Come scrivere un dialogo
Il discorso diretto con e senza didascalia
Molti possono essere i modi di costruire un dialogo ben congegnato. Parlarne in senso astratto risulta sempre piuttosto difficile, poiché molto dipende dalla sensibilità, dalla cultura letteraria e dalla capacità di osservazione dello scrittore. In passato avevo già affrontato in modo più accademico questo stesso discorso (Scrivere un dialogo che funziona), oggi quindi mi limiterò a un approccio più pragmatico. Illustrerò, cioè, come stendere un dialogo privo di didascalia – quell’insieme di locuzioni che hanno il compito di attribuire il discorso a un personaggio, i quali veicolano molto spesso anche gesti e azioni –; in un secondo tempo lo farcirò di sintagmi di legamento per donargli movimento. Vi va di osservare cosa succede nel passaggio da uno schema all’altro?
Discorso diretto 1
PARZIALE TRASCRIZIONE SEDUTA 770-01-4266, GIOVEDÌ 26 AGOSTO 2016, STUDIO DR GIACOMO BARALDI, PARTECIPANTI: DR. G. BARALDI E PAZIENTE A: SESSO MASCHILE, ANNI 36.
Dottor G. – Mi dica, quante volte al giorno le capita di iterare questo suo gesto?
Paziente A – Non saprei, dottore. Non credo di averle mai contate. Più volte, direi.
Dottor G. – Tutti i giorni?
Paziente A – Sì, certo. Tutti i giorni. Non potrei farne a meno.
Dottor G. – Riuscirebbe a indicare una media giornaliera?
Paziente A – Quindici-venti… Quando sono molto nervoso o molto stressato un po’ di più.
Dottor G. – Quanto, di più?
Paziente A – Be’, siamo nell’ordine delle trenta…
Dottor G. – Trenta, dunque.
Paziente A – Ma solo quando sono molto nervoso. Altrimenti meno: quindici, direi. Se dovessi indicare una media, direi quindici. Le pare un buon numero, dottore?
Dottor G. – Lei che ne pensa? cosa direbbe?
Paziente A – Io credo sia un numero eccessivo. Il mio obbiettivo è smettere del tutto, naturalmente. Vorrei estinguere la pulsione. Completamente.
Dottor G. – Non è qui per questo?
Paziente A – Sì, esatto. Per questo. Anche se le confesso che la cosa mi mette un po’ d’ansia. Vede? sto già sudando. Al solo pensiero di smettere, mi vengono le palpitazioni. E la voglia aumenta, dottore. Si impossessa di me. Letteralmente.
Dottor G. – Non qui, la prego.
Paziente A – Mi scusi, dottore. È l’abitudine, sa? Non ci penso nemmeno più ormai. Lo faccio da così tanti anni, che è diventato un automatismo.
Dottor G. – Quando ha cominciato? se lo ricorda?
Paziente A – No, la prima volta non la ricordo per nulla. Ma ero piccolo, molto piccolo.
Dottor G. – Provi a sforzarsi…
Paziente A – Se mi sforzo, dottore, poi mi sale l’ansia e mi coglie la voglia…
Dottor G. Provi, allora, ad associare un pensiero, un ricordo o un’immagine a questa sua abitudine.
Paziente A – Naah, non ci riesco. Non sono bravo con le associazioni, dottore.
Dottor G. – Provi a rievocare un luogo. Ad esempio, in quale luogo in genere, da piccolo, espletava questa sua necessità?
Paziente A – Ah, questo è facile: il bagno, dottore. Mi ci chiudevo dentro. Solo che la porta del bagno non aveva chiave. Nessuna porta di casa, tra quelle interne all’appartamento, poteva essere chiusa a chiave. Credo fossero state rubate tutte dal precedente inquilino…
Dottor G. – E quindi, cosa faceva?
Paziente A – E quindi stavo attento, dottore. Non volevo certo che mi beccassero.
Dottor G. – L’hanno mai “beccata”?
Paziente A – Una volta… mia madre. È entrata per premura: ero dentro da tanto, e lei pensava mi fossi sentito male. Non le dico l’espressione.
Dottor G. – Sua madre l’ha rimproverata?
Paziente A – No no, anzi è stata molto comprensiva.
Dottor G. – E lei come si è sentito?
Paziente A – …
Dottor G. – Non se lo ricorda?
Paziente A – Tradito. Mi sono sentito tradito. Se devo scegliere una parola, è questa che sceglierei: tradito.
Dottor G. – Tradito. Molto, molto interessante…
Paziente A – Cosa, è interessante dottore?
Dottor G. – La parola da lei scelta.
Paziente A – Ritiene sia una buona parola, dottore?
Dottor G. – Non ci sono parole buone o cattive, solo quelle giuste per lei.
Paziente A – Però è una parola interessante, dico bene?
Dottor G. – Molto.
Paziente A – Bene…
Dottor G. – Aver scelto una parola interessante la rincuora? La fa sentire bene?
Paziente A – Credo di sì, dottore. Mi dà soddisfazione averla compiaciuta. Non le nego, però, che anche quando sono compiaciuto o soddisfatto s’innesca una certa voglia…
Dottor G. – Via, si trattenga.
Paziente A – Mi scusi, dottore.
Dottor G. – Per la cronaca: lei non mi ha e non deve compiacere me. Non è una gara. Non ci sono premi in palio. Né buoni né cattivi da giudicare. È solo una seduta di psicoterapia psicodinamica. Se avesse scelto “atterrito”, anziché “tradito”, ad esempio, sarebbe andato bene lo stesso.
Paziente A – Ma non sarebbe stata la stessa cosa, giusto?
Dottor G. – No, certo che no.
Paziente A – In cosa sarebbe stato diverso, se posso chiedere, dottore?
Dottor G. – Ad esempio avrebbe potuto portare a una diversa diagnosi della sua patologia, e quindi a un possibile differente approccio terapeutico. È sicuro, quindi, della sua scelta? Fa sempre in tempo a cambiare…
Paziente A – Sicuro, dottore. Tradito è la mia scelta.
Dottor G. – Bene allora. Direi che per questa prima seduta è tutto. Si faccia fissare dalla mia segretaria un appuntamento al primo giorno disponibile.
Paziente A – È molto carina, sa?
Dottor G. – Chi?
Paziente A. – La sua segretaria.
Dottor G. – …
Paziente A – Dottore?
Dottor G. – …
Paziente A – È grave?
Dottor G. – Alla lunga potrebbe compromettere la sua salute sia fisica sia mentale, ma non si preoccupi: ne verremo fuori.
Paziente A – Mentale, dottore?
Dottor G. – Solo di riflesso. Lei cerca nella compulsione del gesto una soddisfazione Altra e Alternativa a quelle cui un uomo della sua età dovrebbe dar luogo in campo socio-relazionale. Poco alla volta potrebbe portarla a isolarsi, e quindi a sviluppare una ossessione di tipo diffidenziale verso il Prossimo-Altro. Ma di tutto questo ne riparleremo la prossima volta.
Paziente A – Arrivederci, dottore.
Dottor G. – Ah, Sig. YYY?
Paziente A – Sì, dottore?
Dottor G. – Le rimetta via.
Paziente A – …
Questo schema è tipico dei testi pensati per il teatro o per il cinema, ma può essere adoperato anche nella narrativa: come dimostra David Foster Wallace in La scopa del sistema. A distinguere i diversi personaggi ci sono solo le necessarie attribuzioni a inizio dialogo. In passato ho realizzato diversi dialoghi privi persino di attribuzioni, ed è un’operazione davvero molto affascinante. Solo che si rischia di chiedere un po’ troppo al lettore, il quale a un certo punto, senza appigli a cui aggrapparsi, potrebbe smarrirsi. Inoltre, e lo potete verificare da soli, le attribuzioni non danno molto fastidio: dopo le prime battute praticamente non si leggono più. Anche se c’è da dire che questo, con due soli personaggi, era un dialogo semplice da seguire. Quando il numero di personaggi aumenta, le cose si fanno più complicate.
La cosa veramente difficile da realizzare nel discorso diretto privo di didascalie è riuscire a trasmettere il cambiamento d’umore dei personaggi man mano che il dialogo si svolge. Inoltre deve anche veicolare il cambiamento di stato. Infatti l’obbiettivo di un buon dialogo è sempre quello di far confrontare due o più personaggi tra loro, al termine del quale ciascuno ne uscirà arricchito di informazioni ma anche dotato di uno stato mentale diverso. In fondo, quando vi capita di parlare con qualcuno, parlare veramente intendo, alla fine del dialogo non siete mai le stesse persone che eravate all’inizio. Qualcosa cambia, e un buon dialogo in narrativa serve proprio a questo. Quindi è fondamentale che ogni dialogo abbia uno scopo da raggiungere.
Discorso diretto 2
Con una certa titubanza Antonio si stese sulla greppina, in morbida pelle nera, che per lunghezza occupava una buona porzione dello studio. Il dottor Baraldi prese posto alle sue spalle su una comoda poltrona imbottita. In mano, il dottore, reggeva un largo taccuino – anch’esso foderato di nobile pellame –, di quelli a quaderno, e una penna stilografica che aveva l’aria di valere ogni centesimo di quelle sedute. Tutto lo studio olezzava di lusso. Persino l’aspetto del dottore, con il suo vestito dal taglio classico, gli occhiali tondi dalla montatura dorata e la barba sfoltita a cuneo, dava l’impressione di voler incutere una certa soggezione.
Quando si furono entrambi sistemati nelle rispettive posizioni, accavallando una gamba il dottor Baraldi prese a interrogarlo. «Mi dica, quante volte al giorno le capita di iterare questo suo gesto?».
Antonio si mosse a disagio sul lettino. «Non saprei, dottore. Non credo di averle mai contate. Più volte, direi». Era posizionato trasversalmente rispetto allo studio, con le spalle rivolte alla finestra. Davanti a sé aveva la preziosa libreria in mogano racchiusa da vetrinette. La luce dall’esterno vi proiettava una buona porzione della stanza.
«Tutti i giorni?», insistette Baraldi.
«Sì, certo. Tutti i giorni. Non potrei farne a meno».
«Riuscirebbe a indicare una media giornaliera?».
«Quindici-venti…», disse Antonio, giocherellando nervosamente con un bottone della camicia. «Quando sono molto nervoso o molto stressato un po’ di più».
«Quanto, di più?».
«Be’, siamo nell’ordine delle trenta…».
«Trenta, dunque». La stilografica prese a frusciare sul foglio.
«Ma solo quando sono molto nervoso», si affrettò a precisare Antonio. «Altrimenti meno: quindici, direi. Se dovessi indicare una media, direi quindici. Le pare un buon numero, dottore?», chiese, volgendo lo sguardo alla sua immagine riflessa. Dalle vetrinette poteva osservarlo prendere appunti con una certa lena, su quel suo taccuino, ma il timbro della voce fino a quel momento non aveva dato segni di apprezzamento o di biasimo.
«Lei che ne pensa? cosa direbbe?».
Antonio tornò a fissare il soffitto. «Io credo sia un numero eccessivo. Il mio obbiettivo è smettere del tutto, naturalmente. Vorrei estinguere la pulsione. Completamente».
«Non è qui per questo?».
«Sì, esatto. Per questo. Anche se le confesso che la cosa mi mette un po’ d’ansia». Si passò una mano sulla fronte e ne mostrò i frutti al dottore. «Vede? sto già sudando. Al solo pensiero di smettere, mi vengono le palpitazioni. E la voglia aumenta, dottore. Si impossessa di me. Letteralmente».
«Non qui, la prego», lo redarguì Baraldi.
Una mano gli era inconsapevolmente scivolata lungo la gamba, e si stava intrufolando nella tasca sinistra dei calzoni. Con uno scatto improvviso Antonio la ritirò. «Mi scusi, dottore. È l’abitudine, sa? Non ci penso nemmeno più ormai. Lo faccio da così tanti anni, che è diventato un automatismo».
«Quando ha cominciato? se lo ricorda?».
«No, la prima volta non la ricordo per nulla. Ma ero piccolo, molto piccolo».
«Provi a sforzarsi…». La stilografica smise di frusciare.
«Se mi sforzo, dottore, poi mi sale l’ansia e mi coglie la voglia…».
«Provi, allora, ad associare un pensiero, un ricordo o un’immagine a questa sua abitudine».
«Naah, non ci riesco. Non sono bravo con le associazioni». Spiò l’immagine riflessa del dottore per coglierne un moto di stizza.
Il dottore invece posò la stilografica sul taccuino e si sfilò gli occhiali. Si massaggiò gli occhi coi polpastrelli. Poi tornò a fissargli la nuca. «Provi a rievocare un luogo. Ad esempio, in quale luogo in genere, da piccolo, espletava questa sua necessità?».
«Ah, questo è facile: il bagno, dottore. Mi ci chiudevo dentro. Solo che la porta del bagno non aveva chiave. Nessuna porta di casa, tra quelle interne all’appartamento, poteva essere chiusa a chiave. Credo fossero state rubate tutte dal precedente inquilino…».
«E quindi, cosa faceva?». La stilografica riprese a frusciare.
«E quindi stavo attento, dottore. Non volevo certo che mi beccassero».
«L’hanno mai “beccata”?» chiese Baraldi, sottolineando l’ultimo vocabolo.
«Una volta… mia madre. È entrata per premura: ero dentro da tanto, e lei pensava mi fossi sentito male. Non le dico l’espressione».
«Sua madre l’ha rimproverata?».
«No no, anzi è stata molto comprensiva».
«E lei come si è sentito?».
Antonio fissò lo sguardo su un punto del soffitto, poi prese a strofinarsi la fronte con un dito.
«Non se lo ricorda?».
«Tradito» sbottò Antonio. «Mi sono sentito tradito. Se devo scegliere una parola, è questa che sceglierei: tradito».
«Tradito. Molto, molto interessante…» disse Baraldi. La stilografica prese a frusciare con più intensità.
Antonio si volse a guardarlo direttamente. «Cosa, è interessante dottore?».
«La parola da lei scelta».
«Ritiene sia una buona parola?».
«Non ci sono parole buone o cattive, solo quelle giuste per lei».
«Però è una parola interessante, dico bene?».
«Molto».
«Bene…». Più confortato, Antonio incrociò le mani sul petto e tornò a fissare il soffitto.
«Aver scelto una parola interessante la rincuora? La fa sentire bene?».
«Credo di sì, dottore. Mi dà soddisfazione averla compiaciuta. Non le nego, però, che anche quando sono compiaciuto o soddisfatto s’innesca una certa voglia…».
«Via, si trattenga».
La mano era già tutta dentro la tasca dei calzoni e ravanava in cerca di qualcosa. Più lentamente questa volta Antonio la ritrasse. «Mi scusi, dottore».
«Per la cronaca: lei non mi ha e non deve compiacere me. Non è una gara. Non ci sono premi in palio. Né buoni né cattivi da giudicare. È solo una seduta di psicoterapia psicodinamica. Se avesse scelto “atterrito”, anziché “tradito”, ad esempio, sarebbe andato bene lo stesso».
«Ma non sarebbe stata la stessa cosa, giusto?».
«No, certo che no».
«In cosa sarebbe stato diverso, se posso chiedere?».
«Ad esempio avrebbe potuto portare a una diversa diagnosi della sua patologia, e quindi a un possibile differente approccio terapeutico. È sicuro, quindi, della sua scelta? Fa sempre in tempo a cambiare…».
«Sicuro, dottore. Tradito è la mia scelta».
«Bene allora, direi che per questa prima seduta è tutto». Il dottore chiuse il taccuino di colpo e spostò un poco indietro la poltrona mentre si issava in piedi. «Si faccia fissare dalla mia segretaria un appuntamento al primo giorno disponibile».
«È molto carina, sa?» gli confidò Antonio, scivolando giù dal lettino.
«Chi?», chiese Baraldi circumnavigando la scrivania.
«La sua segretaria».
Il volto del dottore si allargò in un sorriso di circostanza, poi si sedette in cattedra e prese a trascrivere gli appunti.
«Dottore?», chiamò Antonio, mentre recuperava la giacca dall’attaccapanni.
Intento a scrivere, il dottore non diede segno di averlo udito.
«È grave?».
«Alla lunga potrebbe compromettere la sua salute sia fisica sia mentale» rispose Baraldi, senza alzare gli occhi dal foglio, «ma non si preoccupi: ne verremo fuori».
«Mentale, dottore?».
«Solo di riflesso», lo rassicurò questo. Baraldi smise di scrivere, si adagiò allo schienale della sedia e prese ad avvitare la stilografica sul suo cappuccio. «Lei cerca nella compulsione del gesto una soddisfazione Altra e Alternativa a quelle cui un uomo della sua età dovrebbe dar luogo in campo socio-relazionale. Poco alla volta potrebbe portarla a isolarsi, e quindi a sviluppare una ossessione di tipo diffidenziale verso il Prossimo-Altro. Ma di tutto questo ne riparleremo la prossima volta». Baraldi gli fece un cenno con la testa, che voleva essere allo stesso tempo sia di conforto sia di congedo
«Arrivederci, dottore», salutò Antonio, ricambiando il cenno. Quindi si avviò alla porta. Si sentiva già più rilassato adesso che l’interrogatorio era finito. Gli mettevano sempre una certa ansia tutte quelle domande. Lo studio di uno psicanalista non è certamente un luogo in cui uno sogna di passare del tempo.
«Ah, signor Antonio?», chiamò il dottore.
«Sì, dottore». Una mano era già sulla maniglia.
«Le rimetta via».
Antonio abbassò lo sguardo: nella mano libera stringeva il pacchetto di Marlboro rosse.
Naturalmente ci sono molto modi di usare le didascalie, questo è solo uno dei tanti. Per non dilungarmi troppo mi sono limitato a descrivere i gesti, escludendo lunghi panegirici su pensieri, rievocazioni, stati d’animo, eccetera. Questo è stato tirato giù di getto per l’occasione, ma normalmente un dialogo è inserito all’interno di un contesto più ampio. Disporre di una storia che faccia da contorno rende la stesura del dialogo molto più semplice.
Il punto di vista adottato in questa occasione è quello di Antonio. Infatti il dottor Baraldi lo vediamo solo di riflesso, dalla vetrina della libreria, o ne udiamo il fruscio della stilografica. È interessante credo notare come nel discorso diretto dotato di didascalia si senta la necessità di dettagliare maggiormente la parte introduttiva. Non tutto il dialogo, però, è farcito di quei “disse”, “fece”, “chiese” che personalmente trovo rozzi e un poco dilettanteschi. Se il dialogo scorre bene e non si ha la necessità di sottolineare qualche movimento, una volta stabilita l’alternanza delle risposte è inutile aggiungere dettagli descrittivi.
Vale anche la pena notare come, nel dialogo privo di didascalie, i momenti di silenzio, ben illustrati dai tre puntini di sospensione, dicono moltissimo; tanto che a volerli riempire di locuzioni, nella seconda tipologia di discorso diretto, si debbono usare un gran numero di parole.
Bene, credo di essermi dilungato fin troppo questa volta, quindi mi fermo qui. Spero di esservi stato utile, anche solo per l’intrattenimento.
CONTINUA →
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Note
Entrambi i dialoghi sono frutto della mia fantasia, tutti i diritti sono riservati.
Direi utilissimo. Grazie.
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Grazie a te per la lettura, Tiziana. 🙂
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Ancora una volta tutta una questione di effetto che si vuole creare: nel primo caso si è di fronte ad un registratore e si ascolta la registrazione di una seduta (anzi, nemmeno, perchè mancano i suoni ambientali, c’è un ulteriore filtro), possiamo usare solo l’udito, in questo caso la mente del lettore è costretta a inserire gli elementi mancanti.
Nel secondo caso si osseva la scena, si vedono i personaggi, si vede l’ambiente, il lettore è costretto a operare molto meno, meno è lasciato alla sua fantasia.
Trovo il primo esempio molto più “clinico” se mi perdoni il termine 😛
Beh, resterebbe da parlare del discorso indiretto, no? 😉
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Cosa intendi con “discorso indiretto”? 🙂
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Disse che sarebbe andato lui a controllare il posto di guardia e nel caso a liquidare la sentinella, il capitano gli rispose che andava bene, ma di non fare rumore e, soprattutto, di non farsi ammazzare.
Tipo questo, ok, non sono così bravo 😀
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Questo più che un discorso indiretto è narrativa vera e propria, e va bene così. Il discorso indiretto, invece, è questo: «Hai presente don Ciccio, il parroco di Monfalcone? Ieri mi ha detto: “Tu, cara Beatrice, sei una peccatrice indefessa”. Non ti pare ridicolo detto proprio da lui?». Quello fra virgolette alte è il discorso indiretto. Oggi è fuori moda e visto con molto sospetto. Ne avevo già parlato qui: https://salvatoreanfuso.com/2015/04/10/dialoghi-che-funzionano/
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asp :O la mia maestra (oh, cosa ho imparato dopo non me lo ricordo, ma quello che mi ha insegnato la maestra sì) mi ha insegnato che il discorso indiretto è quello introdotto dal “disse che…”, e anche wikipedia (per quanto meno affidabile della maestra) dice che https://it.wikipedia.org/wiki/Discorso_indiretto :O
Nel tuo esempio sarebbe “il parroco mi ha detto che sono una peccatrice”, mentre come lo metti tu resta diretto (di secondo livello, forse o incapsulato). O sbaglio tutto? :O
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Perché il mio è un esempio di discorso indiretto libero: https://it.wikipedia.org/wiki/Discorso_indiretto_libero 😛
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Inoltre “mi ha detto” o “disse” è la stessa cosa.
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Dici così perchè sei torinese 😛
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Te, invece, sei australiano? XD
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Ecco, lo sapevo che era più complicato! Tutto è sempre più complicato di come appare! 😛
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Mestiere duro quello del commentatore. 😛
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Non male con il metodo del registratore. Dà, in effetti, la realtà di un dialogo in forma diretta. Avevo in mente un dialogo, ma se metto un registratore fuori dalle finestre, sentirei parlare le signore da finestra a finestra. Oppure, come faceva la mia mamma sulle scale con la vicina. Devo dire che piace anche a me. Mi succede di farmi due chiacchiere tra vicini oppure trovo straordinario quando sono sulle panchine in paese e dialogare , in particolare con le persone molto più grandi di me.
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Tuttavia se utilizzassi davvero un registratore come dici, per poi riprodurre in forma scritta i dialoghi rubati, ti accorgeresti che per le mani avresti solo dialoghi pessimi. Un buon narratore inventa i dialoghi per ciò che gli serve, cioè per lo scopo che si prefigge, facendoli però sembrare reali e naturali come se fossero presi proprio da un registratore. 🙂
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Pessimi perché? Per la forma? Voglio provare. Sicuramente nella stesura del testo, inventi, prendi degli spunti, non è detto che sia trascritto parola per parola ciò che potresti ascoltare nella registrazione. Aggiustare serve sempre perché ci sono delle frasi orali che non vanno bene poi nel linguaggio scritto. Esempio :
” Ue’ , ciao, come stai? Visto che roba ieri allo stadio?
“Ciao Ale, zitto, zitto che con tutti i soldi che prendono ,dovrebbero vincere almeno tutte le partite”
” Va là, sai che gliene frega di vincere,. Basta che portano a casa i soldini”
Non so se ho reso l’idea. Un dialogo reale è meno impostato strutturalmente.
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I dialoghi reali sono da spunto, ma poi devi per forza aggiustare.
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Per il semplice fatto che quando parliamo a voce con qualcuno, accompagniamo le parole con la postura, con il movimento delle braccia, con le espressioni del volto, con tutta una serie di gesti, insomma, che ci aiutano a rendere più chiaro ed esplicito quello che stiamo dicendo. A causa di questo, parliamo male. Nel senso che abbiamo un controllo molto relativo sulla grammatica, saltiamo di pala in frasca, torniamo indietro, saltiamo in avanti, ripetiamo innumerevoli volte le stesse parole e ribadiamo gli stessi concetti, ecc. Non si tratta quindi solo di correggere il dialogo quando lo si riporta sul foglio, bisogna proprio riscriverlo da capo. Provaci e vedrai. 🙂
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beh, no, pessimi no, dai, sarebbero degli ottimi dialoghi ma inutili ai fini della narrazione, quantomeno sarebbero reali.
Secondo me come esercizio per chi è alle prime armi potrebbe anche servire, almeno ci si abitua a scrivere dialoghi realistici, poi qugli spezzon potranno sempre servire allo scopo nel momento giusto.
Un po’ come gli studenti di belle arti ritraggono infiniti modelli dal vero, anche quegli schizzi non hanno nulla di artistico, ma servono ad acquisire la tecnica.
Leggo troppo spesso pessimi dialoghi, roba che se provi a leggerli ad alta voce ti si inciampa la lingua 😀
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No, non è la stessa cosa. I dialoghi rubati alla quotidianità sono letteralmente spazzatura. Non servono nemmeno come modello. Provare per credere.
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😣😣😣
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Che hai letto qualche mio dialogo quando sbraito? 😜
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Era per Grilloz questo commento, in risposta al suo che dice di aver letto pessimi dialoghi che gli fanno inciampare ( o inceppare) la lingua. Un buon dialogo con molto ritmo è quando sei un po’ arrabbiato, almeno sarebbe da provare a scriverlo. In una situazione tranquilla lo abbiamo visto. Qui i toni sono pacati.
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Non dovevi fare un dialogo da mostrare al mondo?
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Oddio, al mondo? Altro che ansia.
Guarda sotto, l’ho scritto
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mò ti leggo, ti imparo, ed aggiungo la lezione alle precedenti.
Interessante, utile e da mettere subito in uso. Grazie.
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Grazie, Nadia. 🙂
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Ho letto, riletto e riflettuto.
Il primo tipo di dialogo lascia molto spazio al lettore, che se bravo immagina la scena caratterizza da sè i personaggi e tutto il resto, il secondo tipo accompagna a rilassarsi il lettore e fa tutto con la dovuta calma. Preferisco il primo tipo, asciutto e veloce, come i nuovi programmi televisivi che ti rendono protagonista comprendendo in anticipo in base all’intuito di cui dispone. Ma per lo stesso motivo possono esser pericolosi, in quanto un lettore un pochino pigro può trovarlo troppo macchinoso, per contro poco chiaro etc, etc. Però è affascinante anche dosare ambedue i sistemi e scoprirne nuovi.
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Se lo scrittore è davvero bravo, con il primo tipo accompagna l’immaginazione del lettore nella direzione voluta. Certo, la camicia che immagino io addosso a quel personaggio sarà diversa da quella che immagini tu, ma non è poi così importante. 🙂
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esatto tutto sta nell’intento dello scrittore e anche senza camicia fa lo stesso, comunque birichino il tuo paziente con le mani nei pantaloni!
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XD
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Scrivere dialoghi secondo me è la vera prova per uno scrittore, la parte più difficile.
Il discorso con le didascalie è più piacevole da leggere, più articolato, ma io credo che in certi casi il primo tipo abbia un suo perché e perfino un certo fascino. Per esempio è più veloce, ed è l’ideale quando vuoi dare l’idea di un botta e risposta o quando due litigano. Poi lascia molto spazio al sottotesto, alle cose non dette. Scrivere un buon dialogo senza usare nessun contorno è più impegnativo, ma l’effetto può essere molto potente, a mio avviso.
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Di recente è uscito l’ottavo libro di Harry Potter; ne ho sbirciato le prime pagine e mi sono deciso a non comprarlo perché è la riproduzione testuale della piece teatrale. Se voglio leggere un romanzo pretendo che sia un romanzo. Quindi in genere preferisco i dialoghi con le didascalie. Però se all’interno di un romanzo mi fai trovare un dialogo come il primo tipo, come fa ad esempio DFW, a me va benissimo e, anzi, come dici tu può avere un certo fascino. 🙂
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Però nessuno ha detto che è un romanzo, anzi, se guardi bene la copertina c’è pure scritto “basato su una storia originale di J.K. Rowling” e “un nuovo spettacolo di Jack Thorne”. Poi ovviamente i grafici hanno messo bello grosso il nome della Rowling e più piccolini quelli degli autoro 😛
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Sì, infatti. Ho sfogliato giusto per curiosità, ma me ne guardo bene dall’acquistarlo.
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Hai detto bene nell’introduzione: il dialogo senza didascalie è più adatto al teatro e al cinema, per questo nei romanzi li ho trovati raramente, e ancor meno graditi. Mi viene in mente soprattutto “Funny Girl” di Nick Hornby, che racconta le dinamiche all’interno del cast di una sit-com e, quasi a voler ricalcare il tono televisivo, ne contiene moltissimi: alla lunga, li ho trovati un po’ pesanti. 🙂
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Immagino. DFW ne fa largo uso, ma nel suo caso funzionano bene. 🙂
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Letto. Hai ragione. Io, spesso, perdevo un po’ il filo narrativo: chi ha detto cosa? Questo, credo, sia il rischio di un dialogo tutto così
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Ma non c’erano neanche le attribuzioni?
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Io ci provo, ho scritto questo. Male che vada, almeno ho tentato.
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Mamma – A quest’ora ritorni?
Mamma – A quest’ora ritorni?
Figlia – Mamma, sono grande, non ho bisogno continuamente delle tue ramanzine.
Mamma – Sei grande solo quando ti fa comodo.
Figlia – Che vorresti dire? Non ti aiuto forse con i lavori di casa?
Mamma – Come no? Due piatti messi sul lavandino, la spazzatura che la getti un giorno sì e uno no. Non fai quasi niente.
Figlia – Niente? E la spesa? Cucinare, stirare, pulire?
Mamma – Ma smettila. Ti ricordi di aiutarmi solo quando viene quello smidollato del tuo fidanzato, buono a nulla come te.
Figlia – Studio, e ti aiuto quando posso.
Mamma – Sei una scansafatiche. Ascolti musica tutto il tempo rinchiusa in camera, esci solo per gli affari tuoi. In casa non esisti.
Figlia – Non mi piace studiare, ma tu hai scelto che dovevo farlo, che pretendi allora?
Io volevo fare l’Accademia delle Belle Arti, ma tu mi hai iscritto a medicina.
Mamma – Certo, che volevi che facessi? Tuo padre era morto e il dottore Garbati ci ha aiutato con le spese universitarie nella sua facoltà.
Figlia – E tu per compiacere il dottor Garbati, mi fai studiare ciò che non mi piace? Mai! Tutti soldi buttati.
Mamma – Che disonore! Fannullona e anche irriconoscente. Se ti sentisse tuo padre.
Figlia – Lascia stare papà. Solo per sopportati, è morto di crepacuore.
Mamma – Pure maleducata. Ecco perché al supermercato ti hanno licenziata. Con questo caratteraccio avrai risposto male a qualche cliente.
Figlia – Ci credo, mi facevano certe domande stupide. È in offerta questo? Quanto vengono quelle melanzane? Mai che leggessero le scritte sui prodotti.
Mamma – Mamma mia, come devo fare con te?
Figlia – Niente, non rompermi e andremo d’accordo, almeno finché Gianni troverà lavoro e ci troviamo un posticino per noi.
Mamma – Se è così credo che dovrò sopportarti per i prossimi quindici anni.
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La prima parte non è male, sul finale si perde un po’. Soprattutto dove, a un certo punto, la figlia accusa la madre di aver fatto morire di crepacuore suo padre, e la madre risponde con un: «Pure maleducata». Mi pare che la risposta non sia adeguata al tono dell’accusa. È un’accusa grave. Inoltre, questo battibecco, non è spassoso come invece dovrebbe essere un battibecco; ma non è neanche interessante perché non veicola alcun messaggio. Questo perché non ha un obbiettivo, non ha un luogo dove andare. Sicuramente perché l’hai tirato giù di getto per l’occasione, tuttavia come dicevo anche nel post i dialoghi devono servire per concretizzare un cambiamento di stato tra i personaggi. Questi due personaggi, madre e figlia, alla fine del dialogo invece saranno quello che sono sempre state. Non avviene nulla, quindi è un dialogo da nulla. Tuttavia, per quello che è il mio gusto, mi pare scritto bene. 🙂
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Quindi pecca di non avere un messaggio
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Be’ credo sia normale, visto che l’hai tirato giù di getto per l’occasione. Sono però sicuro che quando li scrivi contestualizzandoli in una storia ti riescono certamente bene. 🙂
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Grazie
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Allora? Commenta, critica, parla. … Vado a rifare tutto, prof?
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Prova a rileggere ad altavoce, col tono che dovrebbe avere la ragazzina in quel momento, questa frase:
“Mamma, sono grande, non ho bisogno continuamente delle tue ramanzine.” 😛
Mi sa che c’è un po’ da lavorare, ma più che altro, un po’ come dice Salvatore qui sotto (o qui sopra, non so dove andrà il commento una volta postato) sembra non portare da nessuna parte, parte dal ritardo e poi va per la tangente. Poi bisognerebbe vederlo nel contesto e chiarire (l’autore) che informazioni deve portare il dialogo, qui forse ce ne sono un po’ troppe mescolate.
😉
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L’ ho riletto ad alta voce. Non mi suona male la frase. A parte quello, il nocciolo è che non c’è un cambiamento radicale della storia, non funziona solo così, non reggerebbe. Da lavorare e migliorare è scontato. Direi se non altro è da apprezzare che ho buttato giù qualcosa.(non si sa bene cosa ). Se fosse stato facile, o fossi una geniaccia, starei a firmare autografi sopra i miei libri. Mi piace moltissimo esercitarmi anche in cose più grandi di me. Se non imparo da chi ha più esperienza, da chi devo farlo sennò?
Su, su .. che poi faranno pace madre e figlia. A farle parlare bene in un dialogo riuscito si fa sempre in tempo.
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No, la frase non suona male neanche a me, però è un po’ scontata. Nel senso che i personaggi dicono quello che ti aspetti. Prova a dare un’occhiata qui: https://salvatoreanfuso.com/2015/04/10/dialoghi-che-funzionano/
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Con calma mi leggo tutto.
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Guarda, è come studiare luna lingua, finchè studi sui libri ti sembra tutto facile (beh, insomma, non proprio) però la impari solo parlando con la gente, e per farlo devi buttarti e non avere paura di sbagliare. Quindi fai benissimo 😉
Oh, poi, per chiarire, io sono cintura nera di lettura, ma di scrttura, beh, ecco…
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Scusa ho digitato due volte la prima frase
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A me piace molto il metodo del registratore, cambiare il ritmo usando le parole dei personaggi anziché le didascalie del narratore.
Detto questo, anch’io non ho comprato il nuovo Harry Potter per i tuoi stessi motivi. Ci sono storie che non possono essere ridotte a un pugno di battute.
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Perfettamente d’accordo. 🙂
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Entrambi i dialoghi, che poi sono uno, sono bellissimi, alla faccia della difficoltà di essere fuori contesto. Devo dire che però il primo è parecchio ambiguo… in fondo, la struttura è teatrale, ma mancano pure le indicazioni agli eventuali attori, quindi il lettore, per essere sicuro di capirlo bene, avrebbe bisogno di vederlo recitato.
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Grazie, Irri. Il primo è progettato per essere ambiguo. Così da darmi la possibilità, nel secondo, di svelare l’arcano delle sigarette. L’ambiguità serve anche a mettere maggiormente in evidenza le differenze fra i due modelli. Ora, il mio è un dialogo modesto perché sono uno scrittore modesto, ma quando a scriverlo è DFW – anche lui lo scrive come il modello uno, quindi senza gestualità – riesce comunque a veicolare benissimo l’immagine che voleva trasmettere. Ma siamo su altri livelli. 🙂
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Modesto o no, la tua prosa mi piace, quindi, almeno per me, funziona.
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Nel primo caso il dialogo è tipico del dramma e non va bene per un racconto o romanzo. Non l’ho mai trovato in narrativa, e non mi piacerebbe leggerne uno strutturato a quel modo, coi nomi dei personaggi a inizio frase.
Riguardo ai verbi da usare, ogni tanto ci vanno, appunto per dare movimento e mostrare anche le azioni dei personaggi.
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David Foster Wallace lo usa, e anche molto bene. Ma non siamo tutti come lui, purtroppo. 🙂
https://it.wikipedia.org/wiki/David_Foster_Wallace
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Però DFW (almeno nella scopa, infinite è ancora in lista) lo usa in modo intelligente, riporta così com’è la trascrizione di una registrazione dichiarando all’inizio che di quello si tratta. Non saprei se qualche autore abbia usato un dialogo così proprio come dialogo puro.
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No, quello neanch’io. Ma non si può mai sapere. Tuttavia anch’io ho messo l’incipit alla Wallace: PARZIALE TRASCRIZIONE SEDUTA 770-01-4266, GIOVEDÌ 26 AGOSTO 2016, STUDIO DR GIACOMO BARALDI, PARTECIPANTI: DR. G. BARALDI E PAZIENTE A: SESSO MASCHILE, ANNI 36. 😛
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Mi correggo, l’ha fatto Baricco in Smith & Wesson (però forse è proprio una sceneggiatura, boh) prova a sbirciare l’anteprima su amazon 😉
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Quella è proprio una sceneggiatura, ce l’ho a casa. In Lessico editoriale, alla voce Baricco, mi riferivo proprio a quello (ma non solo). 😛
https://salvatoreanfuso.com/2016/09/14/lessico-editoriale/
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allora tocca che qualcuno lo faccia 😛
Io ci avevo pensato tanti anni fa, ma prprio tanti, anzi, era una cosa ancora più complicata. Però rimase tutto nella mia testa e ora me lo soo pure un po’ dimenticato.
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Lei ha ancora un frattale da scrivere. 😛
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Intende il post o proprio il romanzo?
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Proprio la seconda.
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e mica lo so se sono capace :O
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E ma se non ci provi come fai a saperlo?
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provoci, provoci, appena viene l’idea giusta
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Ho pensato alla funzione del dialogo di cui parlavamo ieri. Il dialogo didascalico è una forma teatrale, cinematografica come stile.
In un film, in una pièce teatrale al finale c’è una conclusione, un cambiamento c’è.
Happy end o no, comunque c’è una trasformazione della storia iniziale.
Non la vedo nei nostri testi.
Ora ho capito cosa volevi dire riguardo all’evoluzione della storia dei personaggi. Alla fine i personaggi non saranno come all’inizio. Non è però facile farlo in un estratto, ma è chiaro che non stiamo scrivendo un copione intero.
Quindi per far smuovere i personaggi in questo breve dialogo, dobbiamo stringere la storia. Quello scritto da entrambi può anche non essere terminato.
Anche solo di poche battute. Io parlo del mio.
Sarebbero pure bastate altre poche battute in piu’ come:
Figlia – Ah sì, non mi sopporti? Se è per questo nemmeno io.
Mamma – Allora vattene.
Figlia – Me ne vado.
Scordati di avere una figlia.
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Esatto, essendo un estratto adoperato come esempio non si pretende che sia rappresentativo.
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Sappi che non do per vinta. Prima o poi te lo ribecchi un altro dialogo da valutare. Sono una testa dura. Finché non mi riuscirà bene, non mollo.
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È una minaccia? XD 😛
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Direi una “dolce avvertimento”. 😁😁😛😛
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Inquietante… XD O.O
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Tranquillo. Di solito non mordo. Sono di una dolcezza quasi stucchevole come carattere. Poi si cresce e lo zucchero lo usi più per addolcire il caffè. Però una buona scorta di dolcezza e tranquillità c’è sempre. 😊😁
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Grazie per i suggerimenti,ottimo articolo 🙂
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Grazie Claudio, benvenuto nel mio blog. 🙂
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Discorso diretto 1, pur essendo ben leggibile, mi ha lasciato lì a chiedermi “Ma di che accidenti sta parlando? Se ci fosse una descrizione, forse lo capirei!”
Discorso diretto 2 è quello a cui tendono tutti, credo. E’ quello che preferisco da lettore e quindi quello che cerco di scrivere. Sul discorso indiretto invece…giusto leggendo dei racconti di Confidenze (non tuoi) vedo che c’è la quasi totale mancanza di dialogo, a favore di discorso indiretto. Uno in particolare era solo racconto in prima persona e solo descrittivo, dialogo zero. Questa cosa mi ha lasciato un po’ di dubbi. Un racconto senza dialogo, siamo sicuri??
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Il dialogo 1 è volutamente ambiguo per permettermi di svelare “l’arcano” solo nel secondo dialogo e di calcare un po’ di più le differenze fra le due tipologie. In altre parole: l’ho fatto apposta. Tuttavia, non è tanto importante l’oggetto in sé (cioè di cosa si parli), quanto l’ambiguità stessa. È quella la cosa difficile da eseguire.
Il format di Confidenze è quello che hai letto nella loro rivista. Io comunque i dialoghi nei racconti che vendo loro li metto. E tendono a essere anche cospicui. Qui puoi trovare degli esempi tra i miei incipit. Non tutti cominciano col dialogo, ma qualcuno sì.
https://salvatoreanfuso.com/category/pubblicazioni/
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Ciao Salvatore, grazie per questo articolo, mi è piaciuto molto.
Sono un grosso fan dei dialoghi senza “sintagmi di legamento” (che suona come una brutta cosa al ginocchio), e mi sono anche andato a (ri)leggere il precedente articolo collegato. Continuo però a non capire bene questa parte: “[…] il cambio di relazione fra i due dialoganti. Se capite questo, vi posso garantire che non avrete mai difficoltà a scrivere dialoghi. Se io dico una cosa a Caio, Caio da quel momento in avanti non sarà più il personaggio di prima. Qualcosa il lui, o fra noi, si sarà modificato.” Hai qualche esempio pratico da fare? Qualche link per approfondire questo aspetto?
Ti ringrazio e ti saluto, Simone.
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Ciao Simone, benvenuto nel mio blog e grazie per i complimenti. Per rispondere alla tua domanda: sì, certo, basta aprire un buon romanzo. Ad ogni modo voglio provare a spiegarmi meglio. Dunque, se il personaggio A dice al personaggio B: «Sai, ieri sera sono andato al cinema», e il personaggio B gli risponde: «Hai visto un bel film?». A: «Sì, certo». Ecco, questo è un dialogo da non inserire in un romanzo o racconto, perché non aggiunge nulla al rapporto tra i due. Se invece il personaggio A dice al personaggio B: «Sai, ieri sera ho invitato Giulia a vedere un film», e il personaggio B gli risponde: «Giulia? Davvero? … e… e lei c’è venuta?». A: «Sì, certo». Ecco che tra i due personaggi non solo c’è stato uno scambio d’informazioni importanti, ma la dinamica dei rapporti fra loro da quel momento in poi (visto che dobbiamo immaginare che B abbia un qualche tipo di interesse nei confronti di Giulia) non sarà più lo stesso. Ti sembra un po’ più chiaro così?
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Grazie, mi sembra molto chiaro così. Quello che mi chiedo è se sia sempre possibile che un dialogo porti a un cambio di relazione tra coloro che parlano; sembra arduo mantenere questo tipo di livello per un romanzo intero. In ogni caso, penso che i dialoghi debbano essere significativi al fine dello sviluppo della trama (o per tratteggiare la psicologia di un personaggio), non riempire spazio e far perdere tempo al lettore… Grazie ancora.
Non so se rientra fra i tuoi piani, ma a un certo punto credo che sarebbe utile raccogliere e riorganizzare tutti questi articoli di aiuto (grammatica, scrittura, ecc.) in un bel e-book.
Ciao, Simone.
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Perfetto, sono contento. L’e-book non è tra i miei piani. I dialoghi andrebbero scritti solo così. Se non si possono scrivere così, meglio non inserirli. A quel punto è più proficua la narrazione descrittiva. In fondo ci sono romanzi costruiti senza neanche un dialogo. 🙂
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