L’esitazione corre sul filo dei tre punti…

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La fortuna di uno dei segni interpuntivi più rappresentativi della nostra epoca

Senza lasciarci sfuggire l’opportunità di citare il caro, vecchio e ormai defunto Zygmunt Bauman a proposito della società dell’incertezza – la nostra – ovvero: «La generazione meglio equipaggiata tecnologicamente di tutta la storia umana è anche la generazione afflitta come nessun’altra da sensazioni di insicurezza e di impotenza», non possiamo evitare di segnalare quanto la funzione allusiva dei tre puntini di sospensione sia perfettamente rappresentativa dell’epoca storica che stiamo attraversando.

Ne usiamo in quantità industriali, indifferentemente dal tipo di mezzo: sms, chat, mail, post, annunci… romanzi perfino. E non parlo di quelli auto-prodotti, i quali sembra si stiano in proposito auto-disciplinando; parlo di romanzi particolarmente quotati, scritti da romanzieri (passatemi il termine) coi fiocchi. Thomas Pynchon, tanto per dirne uno, l’icona del postmoderno chiude quasi ogni periodo con i tre puntini. Se non ci credete andate a leggervi L’arcobaleno della gravità – io l’ho fatto. Ma senza espatriare, giusto per restare cautamente all’interno dei nostri confini, come potremmo non citare Carlo Emilio Gadda: grande anticipatore di tempi. Tra le altre cose, anticipò perfino David Foster Wallace nel non concludere le storie nei propri romanzi. E come loro, tanti altri.

Ora, come scrivono i romanzieri ci interessa decisamente meno rispetto a come scrive l’uomo comune. L’uomo comune – il ragazzo su FaceBook, la casalinga su WhatsApp, il manager nelle mail – tende a inserire i tre punti ogni volta che vuole indicare al proprio interlocutore un’intenzione sottesa e quindi… inespressa. Questa, in effetti, è una delle molte potenzialità di questo segno interpuntivo. La frequenza con cui ne facciamo ricorso però, sta proprio a indicare quanto incerti e titubanti siamo diventati. Anziché parlare chiaro, preferiamo far scivolare il messaggio attraverso il non-detto. In questo, i tre puntini ci aiutano parecchio. Non siamo nemmeno più capaci a far passare sottilmente un messaggio, che non vogliamo dichiarare esplicitamente, attraverso la costruzione sintattica; per farlo dobbiamo rendere esplicito l’implicito attraverso la marcatura dei tre puntini…

«Figura del silenzio, la reticenza si esprime o a parole, dichiarando l’interruzione del parlare, oppure con l’atto stesso del tacere, di cui sono traccia sulla pagina i tre puntini».[1]

Attenzione, io non sono contrario al loro utilizzo: ogni segno interpuntivo è utile; piuttosto mi pongo interrogativi circa il nostro stato mentale: possibile che non riusciamo più a guardare in faccia la realtà? che non riusciamo proprio più a confrontarci con essa? Parallelamente ai tre punti, dello stesso identico raccolto sono le “virgolette” adoperate per segnalare la nostra estraneità verso una determinata parola o idea o modo di pensare/agire: «Sai, l’altro giorno ti ho “vista” con Umberto… Non è il marito della Clara?» Ma torniamo all’argomento specifico, ovvero come e quando adoperare i tre puntini di sospensione.

«Si usano […] per indicare sospensione, reticenza, allusività».[2]

La prima cosa da notare è che i tre puntini di sospensione sono, appunto, tre: non due, non quattro, cinque, dieci: tre. Si attaccano alla parola precedente e si staccano da quella successiva. Possono essere inseriti alla fine di una frase, indicando così l’interruzione di un discorso…

«Sai, l’altro giorno ti ho “vista” con Umberto…»

«Me?»

«… non è il marito della Clara?»

… o all’inizio, indicando la ripresa di un discorso interrotto in precedenza. Gadda ne usava sempre quattro, «segnali di un prolungamento allusivo del discorso nella sfera del non-detto». Voi, io, e chiunque altro ne useremo sempre e solo tre. Occhio che me ne accorgo se sbagliate numero.

«E a chi rivolgersi, nel tempo mutato, quando tanto odio, dopo gli anni, le era oggi rivolto? Se le creature stesse, negli anni, erano state un dolore vano, fiore dei cimiteri: perdute!…. nella vanità della terra….»[3]

La funzione di esitazione è tipica del parlato, quindi i tre punti li troveremo soprattutto nei dialoghi (come faceva ad esempio il Manzoni) o in una narrazione che vuole simulare il dire colloquiale.

«Veramente… se vossignoria illustrissima sapesse… che intimidazioni… che comandi terribili ho avuto di non parlare…».[4]

Un’altra funzione dei puntini di sospensione è quella di preparare un moto di spirito: «Se non è di bufala… è una bufala!» [Garavelli]. Essi servono anche a indicare, in un elenco, che questo può continuare ancora a lungo, e quindi si evita il prolungarsi.

Infine servono a indicare al lettore l’omissione, in una citazione, di una parte del discorso riportato. In questo caso è d’uso comune circoscriverle all’interno di due parentesi quadre, in questo modo: […]. Qualcuno, ad esempio Noam Chomsky, evita le parentesi quadre e inserisce solo i tre puntini, staccati sia dalla parola che li precede sia da quella che li segue. In questo caso però, si corre il rischio di confondere il lettore circa il loro utilizzo: si sta indicando una sospensione del discorso, o la sua omissione?

Questo è quanto c’è da sapere sui tre puntini di sospensione. Adoperateli senza problemi, ma nel modo corretto e nella frequenza opportuna.

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Note

[1] Bice Mortara Garavelli, Prontuario di punteggiatura, Laterza 2011

[2] Luca Serianni, Grammatica italiana, UTET 2006

[3] Carlo Emilio Gadda, La cognizione del dolore, Einaudi 1987

[4] Alessandro Manzoni, I promessi sposi

60 Comments on “L’esitazione corre sul filo dei tre punti…”

  1. Insicurezza…? dici…? ma… non saprei… forse…
    :PComunque, mi dispiace dirtelo, ma arrivi in ritardo. Questo articolo andava bene qualche anno fa, oggi siamo nell’epoca della certezza, anche se spesso è quella sbagliata, ma non conta. Siamo certi della correttezza delle nostre affermazioni. Hai mai provato a leggere i commenti agli articoli su facebook?
    Io non riesco ad andare oltre i primi tre… poi… mi viene un senso… come dire… di nausea… e torno alla mia confortevole insicurezza…

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  2. E’ tutto credibile e molto affascinante, questo discorso dell’incertezza che passa per la punteggiatura. Però mi si pone un dubbio: siamo sicuri che chi usa in modo compulsivo i puntini di sospensione sappia davvero distinguere tra un segno e l’altro, e non lo faccia piuttosto in modo casuale, come capita?

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  3. Finalmente ho capito perchè adoro i tre puntini! Il caffè! Quelle tre tazzine di caffè lì sopra!! Che in effetti io tendo ai tre caffè al giorno, ma sto passando con disgusto al decaffeinato, e pure senza ferro.
    Comunque: ammetto di avere i tre puntini facili, mi scappano ovunque, gli appunti sono intasati di tre puntini qua e là, soprattutto nei dialoghi mi scappano. Come fai a indicare la titubanza di una persona, che non smette propriamente di tacere, ma infila troppa pausa tra le parole, quando non sa come esprimersi o ha paura di esprimersi e tergiversa?

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      • Dalle stesse paure che hanno le persone reali in determinati momenti. Direi che basta osservare. Indecisione (vagliano cosa dire, ma sono lenti), poca confidenza con l’altro interlocutore, difficoltà a esprimersi temendo di essere fraintesi. C’è anche quello che parte di scatto e di ferma sui tre puntini, ma è già troppo tardi.

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        • Le paure le abbiamo tutti. Da qui è molto semplice relazionarsi se vuoi, ma allo stesso tempo essere fraintesi. Apparire in un modo e in realtà forse sei quasi l’opposto. Alzi la mano chi è timido. Credo che ne scopriremo molti di più di ciò che pensiamo. Si parte di scatto quando sono parole più semplici, una chiacchierata tra amici. Quando devi dire cose più profonde o di te stessa, rinunci o molto spesso non invii quel commento. O in altri casi. Se posso essere sincera, ho notato quando ci scappa lo sfogo involontario e lì siamo più fragili e più veri. Lo schermo aiuta molto ad essere meno impacciati. Almeno per me.

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          • Tiziana, io sto parlando di racconti e personaggi, non di me, di noi, dei commenti. Mi stavo riferendo alle parti di dialogo della scrittura, perchè è lì che mi scappano i tre puntini di solito.

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            • Salvatore ti ha chiesto da dove derivava questa paura nell’esprimere i tuoi personaggi. Tu hai risposto dalle persone reali e che basta osservare.
              Ecco, forse non dovevo commentare.
              Era meglio tenerselo per sé, anche se in realtà era un commento positivo su come siamo. Ma fraintendersi è un attimo, come vedi

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              • Salvatore non mi ha chiesto da deriva questa paura NELL’esprimere i miei personaggi (come se la paura fosse mia); ha chiesto della “paura di esprimerSI dei TUOI personaggi” (cioè la paura è loro, nel dialogo che mi cingo a scrivere). Per il resto è come dici tu: allo schermo è una cosa (manca il tono di voce, il linguaggio non verbale, lo sguardo, l’atteggiamento), mentre di persona è un’altra cosa. Infatti i tre puntini mi scappano nei dialoghi dove i personaggi sono lì fisicamente, non al telefono. Cerco di evidenziare il linguaggio non verbale della scena, ma non sempre mi sembra adeguato.

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        • Be’ lo faceva anche il Manzoni: sei in buona compagnia. Anche se… io sono convinto che un buon dialogo non debba simulare la realtà. Ma il discorso è lungo e poco producente.

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  4. Sui puntini si pronunciò anche il prof. Eco, che, su un numero de “L’Espresso” del 1991, pubblicava una Bustina di Minerva su “Come mettere i puntini di sospensione”. Denunciava in quell’àmbito un loro uso scorretto:
    《Gli scrittori usano i puntini di sospensione solo alla fine della frase per indicare che il discorso potrebbe continuare […], e nel mezzo della frase o tra frasi quando si vuole segnalare la frammentarietà del testo […]. I non-scrittori usano i puntini per farsi perdonare una figura retorica che giudicano troppo azzardata: “Era infuriato come… un toro”.》
    Seguivano esempi di quel che sarebbe successo ai classici della letteratura se i loro autori fossero stati timidi, tipo: “Nel mezzo… del cammin di nostra vita”, “Essere o… non essere, questo è il problema”, ecc.

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      • Due? Allora me ne sono perso uno; il passo che ho riportato, però, viene dal “Secondo diario minimo”, che ne conteneva un certo numero. Non so se quell’articolo sia stato poi ripubblicato: nel volume delle Bustine che ho io non c’è, ma non escludo che possano averlo ripreso in “Come viaggiare con un salmone” (postumo), che ripeteva un certo numero di articoli che avevo già letto; più di quelli che non conoscevo, in ogni caso, per cui sto aspettando di trovarlo in qualche biblioteca gratis…

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        • Non posso dire di ricordare tutti gli articoli scritti da Umberto. Se avessi avuto coscienza di questo che citi, magari ne avrei riportato qualche passo. Io so che le bustine di minerva sono state pubblicate in più volumi: il diario minimo, La bustina di Minerva e altri.

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