La Sicilia nel 1876

mafia-uccide

Diario di un romanzo

*** Questo articolo è tratto dai miei appunti di “viaggio” sul romanzo in “stesura” ***

Il concetto di viaggio, ci tengo a sottolinearlo, se associato alla figura del romanziere e alla stesura di un romanzo solo raramente riguarda una vera e propria escursione. In quel caso, di norma, si tratta di libri che hanno la forma dei diari di viaggio o guide turistiche. In tutti gli altri casi il viaggio è un volo pindarico alla scoperta del nucleo fondamentale di una storia, della sua vera essenza. Gli appunti che seguono sono molliche lungo il percorso.

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Nella Relazione della Giunta per l’inchiesta sulle condizioni della Sicilia del 1875, stando a quanto sostiene Leopoldo Franchetti nel suo saggio La Sicilia nel 1876 – scritto in collaborazione con Sidney Sonnino, manca quasi del tutto e comunque in modo esplicito e dichiarato qualsiasi cenno al brigantaggio. Essa riconosce una certa elevata ricorrenza di fatti di sangue, il malandrinaggio nelle campagne e le associazioni di malfattori a cui sono attribuiti i ricatti in rasa campagna – poiché «è raro che non sieno preparati da lunga mano in conciliaboli di associati e di manutengoli nelle città»; ma li giustifica come conseguenza di una «minor preparazione dell’altre provincie italiane all’austero e difficile regime della libertà».

L’idea di Leopoldo Franchetti, invece, è che il brigantaggio sia un fenomeno morboso (leggi = ossessivo) e peculiare della Sicilia; le cui origini sono da rintracciarsi nei seguenti punti:

  • Reazione al feudalesimo «ferocemente vissuto»;
  • Mestiere appreso per atavismo (come appunto un mestiere che si tramanda);
  • Per sfuggire a una leva militare imposta con rigore, che prima del 1860 in quelle terre era sconosciuta;
  • Per intolleranza verso le leggi «sull’ammonizione e sul domicilio coatto».

Nei rapporti con la società alcuni briganti ruppero la sequenza dei reati con estemporanei guizzi di generosità; altri non negarono a qualche movimento politico o al Governo o agli uomini delle forze dell’ordine preziosi servizi (che questi ebbero il torto di richiedere e di non fare seguire un tentativo di riabilitazione degli stessi, convertendoli in buoni cittadini). Agli occhi del Franchetti quindi, il fenomeno del brigantaggio non era altro che un concretarsi di un pervertimento morale dell’ambiente; fenomeno che a sua volta non faceva che peggiorare la situazione.

Secondo Franchetti il favoreggiamento dell’uomo comune (manutengolismo), cioè di colui che non prende parte ai delitti ma aiuta (in vario modo) chi li compie, non lo si deve interpretare in chiave utilitaristica («[…] era raro che il manutengolismo nascesse cosciente, e fosse deliberatamente volontario»), ma come cauzionale tutela a cui si è costretti vista l’assenza dello Stato.

«A Ribera abbiamo saputo di un caso che ci dà la misura di questa reciproca azione. Si erano sequestrati due dei sette fratelli che componevano la famiglia Bonifacio. Uno di loro venne rimandato presso di essa per ottenerne il danaro del riscatto; invece egli stesso, i fratelli e gli amici si unirono per dar la caccia ai briganti riuscendo ad ucciderne due e a liberare l’altro fratello. A tutti fu data la medaglia al valore civile, che avevano davvero ben meritata. Senonchè non tardarono ad accorgersi che si tramava la vendetta, e dovendo pur recarsi di frequente nelle campagne pei loro affari si decisero a pagare anch’essi un tributo alla banda per non essere molestati, e presero parte perfino ad un pranzo di riconciliazione»[1].

Cioè vista la mancata protezione di uno Stato, assente nella vita del cittadino, esso volente o nolente è costretto a soggiacere a una situazione di più o meno aperta complicità. Si viene a tessere così, tra il cittadino e il bandito, una serie di rapporti: «superficiali prima e via via più stretti». Interessante al riguardo anche la testimonianza di Michele Palmieri di Miccichè:

«Era un pomeriggio dei primi di luglio. Mio fratello che era intento a scrivere nella sua camera mentre i domestici stavano finendo il loro pasto, si vide dinanzi all’improvviso tre uomini armati di tutto punto che gli fecero molti inchini per attenuare a loro modo l’impressione sgradevole delle loro faccie e della loro apparizione. Signor marchese, gli dissero, non abbiate paura, siamo brava gente e non vogliamo far male a nessuno, ma abbiamo bisogno di denari. Mio fratello, che intuì di non poter fare diversamente, fu loro cortese e lamentò solo di non essere stato prevenuto della visita. I domestici erano stati rinchiusi a chiave, ed altri nove briganti vigilavano fuori a cavallo. Alcuni abitanti di Villalba fecero sapere di volere accorrere a riscossa: ma mio fratello li fece pregare di rimaner tranquilli, ben sapendo che in caso di resistenza, se pure i briganti fossero stati messi in fuga, o presi, od uccisi, c’era da aspettarsi una feroce vendetta, e per lo meno il fuoco ai quattro angoli della proprietà con la distruzione delle messi e dei boschi: egli fece quindi imbandire una gran tavolata e pregò che non fossero troppo esigenti perchè egli non era l’esclusivo padrone. Mangiarono bene e bevvero meglio, poi intascate duecento oncie (circa 2550 lire italiane prebelliche) e fatte molte riverenze, presero la via del ritorno, sfilando per quattro sotto il comando del loro capo Luigi Lana, davanti a mio fratello che se ne stava ad un balcone sovrastante la porta d’ingresso per dar loro il buon viaggio, augurandosi di non più rivederli. Quand’ecco uno tra essi che doveva aver bevuto più degli altri, gli rivolge una sequela di atroci ingiurie rimproverandolo di averli canzonati con un così meschino riscatto. Luigi Lana gli puntò subito contro il fucile, e mentre tutti si tacevano terrorizzati lo freddò, e cadutone il cadavere dal cavallo, si precipitò di sella, estrasse la sciabola, gli tagliò netto il capo e gettatolo in un sacco che tolse dalla sella, lo presentò sanguinante a mio fratello, dicendogli: — Signor Marchese, egli vi aveva mancato di rispetto dopo che voi ci avete così bene accolti da dovervene essere riconoscenti. Tal sia di ognuno che vorrà offendervi come lui. — Mio fratello, in preda alla più viva emozione, pur rifiutando l’orribile presente, dovè ringraziare»[2].

Quella banda continuò a essere piena di riguardi per il marchese e la gente di Villalba. Viene naturale porsi l’interrogativo se questo rapporto, all’inizio coartato, si sia poi aperto a una reciproca utilità. Secondo la Relazione non devono essere considerati manutengoli coloro che, sotto la minaccia di ritorsioni, spinti dal terrore aderiscono a ricoverare una banda o s’impegnano al silenzio sui suoi movimenti o ostacolano le ricerche delle autorità.

A un certo punto però, può venirsi a creare una collaborazione di tipo diverso: di reciproco vantaggio. Se è vero che la paura spesso spinge l’uomo a compiere azioni addirittura contrarie al proprio interesse di cittadino, qual è il criterio da usare per distinguere chi invece vi aderisce per volontà criminale? La convenienza è sita in entrambi i contesti, sia che riguardi la preservazione della propria tranquillità sia della propria prosperità. Secondo il Franchetti al timore delle ostilità può subentrare la speranza di un lucro.

«È accaduto così che poco dopo la nostra visita il feroce capobanda Sajeva fosse sorpreso dalla forza mentre in un casino poco discosto da Girgenti prendeva parte unitamente ai suoi compagni ad un lauto pranzo che gli era stato offerto da un barone e da un cavaliere»[3].

Mentre la Relazione ne nega la possibilità, i due autori sostengono che in Sicilia col tempo si sia formato un ambiente favorevole ai briganti; e per quanto tutto questo discorso riguardi il brigantaggio e l’alba della Repubblica, non è forse ancora oggi terribilmente attuale?

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Note

[1] L. Franchetti e S. Sonnino, La Sicilia nel 1876

[2] Michele Palmieri di Miccichè, Moeurs de la Cour et des Peuples des Deux Siciles, Parigi 1837

[3] Cit. L. Franchetti

68 Comments on “La Sicilia nel 1876”

  1. Briganti, Sicilia, mancanza dello stato. Sarà mica un romanzo sociale? Malloppone storico? Tu sibillino? Figuriamoci. Dai corri a scrivere…

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  2. Ottimo! Il primo saggio, quello di Franchetti e Sonnino, l’ho trovato, ma il secondo dove l’hai recuperato? Sono pienamente d’accordo sul documentarsi ad ampio raggio, e spesso da idea nasce idea. 🙂

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    • Quello di Michele Palmieri di Miccichè? Non è un saggio ma un libro di memoria, ripubblicato da Sellerio nel 1976. Lo puoi trovare in biblioteca o puoi trovare degli stralci citati qui e là in varie documentazioni, anche su internet.

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  3. Percorso di viaggio interessante.
    L’argomento è vastissimo e per certi versi suggestivo. Direi anche originale perché narrativa recente, ma anche passata, a tema brigantaggio e eventuale evoluzioni verso la mafia, mi pare che ce ne sia poca o forse nulla. Cioè io non sono a conoscenza di romanzi famosi sul brigantaggio in Sicilia.
    Ed è anche singolare che i nostri romanzieri d’eccezione: ovvero Verga, Capuana, De Roberto, Pirandello, ma anche Tomasi di Lampedusa, contemporanei o più prossimi agli eventi, non ne abbiano mai sentito il bisogno di raccontare, se non per accenni.
    Il più vicino è Natoli con i Beati Paoli, ma lui si rifà al ‘700. Altro contesto storico.

    Poi ci sono aspetti controversi. Il brigantaggio era molto sentito nell’entroterra siciliano. Mentre le grandi città avevano meno problemi.
    Però una chicca te la posso raccontare. Qui in provincia di Catania, c’è un paesino alle pendici dell’Etna, non so se di nome lo hai mai sentito, che si chiama Belpasso.
    Oggi è una graziosa cittadina in pietra lavica e barocco.
    Però in origine il paese (la borgata) non si chiamava Belpassu, ma bensì Malpassu. Perché lì operava una famosa banda di briganti. Con puntualità, chiunque passasse da lì, veniva derubato, ucciso o doveva pagare qualcosa per restare incolume. E figurati che un famoso boss recente, proprio di Belpasso, lo chiamavano come “peccu” ovvero come soprannome “U Malpassotu”.
    Mi piacerebbe approfondire il quali anni il paesino ha cambiato nome, dal tragico Malpasso a incantevole Belpasso.
    Quel che conosco su Malpassu e quella leggendaria banda, lo so più come memoria orale. Me lo raccontava mio nonno. Mi piacerebbe un giorno approfondire queste leggende. Non so esistono testimonianze concrete.
    Però, e non sai quanto mi pesa adesso, mio nonno è morto quando io ero troppo giovane e non avevo la maturità per capire quale miniera preziosa fosse. Si chiamava Concetto (figurati le mie origini :D) ed era un uomo di mondo. Un pozzo inesauribile di eventi e fatti siciliani. Aveva conosciuto i grandi attori del primo Novecento: Musco e Giovanni Grasso. Figurati che Giovanni Grasso, oggi praticamente sconosciuto, è stato uno dei più grandi attori del mondo. Isaak Babel, lo scrittore russo famoso per per l’Armata a Cavallo, riporta una testimonianza di Giovanni Grasso in Russia. La compagnia teatrale catanese di Grasso era tanto rinomata, che faceva tournée in tutta Europa, anche in America. E la volta che fu a Mosca venne raccontata da Babel. Babel chiaramente non capì nulla di quel che vedeva nella rappresentazione teatrale, la commedia era in siciliano. Ma rimase impressionato della mimica tragica di Giovanni Grasso. I russi piangevano o ridevano per il dramma/commedia che inscenava, solo per la straordinaria corporalità del suo recitare.
    Tra gli aneddoti raccontati da mio nonno (amante del teatro e delle belle donne :D), mi diceva che addirittura Verga, aveva strappato in faccia a Grasso, il copione di Cavalleria Rusticana. Perché Grasso aveva avuto l’ardire di cambiargli il finale. Si racconta che restarono nemici fino alla morte. Tipo King con Kubrick per Shining. 😀 Pare però che Verga, alla fine si convinse che il finale reinterpretato da Grasso, fosse migliore.
    Ok, mi taccio che altrimenti da aneddoto ad aneddoto, continuo fino a domani. 😛

    P.s. Solo per dire… se mio nonno fosse ancora vivo, mezza storia di Sicilia te l’avrebbe raccontava lui ed eri a metà dell’opera. 😀 (Ecco, pure l’opera dei pupi, la devi inserire per forza!)
    Se vuoi tentiamo una seduta spiritica per rievocare mio nonno. Ma da scettico quale sono, dubito del risultato.
    In ogni caso vedi tu. Se non hai paura degli spiriti… tentiamo. 😀

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    • Che bella miniera di storia era tuo nonno Marco! purtroppo è successo la stessa cosa con mia madre che ho perduto troppo presto, anche lei era una miniera di storie legate alla sua famiglia, passata attraverso l’emigrazione in America, il fascismo e la seconda guerra mondiale 🙂
      Il romanzo di Salvatore promette bene…

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      • Già, per fortuna ho rimediato con l’altra mia nonna. La sua generazione aveva assistito all’epoca dello stupore. La trasformazione epocale dal mondo antico in quello moderno. La corrente elettrica in casa. La nascita della radio e della televisione. Il frigorifero. L’acqua corrente per lavare i panni senza più andare al lavatoio. Il telefono. La diffusione delle automobili e la sparizione delle carrozze. Il fascismo. La guerra con i bombardamenti. Lo sfollamento dalla città con mio padre piccolo. L’arrivo degli inglesi. La miseria e la fame profonda trasformarsi nel boom economico e nel benessere italiano.
        In genere nessuno ha voglia di ascoltare i vecchi. Io invece mi sedevo accanto a lei e le dicevo: raccontamene un’altra nonna.

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      • Vero, interessante. A questo punto potrebbero esserci altri Malpasso italiani con storie analoghe. Ma il vostro Malpasso è stato almeno rinominato in Belpasso? O voi siete rimasti sempre Mal?

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        • Bella domanda, dovrei farci un giro 😉 (mandiamo Salvatore che è già sul luogo) però sicuro sicuro il nostro Malpasso non è stato coperto dalla lava

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      • Interessante, non la conoscevo.
        Mio padre ha su Pirandello un libro magnifico. Le lettere di Pirandello a Nino Martoglio.
        Fuori Catania e soprattutto fuori la Sicilia, quasi nessuno ormai conosce Martoglio. Fu un grande commediografo catanese. Famosissimo in tutta Italia alla sua epoca.
        Le lettere sono incentrate sulla povertà sconvolgente di Pirandello che chiede continuamente prestiti e favori all’amico. Prima che Pirandello diventasse il grande drammaturgo, faceva letteralmente la fame. E qui, quanto ci sarebbe da discutere sugli scrittori che hanno bisogno di tempo per affermarsi.
        Pirandello chiedeva continuamente in prestito denaro, anticipi sulle commedie o lo pregava di far mettere in programma le sue opere. Liolà, la Giara, Lumiè di Sicilia o il famoso Berretto a sonagli che in realtà era prima stato scritto in siciliano e si chiamava a Birritta che ciancianeddi. Drammi dialettali che per lo più non venivano compresi appieno dal pubblico che voleva le commedie facili. L’Aria del Continente di Martoglio fu per decenni la regina della commedia siciliana. In quel libro, dalle sue stesse parole, traspare un Pirandello fragile. Implorante aiuto, ma sempre dignitoso. Conscio che la sua scrittura poteva dare di più di quel che raccoglieva. Purtroppo Martoglio non farà in tempo a vedere l’amico Pirandello diventare il grande scrittore, ma soprattutto il grande drammaturgo. Morirà per un banale incidente, ovvero cadendo dentro la tromba dell’ascensore di un ospedale.
        E tra l’alto Martoglio, nel profondo sud, fu uno dei pionieri del cinema in Italia, fondando una delle prime case di produzione cinematografiche. Girò pure un film da regista, purtroppo andato perduto, che si intitolava sperduti nel buio. Chi lo vide, fra cui mio nonno che me ne ha accennato, diceva che fosse un capolavoro. Almeno per quei tempi. Mi spiace parecchio che la pellicola sia andata perduta.

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        • Beh, se uno vuole scrivere Pirandello lo deve rileggere ben bene tutto. Io lo lessi a Vent’anni. E’ tempo di rispolverare i libri.

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    • Anche mio nonno mi ha raccontato molte storie, e molte altre me ne racconta mio padre e le mie zie. Mio nonno è sempre stato socialista – a lui interessava più la politica che la cultura – e ha conosciuto molto uomini politici. Quando si è trasferito qua a Torino, per seguire i figli, uomini importanti del partito socialista sono venuti a prenderlo in aeroporto. Purtroppo mio nonno aveva due grossi difetti: l’ignoranza e l’onestà. Per quanto riguarda la prima, ha imparato a leggere e scrivere in guerra, quando i fascisti l’hanno spedito assieme a molti altri in Africa, in Etiopia per la precisione. Sei anni s’è fatto in Africa, e me ne ha raccontate di storie. Faceva il guardia caccia per conto dell’esercito. Andava in cerca di branchi liberi, ma anche di qualsiasi cosa che potesse essere commestibile comprese – diceva lui – le tartarughe marine, e li portava nell’accampamento. Ogni tanto gli indigeni nel cuore della notte li attaccavano per sottrarre le bestie. Un ricordo di questi scontri era la lunga cicatrice che gli solcava la guancia destra. Ad ogni modo, grazie a un tenente imparò a leggere e scrivere e lo fece per poter scrivere lettere d’amore a sua moglie, mia nonna, che l’attendeva al paese. Ovviamente mia nonna non sapeva né leggere né scrivere… Ho sempre trovato molto comica e molto tenera questa storia. Per quanto riguarda l’onestà invece… be’, come puoi immaginare, se sei onesto non puoi fare il politico. Ma era comunque un uomo molto rispettato, forse proprio per questo.

      I Beati Paoli di Natoli li conosco ma non li ho ancora letti. Un passo alla volta. 🙂

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  4. Ecco se volevi incuriosirci sul tuo romanzo ci sei riuscito, quando sarà pronto?
    La storia del brigantaggio in Sicilia e della mancanza dello stato che ne ha favorito la diffusione mi ricorda certi situazioni più recenti…

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    • E’ una storia, quella italiana e siciliana in particolare, che sembra non finire mai… Il mio libro sarà pronto tra tre-quattro o cinque anni. Nel frattempo c’è il blog. 😉

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