Il loquace silenzio del punto

punto

Come si usa, il punto?

Siamo abituati a immaginare le interpunzioni come a delle pause; le stesse che si fanno parlando o leggendo ad alta voce. Tuttavia la lingua scritta non ha marcature specifiche atte a indicare delle interruzioni fonetiche: servirebbero per esse molti più punti. Quelli esistenti servono invece a indicare una marcatura ideale che è traccia «dei processi di pianificazione e guida per la lettura»[1] di un testo.

Una strutturazione difettosa si manifesta attraverso un disagio interpuntivo. L’indecisione a inserire il punto corretto nella giusta posizione è sintomo di quel «male oscuro» che è l’incapacità di costruire il testo. Costruire un testo in forma scritta segue procedure diverse da quelle del parlato. Nell’oralità le pause e le intenzioni sono indicate dall’intonazione e dal ritmo naturale del respiro. Il compito della punteggiatura, invece, è di marcare la struttura sintattica. Lo si nota in modo lampante quando si cerca di trascrivere, nel modo più fedele possibile, le registrazioni di colloqui orali.

La punteggiatura va quindi intesa non come una pausa, ma come un’indicazione pratica diretta al lettore della struttura che governa il testo. Le convenzioni di utilizzo (si parla apposta di convenzioni e non di normativa) sono tanto più rigide quanto più formale è il registro. Negli scritti svincolati da dinamiche referenziali, come ad esempio un diario o la narrativa, lo spazio di manovra è più ampio. Tuttavia esse danno comunque luogo a indicazioni precise sia riguardo la struttura della frase sia il registro adoperato.

«Il metro con cui giudicare è la congruenza delle scelte interpuntive con il progetto testuale».[2]

Fra tutti i segni para-grafemici a nostra disposizione, il punto è da tutti considerato il più semplice. Il suo utilizzo pare lampante, poiché la sua prima funzione è quella di “chiudere” qualcosa. In fondo, colloquialmente, non si dice forse mettiamoci un punto? Esso si pone di norma alla fine di una frase, o di un periodo più lungo, e rappresenta, sintatticamente, uno stacco tra tutto quello che viene prima e tutto ciò che segue dopo. Il suo valore cambia a seconda della posizione che occupa, tanto che il suo utilizzo si può intendere flessibile. Il punto infatti non rappresenta solo uno stacco, una chiusa; esso è anche legame tra ciò che viene prima e ciò che viene dopo. Dunque, nella forma scritta, cosa rappresenta davvero il punto? Ecco un buon modo di definirlo:

«[…] esso appartiene al linguaggio e significa silenzio».[3]

Dunque, come rappresentiamo il silenzio in narrativa? Come rappresentiamo un elemento vacuo come il silenzio in una realtà muta, fatta di simboli tratteggiati su una superficie? Attraverso il punto.

Esso chiude e connette. Secondo la convenzione grammaticale il punto sancisce la conclusione di una frase, di un periodo o di un intero testo. Esso è allo stesso tempo un elemento di divisione e di connessione: divisione, quando sancisce una conclusione; connessione, quando interrompe una sequenza. Il primo caso lo si riconosce perché a seguito del punto cambia l’argomento di cui si parla. Si riconosce il secondo perché cambiano le cose dette sullo stesso argomento. Il procedere a tappe, attraverso la frammentazione del periodo, dà infatti maggiore rilievo alle singole informazioni.

Anche altri punti concorrono a marcare una connessione. Questo compito, assieme al punto, se lo contendono tanto la virgola, quanto il punto e virgola e i due punti. Il punto, rispetto agli altri tre segni “antagonisti”, rappresenta una marcatura più forte. La connessione è tanto più intensa quanto più forte è la marcatura.

Se n’è accorto. Troppo tardi.

Se n’è accorto; troppo tardi.

Se n’è accorto, troppo tardi.

Se n’è accorto: troppo tardi.[4]

Parafrasando la spiegazione di Bice Mortara Garavella, il primo esempio rientra in una tendenza che affonda le proprie radici in un passato tutt’altro che recente e che a cicli dilaga, quella di «sovraestendere fino all’esasperazione» l’uso del punto. Il secondo esempio, a causa del disamore contingente nei confronti del punto e virgola, è quello meno in voga. La variante successiva introduce una virgola con poco valore avversativo, quasi volesse sottintendere un ma. Infine, i due punti inglobano sia il valore avversativo sotteso dalla virgola in precedenza, sia una serie di «inferenze a cui si induce il lettore».

Inteso in questo senso, il punto ha un forte valore testuale. Si parla di valore testuale quando si crea una connessione la cui portata eccede l’ambito prettamente sintattico per sfociare in quello semantico. La frammentazione della frase, attraverso una sovraestensione del punto, innesca una situazione a focalizzazione multipla, che crea una gabbia di inferenze a cui il lettore è rimandato.

«Ma il lunedì sera aveva dimenticato completamente il suo mestiere. Dimenticato. Completamente.»[5]

La frammentazione del discorso attraverso l’estensione del punto sarebbe, com’è ovvio, fuori luogo in una scrittura fortemente formale; ma trova il suo massimo impiego nella narrativa: in cui l’implicito, tutto ciò che viene rimandato a un significato sottinteso, è da sempre un coesivo testuale molto forte.

Tuttavia, l’eccessiva segmentazione. «Atomistica». Del testo. Esasperata all’eccesso. Si risolve in una decostruzione delle frasi. L’eccessiva focalizzazione cioè, annulla l’effetto dell’evidenza. Questo procedere a singhiozzo, per adoperare un’espressione della Garavelli, oltre e rendere più difficoltosa la lettura, finisce per oscurare il senso degli enunciati.

Il punto infatti, per sua natura, richiede di «totalizzare» i risultati dell’interpretazione eseguita sul testo fino a lì, e a ricominciare dopo di esso. L’eccessiva frammentazione degli enunciati costringe il lettore a concludere e ricominciare in continuazione, per porzioni spesso troppo piccole d’informazione. Fatto con moderazione si può approfittare di un effetto inferenziale, o di marcatura di alcune informazioni; adoperato all’eccesso potrebbe straniare il lettore ostacolandone la lettura.

 Come sempre, si raccomanda buon senso. Punto.

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Note

[1] Bice Mortara Garavelli, Prontuario di punteggiatura, Editori Laterza 2011

[2] Ivi p. 49

[3] W. Kandinsky, Punto, linea, superficie. Contributo all’analisi degli elementi pittorici, Adelphi 2001

[4] Bice Mortara Garavelli, Ivi p. 61

[5] B. Placido su La Repubblica – 7/8 febbraio 1988 (dall’op.cit. di Bice Mortara Garavelli)

26 Comments on “Il loquace silenzio del punto”

    • Il punto piace a tutti. Chiude una storia, un evento, una frase e quindi permette di ricominciare. Ma connette anche ciò che viene dopo con ciò che c’è stato prima. Insomma, è un segno semplice e affascinante. Così, in un certo periodo storico, se n’è perfino abusato. Ancora oggi, se non sai scrivere ma vorresti scrivere, basta costruire una serie di semplici frasi a questo modo: soggetto + verbo + complemento + punto. Una in fila all’altra. E questo dà la parvenza che si sappia scrivere. Micidiale. 😉

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  1. Il punto come sinonimo di silenzio ha sempre attirato la mia attenzione. Ed è quello che sto facendo in questi giorni per riflettere su ciò che è stato e su ciò che sarà. Per il resto i miei migliori auguri per un anno davvero speciale a te Salvatore, al tuo blog e a noi tutti che ti seguiamo.

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    • Non mi pare che la tua scrittura, caro Hell, manifesti dubbi interpuntivi. Comunque se vuoi un ripasso sulla virgola, il prossimo lunedì ricordati di accendere il computer. 😉

      ***spoiler***

      … parlerò di tre modi insoliti, da alcuni considerati perfino scorretti, di adoperare la virgola. 🙂

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  2. Adoro il punto e mi piacciono le narrazioni ritmate. Il punto può allentare o velocizzare un flusso, un racconto, risvegliare l’attenzione o regalare una pausa. Essere presagio di nuove scoperte o chiudere un capitolo. Per sempre.
    Ah… a me piace il punto e virgola, davvero non è più di moda?

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  3. Io arrivo sempre in ritardo. 😉

    Due aspetti positivi dell’articolo:

    1. Il titolo: loquace silenzio è una chicca;

    2. Lo studio: uno degli aspetti che più apprezzo di te, caro Salvatore, è che continui a studiare, nonostante tu abbia un aggancio lavorativo con Mondadori e, diciamocelo, potresti tirartela molto di più.

    Personalmente, adoro il punto quando separa tre aggettivi: “Luminoso. Abbagliante. Accecante.”

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  4. Mi è capitato, in alcuni casi specifici, di utilizzare nel racconto una strutturazione volontariamente frammentaria, scandita. A volte credo che renda molto bene certe emozioni, certi stati d’animo che si arrotolano uno sull’altro. La punteggiatura sembra semplice ma ti permette di fare molte cose.

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  5. Potremmo chiamarla “sindrome del giornalista”: l’esagerato ricorso al punto fermo, come fosse una virgola, è un classico in quella categoria. Se non erro, lessi da qualche parte che è un vezzo d’importazione (francese), che vuole dar luogo a uno stile spezzato, che dia un’impressione di rapidità e modernità. Ci salveremo mai dal provincialismo, noi che un tempo avevamo fatto provincia tutto il mondo? (Ok, forse troppa retorica…).

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      • In narrativa sì, a volte ha una grande utilità. Tra l’altro segnalo che in un libro che ho letto una volta [W. Lord, ‘Titanic. La vera storia’, Garzanti] c’era un uso particolare dei puntini di sospensione, per separare i “punti” di un elenco di azioni successive. In quel caso dava un’atmosfera indefinita, come i bordi sfumati e il bianco e nero nelle analessi cinematografiche (notare che non ho scritto “flashback”: ogni tanto bisogna recuperare le parole nostrane bistrattate. Propongo contestualmente una petizione per rinverdire la parola “cavedio”, che sta uscendo dal dizionario).

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