‘na serata tra amici

tavoloverde

“Sono un vero sognatore
musicista un po' pittore
strimpellando sopra i tasti
molto spesso salto i pasti.”

– Leo Chiosso

«U canùsci a Giacomo Valente?» Alfredo Carfì si versò una doppia dose di Bourbon liscio dal mobiletto poco fornito degli alcolici. La domanda, posta in apparenza alla bottiglie disposte in ordine sul ripiano e ai bicchieri di cristallo capovolti a testa in giù davanti a queste, era rivolta a uno solo dei tre amici che attendevano seduti al tavolo.

«U furnaio supra ‘u stratuni pi Paternò?» chiese Mario Venuti. L’amico era lui. Era appena tornato dal bagno; il gioco si era interrotto proprio per dargli il tempo di fare i suoi comodi. Nelle mani rovinate dai troppi anni di lavoro in cantiere stringeva tre sette.

«Iddu».

«’ntzù» fece Mario, schioccando la lingua sul palato e alzando il mento in aria.

Alfredo si voltò a guardarlo. Il bicchiere fermo a un passo dalle labbra. «Ma come ’ntzù? Prima dici U furnaio supra ‘u stratuni, e poi fai ’ntzù

«Nun àiu avùtu ‘u piaciri» si giustificò lui, senza dare troppa importanza alla cosa.

Alfredo fece cadere il discorso e tornò al tavolo. Appoggiò il bicchiere sul tappeto verde e si accomodò sulla sedia impagliata. Il panciotto gli tirava un poco i bottoni in prossimità del ventre. Mario sedeva alla sua sinistra, a cui lanciò un’ultima occhiata carica di riprovazione. Prese quindi le carte che gli erano state distribuite – una scala monca di quadri al re – e alzò lo sguardo sui presenti. «A cu tocca?»

«A mìa». La voce catarrosa era di compare Buscedda, che sedeva alla sua destra. Teneva le carte ben lontane dal volto, e le scrutava con la testa leggermente reclinata all’indietro. Gli occhi acquosi quasi gli lacrimavano per lo sforzo. Non era solo per la presbiopia: erano ore che andavano avanti a giocare una mano di poker dietro l’altra; quasi tutta la notte.

«Fuorza allora: joca».

«’n mumentu, stàiu ragiunannu».

«Ma che devi ragiunari?» s’intromise Leo Scimeca, facendo sventolare davanti al volto una mano chiusa a cuneo. Dei quattro, Leo era quello più nervoso. Le giornate passate in Comune lo avevano reso secco e affilato. La zazzera copiosa gli ricadeva disordinatamente attorno alle tempie tanto da farlo assomigliare, vista la notevole altezza, a uno spaventapasseri. «Stàmu facennu jornu».

Di riflesso Alfredo volse lo sguardo alla finestra dietro le spalle di Mario: attraverso le stecche delle persiane chiuse cominciava a filtrare la luce del mattino. Era stata una notte lunga, quella che stava per terminare. Mite, certo, visto che l’estate era ormai alle porte; ma piena di una tensione che faceva subito scattare gli sguardi e alzare la voce.

«’n mumentu, nu mumentu!» prese a ripetere Buscedda, che andava sempre in ansia quando gli si faceva fretta.

«Bonu, va’!» Leo sbatté le carte coperte sulla tavola.

«Lassalu iri,» disse Alfredo, tornando a guardare il compagno spilungone che gli sedeva di fronte, «compare Buscedda a furia di ragiunari a casa sta pirddennu…» I due si scambiarono un sorriso sardonico. C’era sempre stata intesa fra loro.

«Nenti staiu pirddennu», ribatté Buscedda, senza scomporsi. «Co Comuni avemu appianato». Strizzò un occhio a Leo.

«Quindi apposto jè?» chiese Mario, sorpreso. «A casa ad Aci Trezza si salvau?»

«Si salvau», confermò Leo, con l’aria di chi non aveva mai avuto dubbi.

«Minchia, in gita ci potemu iri».

«Adesso no, non si può», disse Buscedda, alzando religiosamente il mento al soffitto.

«E picchì?»

«Occupata jè».

«Già t’affittasti?»

«’ntzù!»

Mario si voltò a guardare Alfredo. Questo si strinse nelle spalle. «La prestò per qualche juorno».

«Carusi,» protestò Buscedda, guardando alternativamente i due compari ai lati, «che dobbiamo fare?!» Buscedda non era un uomo di pazienza. A lui le cose piaceva risolverle subito.

Leo e Alfredo si scambiarono un’occhiata allarmata. Quindi Leo si protese leggermente in avanti, verso Buscedda, per ridurre la distanza fra loro. «Jucari», scandì, guardando il compare più anziano dritto negli occhi.

«E a chi la pristasti?» continuò Mario, che non si era accorto di nulla.

Fingendo di non averlo udito, Buscedda si spinse in avanti premendo il grosso ventre contro il bordo del tavolo. Piazzò una banconota da duecento euro sul piatto. «Per chi vole vidiri…»

In genere le puntate erano basse, nell’ordine delle decine di euro. Ma per tradizione nell’ultima mano della serata si tendeva ad alzare la posta.

«T’addicidisti?!» Leo riprese in mano le proprie carte.

Lo stesso fece Alfredo. «Vedo», disse.

«Vedo», gli fecero eco gli altri, secondo il proprio turno. Tutti allungarono le puntate sul piatto.

«Quindi?» Mario si volse verso Alfredo, in attesa.

Questo ricambiò lo sguardo. «Chi voi?»

«Prima chiedi se conosco a Giacomo Valente, e poi ti fermi?»

«Se non lo conosci, che te lo dico a fare?»

«Lavoro bono havi» lanciò lì, distrattamente, Leo.

«’na carta», disse Buscedda, interrompendoli. Quella da scartare la lanciò al centro del tavolo. Leo prese il mazzo e ne fece scorrere una nella sua direzione.

«Ma come, ’na carta?!» ripeté Mario. «È finora che devi ragiunari, e mo scarti ‘na carta?»

«U trucco c’è» disse Alfredo, filosoficamente, adagiandosi contro lo schienale.

«Ma quale trucco?!» replicò Leo. «Compare Buscedda servito jè».

«U trucco» ripeté Alfredo, concordando. I due si scambiarono un’occhiata d’intesa.

«Carusi,» disse Buscedda per la seconda volta, «che dobbiamo fare?»

Leo gli si fece di nuovo vicino. «A finisti con ‘sti carusi? Vidi che di carusi a ‘sta tavula nun ci nné».

«Rispetto a mia,» replicò Buscedda, «tutti carusi siete».

«Mi volete dire che aviti stasira?» chiese Mario, occhieggiando i compagni. Da quando era tornato dal bagno gli amici avevano cominciato a comportarsi in maniera strana.

«’na carta» disse Alfredo.

Mario si voltò verso di lui. «Macari tu?!»

Leo la fece scorrere sulla tavola.

«Servito sugnu», rispose Alfredo, ridendosela.

«E tu?» chiese Leo, rivolgendosi a Mario, «che vvu fari?»

Mario si spinse contro la spalliera. Il silenzio calò nella stanza. I compagni lo osservarono ammutoliti, in attesa della sentenza. In mano aveva tre sette. Un tris era un buon punteggio. Se si fosse accontentato senza scartare alcuna carta, i compari avrebbero pensato che aveva il punto e si sarebbero ritirati; se ne scartava due, avrebbero capito che aveva un tris e non poteva bluffare. Decise di scartarne una, così poteva simulare una scala monca e nel frattempo poteva entrargli un full o un poker.

«’na carta», disse infine.

Leo la fece scivolare sul tavolo, poi se ne servì tre.

«Cu apre?» chiese Alfredo. Come previsto gli era entrato l’asso di picche. La scala c’era, ma non concordava in colore. Non doveva concordare in colore.

«La curiosità mi facisti veniri» disse Mario.

«Se vvu sapiri quanto jò, punta».

«Nun parravo delle carte».

«Chisto,» s’intromise Leo, «pensa ancora a Valente. Non la sa la novità».

«Tu la sai?» chiese Mario, stupito.

«Certo, cca sò».

«E qual è, sentemu?»

«’ntzù», fece Leo, alzando il mento, «guadagnare te la devi».

«Facemu accussì,» s’intromise Alfredo, «se vinci sta manu, ta dicemu nuautri».

Mario spostò lo sguardo dall’uno all’altro, poi scrutò con maggiore attenzione le proprie carte.

«Cip», disse Buscedda, che era di mano.

«Cip», gli fece eco Alfredo, che veniva subito dopo di lui. Tutti si voltarono verso Mario. Questo si rintanò dietro le carte.

«Che fai? t’addicidi?» Leo batteva impaziente le dita sul tappeto verde, questo attutiva il rumore ma non dissimulava l’insofferenza.

«Staju raggiunandu!» replicò Mario.

«Bonu, va!» Leo sbatté di nuovo le carte coperte sulla tavola. «Stasira i bradipi avimu».

«E come sta tò figlia?» chiese Alfredo con noncuranza, mentre si fingeva assorto dalla propria mano. «’u pigliau ‘u dipluma?»

«Voti buoni porta,» confermò Mario, mentre ragionava sul da farsi. «Ancora nu misi e diplomata jè».

«E poi?»

«E poi… nu sacciu. Cercherà lavoro».

«Disoccupata finisci» s’intromise Leo. «Con la crisi che c’è, chisto pò fari».

«Come vuole ‘u Signuruzzu», rispose Mario.

Compare Buscedda estrasse un sigaro dal taschino e se lo portò alla bocca, tra i denti ingialliti dall’età. Con un unico movimento ne tranciò di netto la punta.

«Che vvu fari…?» gli chiese Leo, corrucciato.

«… nun haju ancora addecisu», rispose Mario, assorto.

«Non dicevo a tia. Che vvu fari?» ripeté rivolto a Buscedda.

«Nun si vide?» Buscedda si tastò una tasca in cerca dell’accendino.

Leo si protese in avanti e gli strappò il sigaro di bocca. «A sta casa non si fuma».

«Cavà!» esclamò Buscedda, irritato. «Serio sei?»

«Serio sugnu». Leo piazzò il sigaro al centro del piatto, assieme alle puntate. «Ma se vinci sta manu, te lo puoi fumare».

Buscedda gli lanciò un’occhiataccia. Alfredo rise, alzando le carte per coprire le labbra.

«Du’ liri» disse infine Mario.

«Fuori corso sono» protestò Leo.

«Lo sai che intendevo: duecento euri».

Leo riprese in mano le carte e le aprì a ventaglio. «Cincucento», rilanciò. Spinse la puntata nel piatto. Alzò lo sguardo su Alfredo, che ricambiò con un cenno del capo.

Buscedda li guardò storto e sbuffò, poi si strinse nelle spalle e disse: «Vedo».

«Vedo», gli fece eco Alfredo.

Tutti si voltarono verso Mario.

La puntata era alta, ma le carte che aveva in mano lo costringevano a tentare. «Vedo, vedo…»

«Il piatto chianci» disse Buscedda, allungando la propria banconota. Lo stesso fecero Alfredo e Mario.

«Cu parra?» chiese Alfredo.

«Cu è di mano» gli rispose Leo.

«A mia tocca». Buscedda calò tre dieci.

«Dannatu!» Leo gettò le carte sulla tavola, questa volta scoperte. Non sembrava dispiaciuto.

«Buono jè» disse Alfredo, «ma non bastano». Calò la scala.

Buscedda allungò una mano verso il sigaro. Leo gliela bloccò al volo. «’ntzù. Non si fa».

«Cavà!» si lamentò questo.

Alfredo si rivolse a Mario. «Che fazzu? mo piglio?»

«’ntzù!» disse Mario, sardonico. «Non bastano». Calò quattro sette: l’ultimo gli era arrivato “provvidenzialmente”. Era una mano incredibilmente ricca. E diversamente dal solito, a ‘sto giro aveva vinto lui.

«E bravo a Mariuccio» disse Leo, mollandogli una pacca sulla spalla. Alfredo e Buscedda sorrisero compiaciuti e si complimentarono. Nessuno sembrava particolarmente dispiaciuto.

Questo si allungò in avanti per prendere il piatto. Accumulò le banconote davanti a sé. Poi alzò lo sguardo sui compagni. Questi restarono in silenzio a fissarlo.

«’na scummissa è ‘na scummissa!» disse Mario.

«Ha ragiuni». Alfredo spinse lo sguardo a incrociare quello di Leo.

«Quel che è giusto…» disse questo, «è giusto».

Calò di nuovo il silenzio.

«Che dobbiamo fari?!» disse Buscedda, spazientito. Intanto occhieggiava il sigaro.

«Te lo dico io: mi vogliono fare penare». Mario prese a contare la vincita: poco più di duemila euro, escludendo le proprie puntate. «Ma io non sono uno di quelli. Pazienza ho».

«Sicuro sii?» gli chiese Leo.

«Sicuro sugnu!» ribatté Mario.

«Se è sicuro…» fece Alfredo. Guardò i compagni negli occhi, uno a uno, poi si rivolse a Mario. «Compare Buscedda la casa di Aci Trezza a Giacomo Valente la prestò…». Buscedda confermò con un cenno del capo.

Mario lo guardò senza capire: neanche lo conosceva a Giacomo Valente. Ma non disse nulla per non interrompere il compagno che sembrava finalmente intenzionato a rivelargli il segreto.

«… stamane proprio da Aci Trezza me ne tornavo, e lo incrociai. Nel sedile accanto, to figghia c’era».

Mario restò immobile. Le parole del compagno gli giunsero ovattate e confuse. Vedeva muovere le labbra. Era certo che gli stesse parlando. Ma non riusciva ad afferrarne il senso.

«… to figghia» ripeté Alfredo.

Questa volta la parola gli arrivò limpida come il boato d’un tuono. «Mo figghia? Che centra mo figghia?»

Alfredo si scambiò uno sguardo preoccupato con Leo. Questo si protese verso Mario. Gli mise una mano sulla spalla. «To figghia se ne fuìu».

«Bedda matri…» Le parole sembrarono finalmente giungere a destinazione. Mario sgranò gli occhi e scattò su come una molla, come se volesse mettersi a correre fino ad Aci Trezza.

«Unni vai?» Buscedda alzò un palmo per stopparlo. «Cosa fatta jè. Nun ci pò fari chiù nenti».

In piedi accanto al tavolo, Mario guardò confuso i compari. Poi si sentì mancare e ripiombò giù. «E mo, chi glielo dice a so ma’?!»

«E secondo te, to muggheri, non lo sa dov’è sso figghia?»

«Mario,» Alfredo si alzò dalla sedia, si avvicinò al compagno da dietro e gli pose le mani sulle spalle, «che l’abbiamo organizzata a fare sta partita?»

Mario spinse lo sguardo sopra la spalla destra. «Truccata era?»

«To dissi: u truccu c’è».

«Ragazzi fortunati sono», lo rassicurò Buscedda. «Iu metto a disposizione u’meo ristoranti. Leo si occupa di li pratiche ‘n Comuni. A sartoria ri Alfredo pensa ai ruobbi. E tu…»

«Iu?»

I compagni indicarono col mento la cospicua vincita dell’amico. «Cacci i sordi!»

Risero in coro.

80 Comments on “‘na serata tra amici”

  1. Era questo il testo di cui mi parlavi da scrivere in siciliano?
    Sto iniziando a capirlo.
    Io non parlo mai in dialetto, al limite mi esce qualche parola quando vado da mia madre. Volente o nolente qualche flessione di accento scappa. Anche se io da piccola volevo fare dizione. Adoravo quando passavano in tv degli spezzoni delle “signorine buonasera”. Dizione perfetta.
    Chiedo venia, non conoscevo Leo Chiosso.

    Tornando al discorso iniziale, scrivere in dialetto è una bella responsabilità e non è facilissimo.

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    • No, infatti. Richiede un sacco di lavoro extra. Inoltre il dialetto non è una lingua, non è codificato come una lingua. Ad esempio non si può parlare del siciliano, perché basta spostarsi da Catania a Palermo, a Messina, ad Agrigento e via così e il dialetto già cambia. Inoltre, benché esistano diversi dizionari, c’è un grosso problema di trascrizione della pronuncia. Le parole cambiano da zona a zona per indicare la stessa cosa. Insomma… Camilleri ha impiegato una vita a rendere un linguaggio standard il suo siciliano, quello dei suoi libri.

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      • Infatti, è così. Per esempio, molti termini che tu hai utilizzato hanno sfumature diverse nel dialetto nisseno. Qui c’è un mix e forse qualche arcaicismo.
        “Ntzù” è più onomatopeico e rende molto: traduce quel no, che non è una semplice negazione, ma tutto un portato di pensieri.
        Hai fatto un lavorone, non è facile. 🙂

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        • Che poi io ho anche una difficoltà aggiuntiva: ho parenti siciliani – che comunque parlano un italiano impuro più che un dialetto – ma non vivo in Sicilia. Quindi ricordarsi a memoria i modi di dire e le pronunce non è così immediato. Non è come esserne immersi tutto il giorno.

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          • E comunque non è solo una questione di frequentazione di un dialetto. Cioè tu puoi esserne immerso 24 ore su 24 per un lungo periodo, ma la “sicilianità” di certe espressioni te le porti nel sangue e ce le hai nel sangue solo se ci nasci e ci vivi in Sicilia, non basta avere una discendenza.

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            • Cioè Marina, per parafrasare il mondo di Harry Potter vorresti dire che noi siamo dei Purosangue, Salvatore è un Mezzo Sangue e i non siciliani sono dei Babbani? 😀

              Chiaramente la condizione è reversibile per ogni dialetto. 😛

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                • Tutta la famiglia, tranne qualche eccezione, è di Centuripe, Enna. Le eccezioni provengono comunque sempre da qualche paese limitrofo della stessa provincia (Caltanissetta, Catenanuova, ecc.), tranne uno zio acquisito che è di Catania (ed è l’unico che parla ancora un siciliano verace). Questo per quanto riguarda la generazione precedente. La mia, quindi i miei cugini, sono quasi tutti nati e cresciuti a Torino, o si sono spostati a Torino quando erano molto piccoli. Solo una famiglia è rimasta giù. Di questa, tutti i miei cugini parlano italiano, ma con una forte flessione siciliana. Ma il vernacolo isolano lo parla ancora qualcuno? Perché la mia impressione, tolti gli anziani, è che diversamente da altre aree dialettali, i siciliani si siano impegnati più di tutti ad abbandonare il dialetto per l’italiano. E non credo sia un bene.

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                  • Il siciliano stretto lo parlano solo gli anziani, soprattutto quelli che non hanno studiato, come nessuno in ogni parte d’Italia parla il dialetto stretto della propria regione. Non credo, cioè, che ci sia un impegno particolare da parte del siciliano orientato all’abbandono dell’uso del proprio dialetto; è un automatismo generazionale: in casa mia i miei genitori non lo parlavano, i miei nonni nemmeno e se non ci convivi non lo assimili. Rimaniamo invece portatori sani di forme dialettali, di espressioni con cui coloriamo il linguaggio parlato. Non è tanto il non uso del dialetto che a me infastidisce, perché lo trovo normale e giusto, ma la tendenza del siciliano a volere cambiare la pronuncia di certe parole, di volere “italianizzare” una cadenza che al contrario per me è sacra. Molti si vergognano di usare le triple T o di avere quell’inflessione tipica “nostra”. Ecco, perché? Questo è un delitto: io sono fiera di parlare come parlo e non vorrei mai imparare a parlare “scisci” come tanti che rinnegano le proprie origini. Anche perché vengono fuori degli ibridi raccapriccianti: il siculo D.o.c. che si atteggia a milanese: terribilissimissimo!

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                    • Però, per quella che è la mia esperienza, due piemontesi che s’incontrano per strada fra loro parlano in dialetto. L’ho visto un milione di volte. Poi quando si rivolgono a te, che piemontese non sei, passano all’italiano. Non mi pare che i siciliani abbiano la stessa tendenza: tutti parlano un italiano sporco, sia che si rivolgano fra loro sia che si rivolgano a un estraneo. Mi riferivo a questa impressione.

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                    • Se io incontro un siciliano parlo in italiano calcando la mano su molte espressioni dialettali, ma un’intera discussione in dialetto no, non la faccio. Non mi viene spontaneo, nemmeno facile, a dirla tutta!

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            • O hai una nonna, una mamma vissuta per anni in Sicilia e ora vivono vicino a te. Non cambia nulla perché soprattutto le persone grandi continueranno a parlare quel dialetto anche se sono a chilometri di distanza. Lo vedo tutti i giorni. Mogli di militari siciliani li sento parlare con la loro cadenza, ed io sicuramente ho la mia, per forza, anche se, come già detto non parlo mai in dialetto, ma è naturale un suono che ti riconduce alle tue origini. Ben venga. Più passa il tempo, più sei orgoglioso da dove vieni, anche se te allontani per anni. Tutto ritorna.
              Non parleranno mai milanese una donna del sud anche se sono vent’anni che vive a Milano. E meno male. E viceversa. Miei zii umbri sono anni a Milano, parlano umbro. Le mogli in milanese. Così è se vi pare. Pirandello, altro siciliano.

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              • Vero, anche se noto due cose: la prima è che i miei parenti, forse per imitazione o per elevarsi, si sforzano di parlare in italiano; ne viene fuori un italiano impuro più che un dialetto. La seconda è che mio padre, forse perché non è più abituato, Camilleri non riesce a capirlo… Per intenderci: lo capisco di più io.

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  2. Beh, che dire, non facile descriver a parole la tensione di una mano di poker. Certo che visti i presuposti mi aspetta che finisse a pistolettate 😀

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      • Ma come bruttissimo? Oddio, è cominciata la crisi esistenziale. Compare sei fuori stagione. In genere la crisi si ha quando hai terminato un romanzo, lo mandi all’editor, e mentre attendi la valutazione, come uno scimmunitu un secondo prima ti dici: volendo è venuto bene; e quello dopo ti rispondi da solo: ma che… ho scritto una schifezza e voglio morire. Corri alla balaustra per gettarti di sotto e quando vedi l’abisso ti ridesti: ma forse non è venuto così male. E l’istante ancora dopo: ma perché ho scritto una tale schifezza.
        Il racconto bonu iè! Anzi, avendo visto il prima e il dopo, mi son detto: e bravo all’Anfuso! 😉

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        • Be’… romanzo o non romanzo, io lo penso di tutto quello che scrivo. Pure dei racconti pubblicati da Mondadori. Anzi, quelli prima di tutto. Vere schifezze… Non è che voglio farmi consolare, eh. Sia chiaro.

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          • Questo che dici ha due aspetti contrapposti.
            Se non ti piace quel che scrivi, sei propenso a non accontentarti e quindi migliorare la tua scrittura. Cosa buona.
            Ma al contrario, l’insoddisfazione perenne può portare alla frustrazione e quindi stancarsi della scrittura. Cosa male.
            Tu come ti senti, nella cosa buona, nella cosa male o nel torbido metà e metà?

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            • Il punto è che se penso a tutta la fatica che costa fare una cosa che è indubbiamente brutta, non posso non pensare a quanta fatica costi fare qualcosa di appena bello… E’ molto sconfortante.

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              • Ecco, stamattina devo scrivere un racconto di 800 parole per un mio progetto. Poi devo revisionare un capitolo in editing del romanzo, devo stendere un progetto per un’amica e rispondere a 100 chat lavorative. Mi ci mancava solo l’Anfuso in crisi. 😀
                Faccio un po’ di life coach che a me viene bene.
                Scrivere è una dannata fatica e lo sappiamo. Scrivere riuscendo a rubare il tempo al lavoro, alle incombenze della vita che ci trascinano impetuose come un fiume in piena, è complicato.
                L’unica ragione sensata che ci salva è la follia e l’amore per la scrittura. Il desiderio di dare vita alle nostre ombre, alle insoddisfazione che partono dal ventre e scorrono sui tasti sotto le nostre dita. Scrivere un romanzo di 80 mila parole, con 400 mila digitazioni sulla tastiera, modificarlo e rileggerlo per 10 50 100 volte. Tutto questo richiede follia. Per fortuna il cervello razionale degli scrittori non funziona bene. Ma questo può essere affrontato perché la scrittura che scorre nelle nostre vene è sostenuta dalla passione.
                L’unica cosa che salva uno scrittore dal fottersi da solo è l’amore per la scrittura.
                Tu lascia perdere lo sconforto e dedicati a scoprire il senso profondo dell’amore che ti pulsa dentro. Solo se avrai fede in questo potrai scalare l’Everest del: ne vale la pena.

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  3. Invece la mia domanda è: ma quanto hai studiato per costruire un dialogo in un dialetto?
    Io, per esempio, conosco bene il dialetto della mia zona, però se dovessi usarlo in un racconto avrei seri problemi nella trascrizione.

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  4. Voglio andare controcorrente questa mattina, tanto mi pare di capire che non sei consolabile. Per quello che capisco io (ma puoi anche insultarmi pubblicamente se non la vedi così), con questo racconto hai fatto una cosa strana… C’era una prima versione che era fresca, divertente, allegra, che sicuramente ti eri divertito a scrivere e che infatti io mi ero divertita a leggere. Poi ci hai lavorato su ancora, che era in parte necessario perché era ancora materiale un pochino grezzo, e nel calderone è finito dentro il pessimismo, la stanchezza e soprattutto il dannato desiderio di fare qualche cosa di bellissimo/stravolgente/elegante(?) col risultato che adesso ti trovi davanti sta cosa che mi pare di capire non ti convinca più, e che se devo essere molto onesta non convince più nemmeno me. Levigando levigando hai scrostato lo smalto…
    Se provassi a tornare all’originale e a capire cosa ti piaceva all’inizio di questo soggetto e a ricominciare daccapo?

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    • L’unica cosa buona del progetto iniziale era la spontaneità. Ma da un punto di vista tecnico era pessimo, peggio del risultato finale. Ora, la spontaneità ha sicuramente un valore; ma sono in pochi a potersela permettere.

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      • Sì vabbè, ma la spontaneità (cioè i sentimenti che provi mentre scrivi e che trasmetti sulla pagina) è l’unica cosa che ti permette di aprire una breccia nell’altro che ti legge, di trasmettergli le tue sensazioni, cioè di fare l’unica cosa sensata che la narrativa dovrebbe fare. Chi ti legge lo fa per questo, non per puntare il ditino se dal punto di vista tecnico non è tutto perfetto (che poi, insomma, quello che tante volte tu scambi per pessimo è solo la spontaneità, e uno dovrebbe fare anche i conti con questa faccenda). Poi vedi te, eh, però io ho l’impressione che quello di prima che a te faceva tanto schifo significasse qualcosa, mentre adesso è freddo.

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          • Ma che morale? Ogni testo è a se stante e valgono regole diverse! In generale revisionare è sempre importante, è evidente a tutti: basta che nell’ansia di aggiustare (tante volte per insicurezza di una cosa che magari proprio perché brillante non rispetta tutti i criteri estetici che stanno nella tua testa) non si perda l’intuizione iniziale…

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  5. Il mio motto: è brutto. Continuo a scrivere.
    Non ti sopporto più. Mi sembra di sentire quello che dico sempre io.
    Capisco quanto sono insopportabile.
    Visto che da amica non conta il giudizio, divento nemica quando esprimo che mi piace come scrivi. In realtà è l’opposto. Un amico ti dice la verità, il nemico ti dirà che hai scritto MOLTO bene solo per il gusto di farti fare una figuraccia .Poi ci sono pure quelli che ti vorrebbero buttare di sotto con critiche feroci quando TUTTI ti dicono che va bene ciò che hai scritto. Però TU lo sai cosa è buono e cosa non lo è. Fa parte del gioco.
    L’ansia ringrazia, lo stomaco meno, poi però le soddisfazioni uno se le prende col tempo e l’ulcera l’andranno a curare gli altri. Una volta per uno, non fa male a nessuno.

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  6. Allora, sarò sincerissima.
    Ho fatto una faticaccia immane a capire quello che si dicevano in dialetto e spesso ho riletto ritornando sul pezzo. Questo non ha reso la lettura scorrevole. Il problema credo sia per tutti quelli che il dialetto siciliano non lo conoscono e non lo hanno nelle orecchie.
    Altri difetti non ne ho trovato, che poi è una particolarità del testo e non un difetto.
    I personaggi sono molto credibili, molto ben descritti e anche simpatici tanto da riuscirli a vedere a quel tavolo. E poi il finale è davvero azzeccato.
    Se eri in cerca di complimenti allora sei sulla strada buona, hai creato soprattutto all’inizio una bella ambientazione.

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      • Sì ne ho letto uno e ne ho altri tre da leggere e sono molto attratta dal prenderli in mano, ma ricordando la fatica fatta all’inizio mi sento un po’ trattenuta. Di certo li devo leggere uno di seguito all’altro altrimenti poi perdo l’occhio. Per me è davvero difficile capire i dialetti. Il mio compagno invece che ha molti amici pescatori del sud capisce e imita molto bene le parlate. Oggi ad esempio su fb ho messo un video di una simpatica commedia degli equivoci in dialetto ligure e ho notato la stessa difficoltà per chi non è del territorio. Questa preziosissima distinzione di nascita crea un ostacolo nella velocità d’impatto ma non altera la bellezza del suo insieme.

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        • Ah ecco, perché la domanda successiva sarebbe stata se avevi trovato la stessa difficoltà anche a leggere Camilleri. Lui ha passato la vita ad affinare il dialetto che usa nei suoi romanzi, proprio per renderlo il più liscio possibile a orecchie poco allenate.

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  7. Ho fatto una fatica immane a leggerlo, ma la cosa divertente è che la parola scritta in dialetto non mi dice niente, poi me la ripete mentalmente e la fonia la capisco. Forse perchè al cinema non c’è la trascrizione? 😛
    Penso sia la stessa fatica di capire le commedie in dialetto veneto (con l’eccezione di Marco Paolini che è bravissimo). Già a capire quelle in dialetto bergamasco dei Legnanesi faccio fatica, e non sono così tanti chilometri rispetto alla Sicilia.
    Comunque, difficoltà della lingua a parte, per me ambientazione e ritmo della storia sono perfette.

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  8. La prima cosa che il commissario notò sopra la scrivania di Pasquano,’n mezzo a carte e fotografie di morti ammazzati, fu una guantera di cannoli giganti con allato ‘na buttiglia di passito di Pantelleria e un bicchieri. Era cosa cognita che Pasquano era licco cannaruto di dolci. Si calò a sciaurare i cannoli: erano freschissimi. Allura si versò tanticchia di passito nel bicchiere, affirò un cannolo e principiò a sbafarselo talianno il paesaggio dalla finestra aperta. Il sole addrumava i colori della vallata, li staccava nettamente dall’azzurro del mare lontano. Dio, o chi ne faciva le veci, qua si stava addimostrando un pittore naïf. A filo d’orizzonte, uno stormo di gabbiani che se la fissiavano a fare finta di scontrarsi tra loro, in un virivirì di piacchiate, virate, cabrate che parivano ‘na stampa e ‘na figura con una squatriglia aerea acrobatica. S’affatò a taliarne le evoluzioni. Finito il primo si pigliò un secondo cannolo.

    Dopo questo pezzo di Camilleri, mi vien voglia di leggerlo. 😊

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      • Senza dubbio. Ma se ci dovessimo paragonare ai grandi prima di noi, bè altro che appendere la penna, sotterrarla proprio. Io non ho mai detto di essere una scrittice, qualcuno lo fa bene e non lo ammette o viceversa. Ma non dobbiamo dimostrare niente a nessuno se non a noi stessi. Io credo che una grande vittoria è quella di fare cose impensabili anni prima, il continuo migliorarsi. Questo viene con la pratica. Brutto è credere di saper scrivere perché…
        Divento noiosa. Scrivere è difficile, è per le teste cocciute. Ci vuole un buon carapace. Pazienza, costanza, sbuffare ogni due per tre, avere una gran faccia tosta, crederci al 2000 percento e subito dopo al 0,0000001 in quello che scrivi. Altamente instabile. Ma che non ti fermi comunque. Praticamente dei pazzi con licenza di scrivere.

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  9. Fantastico lo leggo solo ora. Ci sono alcune frasi da rivedere in catanese ma hai colto alla perfezione sfumature della realtà siciliana, soprattutto i personaggi e l’ironia. Bravo Turi.

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