scompare del tutto?, non mi ricordo).

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  6. Lo schema del 3 è molto popolare in rete ed è chiamato in modi diversi.

    Ad esempio: 1 Problema, 2 Azione, 3 Risoluzione.

    Viene usato anche nel copywriting, storytelling ecc.

    Copywriting: 1 Cosa ti sto dando/comri, 2 Come l’ottieni, 3 Cosa ottieni
    Storytelling: 1 Problema, 2 Azione, 3 Risoluzione

    Come per la matematica, cambiando l’ordine degli addendi il risultato non cambia.

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  7. Ciao Salvatore.

    Sono passati molti anni da Aristotele, diciamo così, e la regola dei tre atti per me mostra i segni del tempo.

    Io penso che la divisione in atti debba seguire l’ordine e la natura degli eventi della storia in argomento.

    Poniamo che gli eventi di una linea narrativa, quella del personaggio principale, per esempio, che non è sempre il protagonista di una storia, ma se vuoi ne riparleremo, siano quattro, quattro grandi eventi di attività.

    Se il primo evento è imparare qualcosa, un killer impara gli spostamenti della sua vittima, il secondo evento è comprendere quest’informazione, il killer comprende qual è il momento giusto per uccidere la sua vittima, magari mentre essa si reca dall’amante; il terzo evento è fare qualcosa, la spia organizza l’imboscata, e il quarto evento è ottenere qualcosa, il killer uccide la sua vittima, la storia ha solo due atti.

    E ti spiego perché: tra raccogliere un’informazione e comprendere un’informazione, il passaggio tra i due eventi è fluido, diciamo così, non traumatico.

    La stessa cosa accade nel passaggio tra fare qualcosa e ottenere qualcosa.

    Ma se l’ordine degli eventi fosse:

    ottenere qualcosa,
    imparare qualcosa,
    fare qualcosa,
    capire qualcosa, la divisione sarebbe per forza in quattro atti.

    Il passaggio tra un evento e l’altro dei quattro che ti ho elencato è netto e traumatico.

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    • Secondo me dire che gli eventi di una storia debbano seguire il loro corso naturale secondo logica e dire che una storia viene normalmente narrata con una struttura suddivisa in tre atti non è antitetico né contraddittorio: sono valide entrambe le cose. L’una non scarta automaticamente l’altra. Come dici tu c’è una certa fluidità negli sviluppi di una storia e questo è strettamente correlato alla sua evoluzione o, se preferisci, progettazione. Una volta che però la storia l’ho “creata”, la devo raccontare. Sono due attività distinte. Se la devo raccontare, allora la suddivisione in tre atti è ancora oggi la più efficiente. Poi, se volessimo essere pedanti, potremmo suddividere ulteriormente i tre atti in segmenti più piccoli, ma non starei a scavare tanto in profondità. Quello che intendo dire è che inventare una storia e raccontarla sono due attività diverse. Forse è a causa di questo che noti delle differenze fra una struttura che chiami “traumatica” e una che percepisci come “fluida”.

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  8. Ciao Salvatore, forse mi sono espresso male. Non sostengo che gli eventi di una storia debbano seguire il loro corso naturale secondo logica.
    Sostengo che se la successione degli eventi è di natura traumatica, bum, bum, bum, bum, cioè ottenere qualcosa, imparare qualcosa, fare qualcosa, capire qualcosa, è la stessa successione che crea la separazione in atti.

    Tu dici che la “suddivisione in tre atti è ancora oggi la più efficiente”, ti chiedo di farmi un esempio. Com’è può inizio, svolgimento, e fine essere più efficiente di ottenere qualcosa (Atto I), imparare qualcosa (Atto II), fare qualcosa (Atto III), capire qualcosa (Atto IV)?

    La prima è una suddivisione “fumosa”; dove finisce l’inizio e dove termina lo svolgimento?, mi chiedo io. La seconda a me sembra più chiara.

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    • I quattro atti, come li descrivi tu Alessandro – ottenere qualcosa, imparare qualcosa, fare qualcosa, capire qualcosa (ma stiamo parlando di qualcosa?) –, mi fanno venire in mente i film degli anni ’80 di Van Damme: lui non è nessuno ma ha un fratello che conta qualcosa nel campo dell’arte marziale. Il fratello decide di combattere in Asia perché questo gli darebbe la gloria che cerca. Lui ottiene di seguire il fratello facendogli da secondo. Il fratello non solo viene sconfitto, ma finisce pure paralizzato. Per vendicarlo, Van Damme comincia ad allenarsi. Impara subito che fare arte marziale non è semplice, ma incontra comunque un maestro disposto a insegnargli. Si allena duramente fino a diventare qualcuno. Poi gli capita pure di sfidare e vincere il lottatore che aveva storpiato il fratello. Ecco, qui c’è tutto quello che dici, ma la storia è comunque raccontata in tre atti.

      Ora, si può discutere a lungo se sia meglio tre, quattro, cinque atti e via dicendo. Alcuni drammi mi pare che ne avessero proprio cinque. Ma se c’è una cosa che ho imparato sulla scrittura è che non esistono regole tranne una: quello che fai, comunque tu lo faccia, deve funzionare. Per cui segui il tuo istinto e imbocca al lupo. 😉

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      • Cos’hai contro i film degli anni ’80? 😉
        Detto questo, io ti ho proposto quattro atti di attività, potevo proporti quattro atti di natura psicologica.
        Il tuo post termina con la frase “la regola dei tre atti”, ma poi scrivi che in letteratura non ci sono regole, sono confuso.

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        • E perché mai ti senti tanto confuso? Quella dei tre atti lo è, è una regola. Almeno lo è per me. Detto questo, anche se alla fine quasi tutti gli scrittori finiscono per fare le stesse cose allo stesso modo, quello cioè più efficiente, ognuno ha diritto a stabile le proprie. Non esisterebbero le avanguardie altrimenti.

          Parlando di innovazione, l’ultima è stata il postmoderno. Romanzi come quelli scritti da DWF o da Pynchon hanno cercato di innovare proprio la struttura in tre atti: il primo eliminando il finale (penso alla Scopa del sistema); il secondo dilatando la narrazione con continue digressioni (ad esempio L’arcobaleno della gravità). I loro romanzi funzionano, non si discute, eppure l’umanità ha ancora bisogno di storie classiche raccontate in modo classico. I tre atti assolvono a una qualche sorta di antica esigenza, credo. Tipo uomini attorno a un fuoco, o robe così.

          Con questo non intendo dire che sono contrario all’innovazione o alle avanguardie. Io stesso sono affascinato dal postmoderno e, chissà, prima o poi mi piacerebbe cimentarmi. In un certo senso ci ho già provato con questo racconto: Consultazioni; tuttavia se devi raccontare una storia classica in modo classico, secondo me la struttura in tre atti è ancora quella più efficiente. Se non l’hai ancora letto ti consiglio Story, di Robert McKee: l’autore parla di trama classica, minimalista e antitrama. Può essere interessante. Ma le altre due non esisterebbero senza la prima. La stessa cosa vale per il postmoderno, il quale non fa altro che prendere la struttura classica e togliere o aggiungere. Ma sempre da lì si parte. Qualcosa vorrà dire.

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          • Ciao Salvatore, ti ringrazio per il consiglio, comprerò Story e leggerò il tuo racconto.
            Io penso che sia proprio il secondo atto, lo svolgimento, quello dai confini più sfumati. Quando inizia e quando finisce. Magari ne possiamo discutere per email, cosa ne dici? Non vorrei monopolizzare questa sezione.
            Bisognerebbe anche distinguere tra romanzi che funzionano e romanzi che divertono; è passato qualche tempo, ma se penso a La scopa del sistema… Bè, non voglio essere crocefisso dai Wallaciani, categoria cui pure faccio parte.

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