Quella sottile linea beige

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merda d'artista

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Tra apocalittici e demotivati

Negli scantinati silenziosi e male illuminati in cui di norma si rifugiano gli oscuri figuri che prendono il nome di scrittori si sta combattendo una battaglia. Dura da anni, decenni forse, e ha fatto vittime illustri. Da un lato campeggiano i fautori di una scrittura autorale e ispirata; dall’altra serrano le fila i creatori di mondi, i tessitori di storie. Che siate schierati tra gli uni o gli altri è bene che vi rendiate conto che il campo di battaglia si estende fino alla vostra scrivania.

«Se la cultura è un fatto aristocratico, la gelosa coltivazione, assidua e solitaria, di una interiorità che si affina e si oppone alla volgarità della folla […], allora il solo pensiero di una cultura condivisa da tutti, prodotta in modo che si adatti a tutti, e elaborata sulla misura di tutti, è un mostruoso controsenso».[1]

Cultura di massa, è così che i nobili guardiani della vera poetica etichettano tutto ciò che non è allineato a un certo canone. E storcono il naso quando, passando davanti alla vetrina di una libreria, osservano esposta tanta carta da macero. Che la vera cultura sia un valore riservato a una certa categoria sociale lo pensano e lo dichiarano apertamente senza alcun imbarazzo. Dal loro punto di vista, se con cultura si intende la coltivazione di cognizioni intellettuali acquisite con lo studio e l’esperienza e poi rielaborate nell’intimità della propria riflessione «così da convertire le nozioni da semplice erudizione in elemento costitutivo [di una] personalità morale»[2], potrebbero perfino avere ragione.

Una cultura condivisa da tutti è un’idra ferale; che si nutre di ogni individualità, di ogni fatica spesa per acquisire disciplina e nozioni. L’arte di facile accesso, quella davanti alla quale chiunque senza alcuno sforzo può coglierne gli elementi costitutivi, in che misura può avere un valore? La mercificazione dei prodotti culturali è la mortificazione della creatività. Di più: è l’umiliazione di ogni tentativo inferenziale di indagine verso se stessi, il mondo o il proprio tempo. L’industria della cultura, quella che accumula capitali vendendo sotto-prodotti culturali di natura middlebrow a pigri “uomini qualunque” a loro volta sotto-prodotti della dignità umana più nobile, non può che essere la morte di ogni critica consolidata e con una diretta responsabilità nell’abbassamento culturale di cui la società occidentale, come ormai è evidente, è vittima da anni.

Voi stessi, in fondo, non storcete forse il naso di fronte all’ennesimo libro firmato dal VIP di turno, o davanti a una raccolta di racconti di un noto cantautore popolare o ancora all’uscita di un nuovo pseudo-romanzo di Fabio Volo (il quale non me ne voglia, lo uso solo come icona di “stile” così come l’industria culturale usa l’imitazione dei canoni più alti per fornire sotto-prototipi culturali alla massa di analfabeti che stiamo coltivando)? Non storcete forse anche voi il naso davanti al materiale di scarto dei prodotti “fai da te”, pieni di refusi, privi di stile e di originalità, che si accumulano sulle colonne virtuali di Amazon? E fra i middlebrow non rientrano forse proprio quei prodotti che facciamo ricadere sotto la nomenclatura di generi d’intrattenimento? quei romanzetti gialli che da bambino sfilavo dalle colonnine dell’edicola in cui erano tutti così ben allineati? o la tiratura rosa degli Harmony che per generazioni hanno afflitto i mariti di tutto il mondo, sostituiti oggi addirittura da un sotto-genere, quello pseudo-erotico, naturalmente di basso e dozzinale erotismo?

«La storia dell’arte è una storia di revival: le icone del potere culturale vengono infrante dall’avanguardia che a sua volta diventa il nuovo potere culturale che viene attaccato da una nuova avanguardia che utilizza le armi del nonno».[3]

Parlando di middlebrow non è certo di avanguardia che stiamo trattando; l’educazione al gusto e alla bellezza non può certamente essere un’operazione né rapida né però riservata a una singola classe. In tal caso il mondo si dividerebbe in pochi uomini “altissimi”, così lontani dal resto dell’umanità da sembrare alieni e di conseguenza isolati, e in una massa di scimmie glabre che non sanno distinguere le proprie feci da quelle di un Piero Manzoni. L’istruzione la si acquisisce e noi, oggi, possiamo certamente ritenerci più istruiti dei nostri nonni; immersi nella cultura invece si nasce, e se anche fosse possibile calarsi in età adulta all’interno di un contesto più nobile di quello di cui i natali ci hanno dotato, non è mai proprio la stessa cosa. Quindi? ci arrendiamo? Soggiacciamo supinamente alla tirannia di una facile e spietata realtà elitaria che non riusciamo in alcun modo a convertire in una demo-erudizione?

Il sogno di una città-stato sul modello della più antica Atene, in cui tutti erano educati ai valori della libertà, del pensiero e della cultura è forse ormai fuori dalla nostra portata. La quantità di nozioni e di esperienze che è necessario fagocitare per dirsi colti è oggi tale da richiedere l’impegno di tutta una vita spesa a leggere i libri giusti, a osservare le esposizioni d’avanguardia ma anche classiche, ad ascoltare le sinfonie più ricercate. Io, che sono nato di umili origini da genitori operai e semianalfabeti, so bene che per quanti libri leggerò, per quante mostre visiterò, per quante sinfonie ascolterò non riuscirò mai ad elevarmi tanto quanto ne avvertirei il bisogno. Torniamo alla domanda posta in precedenza: ci arrendiamo?

«Gli americani sono degli evasi, scappati da prigioni di cultura stagnante e da classi rigide, e desiderano ardentemente il cambiamento. Cambiano in continuazione alla ricerca di ciò che, se esiste, può funzionare. […] Il Vecchio Mondo, d’altro canto, nel corso di secoli di dure esperienze ha imparato a temere i cambiamenti e che le trasformazioni sociali portano inevitabilmente guerra, carestia e caos. Il risultato è un atteggiamento polarizzato nei confronti delle storie».[4]

Lungi da me nobilitare la cultura americana, che se ha una colpa è proprio quella di essere pop; ma forse esiste una giusta via di mezzo, per così dire, generazionale. Se oggi nascere di umili origini (culturalmente parlando) ci preclude l’accesso a una cultura veramente elitaria, la passione per il “bello”, obbligatoriamente in senso lato, e l’amore per i libri possono aiutarci a percorrere quella stessa strada certamente già percorsa in precedenza da altri ma non per questo preclusa ai posteri meno fortunati; e lungo quella via, fin dove riusciamo ad arrivare, trovare il nostro giusto posto in cui accamparci. Se con cultura si intende una serie di nozioni acquisite con lo studio e l’esperienza rielaborate da una riflessione intima tale da convertire le nozioni acquisite da semplice erudizione in una personalità morale, allora la cultura non ha confini. Non c’è un “alto” e un “basso”; c’è, semmai, un “prima” (di chi è giunto da tempo) e un “dopo” (di chi sta ancora viaggiando). La cultura è movimento, e lì dove ci troviamo, guardandoci attorno, forse potremmo addirittura riconosce nei volti che ci circondano altri individui che come noi percorrono la nostra stessa strada.

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Note

[1] Umberto Eco, Apocalittici e integrati, Bompiani 2016

[2] Vocabolario Treccani – cultura

[3] Robert McKee, Story, Omero 2010

[4] Cit. in Robert McKee

17 Comments on “Quella sottile linea beige”

  1. E pensare che se gli scrittori avessero ben chiara la quinta legge di Pennac e la rispettasero dormirebbero sogni più tranquilli 😉
    A volte ho l’impressione che alla cosidetta elite intelletuale sia sfuggito un certo Warhol o un certo Haring e siano alla vana ricerca di una coltura alta, non senza una certa puzza soto il naso, che forse non è mai davvero esistita.
    Del resto Omero raccontava le sue storie in piazza Shakespeare scriveva e recitava in teatri popolari, Boccaccio si rivolgeva espressamente a un pubblico femminile in un’epoca in cui alle donne era in qualche modo negata la cultura e si potrebbe continuare 😉

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    • Concordo su tutta la linea. Del resto oggi l’arte più interessante la si fa di notte sui muri con le bombolette spray (oddio, parte di quest’arte è già universalmente considerata “alta”, quindi probabilmente sono già un passo indietro).
      Il problema della cultura, se mai, è che senza la conoscenza del “prima” è difficile fare un sensato “dopo” ed è nel trasmettere delle basi di condivise di cultura comune alle nuove generazioni che si gioca la sfida dell’oggi. Poi ognuno le rielaborerà come crede.

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      • Volevo citare anche Bansky, però poi diventava troppo 😉 Del resto la street art va oltre il pop, anzi forse ne è quasi il contrario.
        Ho avuto modo tempo fa, partecipando ad una manifestazione, di conoscere e parlae con alcuni streeter (non so come si chiamino 😛 ), alla fine il fatto stesso di ritrovarsi di notte per dipingere di nascosto il muro scrostato di una fabbrica abbandonata lasciando un messaggio politico e sociale è già di per se arte, che va al di la dell’opera stessa, opera sulla quale si ferma l’osservatore abituale esprimendo un semplice parere di “bello” o “brutto”. Ma l’arte deve andare oltre il bello o brutto, no?

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      • Sono completamente d’accordo, soprattutto sulla necessità di conoscere il “prima” per poter realizzare “un dopo sensato”. Un caso esemplare è quello del verso libero, inventato tra la fine dell’Ottocento e le Avanguardie giustamente citate anche nell’articolo: in origine aveva fatto scalpore perché il pubblico non se l’aspettava, e la sua forza dirompente stava nella sua eccezionalità in un panorama di ormai ben codificate norme metriche. Oggi, invece, si è persa completamente o quasi la nozione di quelle norme, che a ben guardare erano la sola ragione per cui il verso libero potesse avere un senso: il risultato è che la maggior parte dei poeti contemporanei non saprebbe comporre un endecasillabo, e ancor più lettori non saprebbero riconoscerlo; il verso libero è il verso e basta. Non c’è coscienza dell’inflazione di un codice perché non c’è più il codice, ergo non c’è più infrazione. Per esser detto novello poeta, / avanguardista e da antologizzare, / dovrà per te divenire la meta / l’antico armamentario riesumare (Irri).

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    • Alcuni hanno bisogno di nobilitare ciò che fanno disprezzando quello che fanno gli altri. Li riconosci subito; e grazie a questo, puoi evitarli facilmente. Poi c’è il discorso sulla cultura alta, che di per sé non è né un male né sbagliato: in fondo se tu percorrendo una certa via sei arrivato prima degli altri ad alcune vette, voltandoti non puoi considerare chi segue da lontano alla tua stessa stregua. Però non è neanche un motivo per odiarli o dileggiarli, giacché si stanno sforzando coi loro mezzi di arrivare dove tu sei già stato. Sono compagni di viaggio. Dovremmo rispettarli. E invece che fa il guru di turno? Per vanagloria, vanteria, o semplice stupidità osserva la distanza che lo separa, se una distanza c’è, e ne trae godimento; come se il fatto che qualcuno sia più indietro di te ti faccia apparire meno stronzo.

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  2. Salvatore, qui la faccenda si fa impegnativa, meno male che è venerdì. 🙂

    Il dibattito sulla middlebrow va avanti da quasi un secolo, difficile risolverlo, e con il web la questione è letteralmente esplosa, negli ultimi anni. Secondo me la faccenda è inficiata da due errori tipicamente umani: il primo è voler sempre e a tutti i costi classificare e categorizzare tutto, dividere qualsiasi fenomeno in livelli, comparti e fazioni, il secondo, sua conseguenza, è pensare che fra questi livelli non vi sia comunicazione e scambio. Lo so che classificare e ordinare la realtà è necessario in una società complessa ed evoluta, ma sarebbe bene confinare questo metodo agli aspetti scientifici dell’esistenza. Quando si parla di “arti, intelletto e spirito” la cosa si fa, per dirla alla Bauman, più liquida e sfuggevole. Un’evidenza del primo errore è che un highbrow in campo musicale mi potrebbe parlare per ore del fraseggio nelle sinfonie di Beethoven ma probabilmente sarebbe un middlebrow (o peggio) parlando di pittura o antropologia, e questo per la natura stessa dell’approfondimento, che richiede verticalizzazione e perdita di ampiezza (Baricco ne “I barbari” docet). Un’evidenza del secondo errore è che per forza una middlebrow esiste perché può distillare i prodotti lowbrow e diluire gli highbrow, e a loro volta gli highbrow sono tali perché si appoggiano ai livelli sottostanti e li sfruttano (una supercultura d’elite slegata da tutto e autoreferenziale sarebbe per definizione inutile e sterile). Un highbrow che si rifiuta di sporcarsi le mani nel fango lowbrow è già culturalmente morto.

    In sintesi: la situazione è liquida e ricca di correnti ascensionali e discendenti, di gorghi e scambi, un fermento continuo, non si può incasellare ordinatamente in un foglio excel.

    Dunque: mai arrendersi, al limite avremo ricavato il massimo dalle nostre possibilità, in ogni caso avremo vissuto.

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  3. Quando identifichi la cultura come un percorso, dici l’unica cosa che dovrebbe essere considerata da chi si arroga il diritto di stabilire confini. Sarebbe bello definire il concetto di cultura laddove l’etimologia e il significato letterale, ad alcuni di noi forniscono, nella migliore delle ipotesi, parametri riduttivi.

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  4. Mi piace molto questo concetto della cultura come movimento, è perfetto, ci si muove verso il nuovo, il bello, la consapevolezza, la crescita, l’evoluzione.

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