Intervista col fantasma

berenice

Mettere a nudo una ghost-writer

C’è una cosa che ho sempre voluto fare da quando ho aperto questo blog, ed è intervistare un/una ghost-writer. I motivi sono tanti, e sono riassumibili nelle domande che leggerete di qui a breve. Il problema, tuttavia, era riuscire ad acchiapparne uno: per loro natura i fantasmi sono sfuggenti. E per quanto in giro ci siano ormai una valanga di persone che si promuovono come tali, almeno tanti quanto gli editor freelance, ero sicuro che per la mia intervista non avrei mai voluto rivolgermi a nessuno di loro. Il motivo è semplice: c’è qualcosa di sacro e misterioso nella scelta dell’anonimato; ancor di più in uno scrittore che decide di cedere la propria opera restando nell’ombra. Ed era svelare questo mistero la cosa che tanto mi premeva di questa intervista. Va da sé che se uno scrittore si promuove come ghost è perché nell’ombra non ci vuole stare.

Sono passati due anni e mezzo, senza riuscire a ottenere assolutamente nulla. Ma già l’anno scorso ero entrato in contatto con una ghost-writer. Alla fine la cosa evaporò nel nulla, ma mi diede la spinta per prendere un’altra direzione. Per l’intervista che leggerete a breve ho dovuto adoperare tutto il mio carisma, la mia retorica e ogni sorta di lusinghe. Per mesi ho dovuto lavorare alacremente. In genere la popolarità del blog mi apre molte porte, ma una ghost che vuole restare nell’ombra non è in cerca di pubblicità. Anzi, semmai la notorietà può rappresentare un problema. Quindi capirete quanto difficile sia stata questa impresa. Per lo stesso motivo non posso e non ho intenzione di rivelare il suo nome. Vi dico solo che nell’ambiente è molto conosciuta.

Per rispettarne l’anonimato la chiameremo Berenice, uno dei fantasmi più famosi della storia; la cui bellezza, si narra, avesse incantato persino, Tito, il figlio dell’imperatore Vespasiano. Berenice era la bellissima figlia del re di Cilicia. I due si conobbero durante la campagna di Tito contro l’insurrezione nella Giudea. Giunti a Roma, con l’intenzione di sposarsi, Berenice cominciò col comportarsi da regina. Di fatto lo era. Questo però i romani non potevano sopportarlo. La nostra Berenice, nell’editoria contemporanea, è la queen delle ghost-writer. Quindi è per me un onore presentarvela.

Cara Berenice, ti ringrazio per esserti prestata a questa nostra intervista e ti do il benvenuto nel mio blog. Spero sia un posto comodo in cui chiacchierare. Ti va di cominciare con le domande più scontate?

Grazie a te, Salvatore. Con un incipit come quello di Berenice, non mi aspetto di certo domande scontate. Benché non sia sicura di essere una regina, spero comunque di non finire come lei.

Eppure di domande scontate ce ne sono, la prima delle quali è: come ti è capitato di fare questo lavoro? Perché è un lavoro, giusto?

Sì, lo è. Ed è anche un bel lavoro. Come per tutte le cose, soprattutto nella narrativa e nell’editoria, gli esordi non sono mai scontati e spesso, anzi, nebulosi. A quando far risalire dunque il mio ingresso in questo settore? Il mio primo lavoro lo presentai ad una casa editrice, una delle maggiori, nella forma di un progetto. Non avevo ancora scritto una sola riga. L’idea piacque e mi proposero un contratto. La cosa fondamentale per me era non apparire. Non volevo che mi si attribuisse la maternità dell’opera. Per la casa editrice, come per tutte le imprese, era invece fondamentale vendere più copie possibili. Si trovò un VIP disposto a prestare il proprio nome. Questo mise d’accordo tutti.

È quello che hai sempre voluto fare: la ghost-writer?

L’unica cosa che ho sempre voluto fare è leggere libri. Da bambina non avevo un’idea precisa di cosa sarei stata da adulta. Credo valga per tutti, per me ancora di più. La mia era una famiglia borghese in cui i libri, la loro presenza in casa, era una cosa normale. Mio padre possiede una biblioteca di cinquemila testi, la maggior parte dei quali sono saggi. Non credo abbia mai letto un solo romanzo. Io invece leggevo solo quelli, ed era la sola cosa che avrei volto fare.

Come ti è venuta l’idea di scrivere? È stata una cosa spontanea?

Ai tempi dell’università facevo la pendolare tra Torino e Milano. Non esisteva ancora il Frecciarossa. Per arrivare a destinazione servivano quasi due ore di viaggio. Pensai di occupare il tempo in modo proficuo. Nei corridoi della facoltà di Lettere Classiche venni a sapere da un’amica che Mondadori stava cercando lettrici che fossero laureate o che stessero per laurearsi proprio nel mio indirizzo di studi. All’epoca i laureati in Lettere, a maggior ragione se donne, avevano davanti a sé due sole strade: l’insegnamento o l’editoria. Pochissimi finivano a Roma, per il master in giornalismo. Erano gli anni ottanta.

La mia amica era una loro lettrice, e chiacchierando mi parlò del bando. Per quanto poco, essere pagata per leggere mi sembrò una cosa magnifica. Al colloquio eravamo una valanga: quasi tutte donne. Lo scrutinatore era un tipo asciutto e affilato, con un tic nervoso all’occhio destro che lo faceva apparire buffo. Forse per questo motivo reagiva proponendosi con un atteggiamento algido. Di lui ricordo ancora con un certo divertimento i capelli neri con la riga di lato, che usavano solo più i secchioni, e gli occhiali con la montatura in osso di tartaruga che facevano tanto anni cinquanta. Poiché eravamo quasi tutte donne, e per di più giovanissime, il suo imbarazzo lo si poteva leggere con una certa evidenza.

Con quello che venivo pagata, più un piccolo sovvenzionamento da parte della famiglia, potei permettermi una soffitta in corso Buenos Aires: un piccolo appartamento graziosissimo non troppo distante dalla stazione. Non volevo trasferirmi a Milano ma agognavo l’indipendenza. E poi i viaggi in treno erano sfiancanti, soprattutto nell’afa estiva. Leggere manoscritti è stata un’ottima scuola…

È così che hai imparato a scrivere, che ti è venuta l’idea di farlo come professione?

No, è capitato per caso. Non volevo diventare una scrittrice. Io amavo leggere. Restavo imbambolata per ore davanti a una bella trovata o una scrittura elegante. Ciò che volevo, era evadere dalla mia vita. Vivere vite che non avrei mai avuto il coraggio di affrontare nella realtà. Sono sempre stata molto attratta dalla narrativa d’evasione.

Scrivere, lo sapevo già fare. La mia è una famiglia molto istruita, e scrivere non è altro che mettere una parola davanti a un’altra in modo ordinato e in senso compiuto. Non serve molto di più. Narrare una storia, invece, è un altro paio di maniche. Ma la cosa non mi preoccupava; semplicemente non mi interessava farlo.

Gli anni ottanta erano anni d’oro. C’era una grande spinta a fare e molto ottimismo. Tutto sembrava possibile. Dopo la laurea mi feci notare in casa editrice e finii per avere un ruolo più attivo. Mi vennero affidati molti compiti, compresi quelli concernenti la vendita e l’affiliazione delle librerie. Ero ligia, avevo un bel sorriso e ottenevo risultati. Che altro si poteva chiedere?

Col sopraggiungere degli anni novanta le contraddizioni del decennio precedente vennero a galla. Furono anni di crisi, di incertezza, di paura. Le case editrici, anche quelle grosse, non assumevano più. Tutto sembrava difficile e senza scopo. Gli stipendi faticavano ad essere accreditati in banca… i famosi ritardi. Per mantenermi senza tornare alle dipendenze della famiglia avevo due solo scelte: fare l’editor freelance o la ghost-writer. Lo stesso scrutinatore che mi aveva assunta come lettrice, con cui ero rimasta in buoni rapporti, mi chiamò per fare due chiacchiere. Non lavorava più per Mondadori; era editor adesso. Mi parlò di un progetto: la sua casa editrice voleva pubblicare una certa cosa in un certo campo. Imbastii una bozza e la proposi.

Fu il tuo primo progetto? quello a cui accennavi prima?

Esatto. Come vedi è tutto frutto del caso.

… e del talento.

Se il talento è l’arte di arrangiarsi facendo qualcosa di buono, allora sì.

Di che progetto si trattava? A scanso di equivoci non voglio sapere il titolo, solo la forma.

Era un libro di ricette. Cominciavano ad andare di moda e da allora hanno sempre venduto bene.

Quindi il “progetto” non riguardava il campo della narrativa…

Scrivere ricette è un po’ come scrivere una storia. I ricettari non sono solo un elenco di ingredienti. C’è una storia dietro ogni piatto: quella del cibo e di chi lo cucina. Questo è fondamentale per creare empatia con la massaia. Oggi vanno di moda i libri sulle diete ad esempio, che sono il risvolto della medaglia. Se ne sfogli uno ti renderai immediatamente conto che non è mai un elenco di consigli o di ingredienti. C’è quasi sempre una storia dietro; la storia del successo, nel campo del dimagrire, dell’uomo o della donna che hanno “scritto” il libro. In genere gli chef e i dietologi non sono scrittori, non sanno raccontare storie. Allora serve un ghost.

Va bene, d’accordo, ma questo cosa ha a che fare con le buone trovate e le scritture eleganti?

Nulla, ma fare la ghost non significa scrivere narrativa. Si scrive di tutto. L’arte di arrangiarsi appunto. E facendolo si imparano un sacco di cose in campi che nemmeno si immaginava esistessero.

Ti sono capitati altri progetti da allora?

Il libro vendette bene. La casa editrice fu soddisfatta e mi arrivarono altre richieste. I progetti ogni tanto li proponevano loro, ogni tanto io.

E si guadagna bene?

Se come riferimento ci poniamo il mercato USA e la sua industria, in Italia non si guadagna bene in nessun settore…

D’accordo, ma almeno riesci a camparci?

Nei periodi in cui si lavora, sì. Quello che si guadagna lo si usa per vivere anche nei mesi in cui non si lavora. Non è troppo diverso dal mestiere del traduttore.

Se posso chiederlo, come vieni pagata? Hai delle percentuali sul venduto?

No, niente percentuali. In genere il progetto è una scommessa della casa editrice verso il mercato. Si fanno delle riunioni, si valutano i pro e i contro e poi si propone una cifra. Se la proposta mi convince, allora si firma un contratto e si comincia a lavorare. Altrimenti passano il progetto a qualcun altro.

E nel contratto, immagino, cedi tutti i diritti.

Di fatto non vengo pagata con i diritti d’autore, ma come prestazione di servizio: una professionista che presta le proprie capacità e conoscenze per la realizzazione di un progetto.

E la cosa non ti disturba?

Dovrebbe?

Ti è capitato di lavorare a progetti che riguardassero direttamente la narrativa?

Mi è capitato di lavorare a libri d’intrattenimento, quindi sì.

E quando li scrivevi, questi libri, non li sentivi tuoi? Capisco che un ricettario, pur infarcito di storie, possa non mettere in gioco i sentimenti dello scrittore, ma la narrativa…

Certo che li sento miei. Rinuncio ai diritti, ma quei libri li sento più miei che mai.

E com’è possibile cedere qualcosa di tuo così?

Così, come?

… senza che ti vengano riconosciuti. Attribuendone il merito, pur fittizio, a qualcun altro. Nessuno saprà mai che quei libri sono tuoi, che li hai scritti tu.

È questa la cosa buona.

Buona in che modo?

Quando nessuno sa che sei tu l’autrice non devi confrontarti con nessuno. Nessuno ti giudicherà per quella storia. Puoi essere libera di esprimerti pienamente.

È questa la giustificazione che ti dai?

Faccio molte cose, caro Salvatore, fra queste però non c’è l’esigenza di giustificarmi.

Intendo: per tuo padre.

Mio padre?

Lui non legge narrativa, l’hai detto tu. Hai paura che ti giudichi? È per questo che non metti il tuo nome sulla copertina?

Se fosse solo per questo basterebbe mettere in copertina uno pseudonimo, non trovi? Comunque quest’intervista mi ha stufata. Che fosse una cattiva idea lo sospettavo…

… è una cattiva idea affrontare i propri demoni?

Ti spiace non renderla pubblica?

A un patto…

Quale?

Ci dici il tuo nome?

Ti sei ammattito?

Sei arrivato fin qui, fai un passo avanti…

Devo proprio?

Credo di sì.

Salvatore.

30 Comments on “Intervista col fantasma”

  1. Io trovo molto affascinante l’anonimato del ghost-writer. Forse per questo è quello che vorrei fare da grande. Ti toglie tutte le scocciature della notorietà lasciandoti la soddisfazione di sapere che il successo è merito tuo. Impagabile.

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      • L’anonimato alla Ferrante però da adito a un mucchio di congetture e di tentativi di inserirsi comunque nella vita privata. Il ghost da quel punto di vista è maggiormente tutelato perché c’è una persona in carne e ossa su cui la curiosità di pubblico e mass-media può scatenarsi.

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        • Lo pseudonimo non è male se hai bisogno di una tua privacy, però sai che potresti tornare a scrivere in qualunque momento col tuo nome. Dipende cosa vuoi fare e se ne valga la pena metterci la faccia. Per disparati motivi, soprattutto per lavoro, non è detto che puoi palesarti.
          Il ghost-writer ha ancora più da sopportare. Ci sono i pro, niente rotture con nessuno, di contro il suo non poter comparire e firmarsi può tendere alla frustrazione.
          Se l’autore per cui tu scrivi diventa famoso, il suo libro va bene, TU GOSTHWRITER non puoi vendicare nulla, rimarrai nell’ombra, non ti becchi i soldi delle vendite ( presumo), ecc.
          Qualsiasi scelta facciamo comporta responsabilità e sacrificio.
          Col tuo nome ti esponi, con uno pseudonimo osi di più, ma nessuno sa che sei tu, un ghost-writer tutto questo più non ha proprio un nome, vero o inventato.
          Non è facile per nessuno. È una scelta da fare con ponderatezza.

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          • Diciamo che il ghost non rischia niente. Prende quanto prestabilito, poco o tanto che sia, indipendentemente dal successo del suo lavoro. Lo scommettitore, chiamiamolo così, è chi presta il nome e si becca i diritti ma anche la casa editrice. Per come sono fatta io, non vorrei mai mettere il nome su una cosa che non ho fatto, buona o cattiva che sia. Per altro credo che starei malissimo se il mio lavoro fosse un flop, sebbene non lo sappia nessuno, mentre non credo che mi mangerei le mani se l’eventuale successo non mi venisse riconosciuto.

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        • Il quesito andrebbe posto nei seguenti termini: se usi uno pseudonimo sei ancora il proprietario dello scritto; se fai il ghost no. Questo dovrebbe farci pensare che l’anonimato che ricerca un ghost abbia un’origine più profonda, tanto da fargli cedere persino ogni sua legittima pretesa sullo scritto. Chi fa il ghost, chi lo fa davvero dovrei dire, non ricerca solo l’anonimato: ma una sorta di liberazione.

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          • Sì, per certi versi credo che possa essere considerata una sorta di liberazione. Però, almeno per quanto riguarda me, non credo che sarebbe deresponsabilizzante: probabilmente mi farei ancora più scrupoli che se scrivessi con il mio nome. Mi terrorizzerebbe pensare di far fare una figuraccia a un altro. Dovrei essere certa di aver scritto davvero qualcosa di valore.
            Ps. non te l’ho ancora detto, anche se l’ho pensato subito: ottimo post, davvero una trovata geniale delle tue! 🙂

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    • So cos’è ma non l’ho visto. Mi pare che la critica ne avesse anche parlato male, come un’occasione perduta di mettere in luce il ruolo del ghost. Come al solito gli americani preferiscono pascolare in superficie.

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      • A me era abbastanza piaciuto, anche se più che parlare di ghost writer è una critica politica. Comunque un paio d’ore le puoi sprecare 😛

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  2. Sulle prime ho avuto un mezzo mancamento. Prima Marco intervista un’editor e poi tu una ghost writer. Ma che vi prende a tutti? Le mie stesse idee? Per fortuna le due persone a cui ho spedito la mia intervista non sono ancora state citate, ma qui il terreno si stringe pericolosamente! Si vede che la curiosità sta dilagando.
    Però questa tua intervista è davvero interessante, come il mestiere citato che mi affascina da molto tempo. Ci vogliono doti molto specifiche per portarlo avanti e non so se lo si può fare per tutta la vita, o è solo un mestiere di passaggio, ma d’altronde in questo mondo del lavoro fatto di lavori a tempo determinato è del tutto normale.
    Comunque bella intervista davvero😉.😉

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    • La mia idea era di simulare un’intervista fino alla sua rottura con svelamento per far emergere dalle domande e dalle risposte quei quesiti che più di tutti incuriosiscono riguardo alla figura del ghost; uno fra tutti: perché vendere il proprio scritto a qualcuno che metterà sopra il suo nome, anziché tentare la strada della pubblicazione come ogni autore “onesto” fa?

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      • Il tuo svelamento alla fine ha chiarito, ma comunque era del tutto plausibile l’intervista e l’intervistata.Anche io sono molto curiosa di questo aspetto e credo ogni storia sia del tutto a sè. Sinceramente non trovo nulla di più bello e corretto che firmare ciò che si scrive

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  3. Intervista con sorpresa finale caro Salvo! Comunque la figura del gnost writer forse riguarda soprattutto il caso di biografie di persone famose, il libro si vende perché è legato al personaggio ma il ghost scrive in forma più corretta rispetto al personaggio e quindi si tratta di una era e propria prestazione professionale. Questo è il mio pensiero ma non ho mai conosciuto un ghost writer vero, quindi le mie sono congetture 😉

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  4. Ciao Salvatore.
    Mi sono sempre chiesta come vedessero il mondo della scrittura queste figure fantasma.
    Un’intervista interessante, credo però, che celarsi dietro una figura o uno pseudonimo, sia un modo per nascondere se stessi.
    Si sa che la scrittura mette a nudo l’anima di una persona, che c’è ben poco da fare in merito. è un processo naturale e spontaneo.
    Poi ovvio, ci possono essere molte ragioni per preferire l’anonimato.
    Sharon.

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