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Avevo solo dodici anni quando in una splendida sera di agosto, in vacanza nella nostra casa di campagna, mio padre mi aiutò a catturare con un barattolo di vetro alcune delle lucciole che, come tante stelle ondeggianti, si alzavano dall’erba alta del nostro campo. Diversamente da quello che mi aspettavo, acchiapparle non fu difficile. Col vasetto aperto ci sbracciammo ruotando su noi stessi. Quindi, ridendo come matti, coprimmo in fretta l’apertura con la mano. Attraverso il vetro, con sguardo meravigliato, osservavo quelle minuscole scintille pulsare di vita. Sembravano piccole fate fosforescenti. Chiudemmo il barattolo con il tappo e appoggiamo il vasetto sul mio comodino. Mi addormentai osservando le luci intermittenti fluttuare nel buio. Il mattino dopo quel barattolo conteneva solo minuscoli esserini scuri adagiati sul fondo. Per l’assenza d’aria erano tutti stecchiti. Assaporai il mio primo senso di colpa.

In una scansia nel nostro soggiorno, dietro una vetrina polverosa, mio padre conservava una vecchia Canon. Ogni volta che vi passavo davanti mi fermavo a osservarla. Mi affascinava quel grosso occhio centrale. Mi incuriosiva quella levetta a rotella posta accanto al pulsante di scatto. La sua forma squadrata, con quell’anima di pellicola fumé nascosta al suo interno, mi faceva pensare a una scatola magica capace di fermare il tempo. La sera prima avevo pensato di utilizzarla per immortalare le lucciole. Il mattino dopo era già troppo tardi.

Da allora ho sempre pensato che fotografare qualcuno non fosse diverso dall’imprigionare lucciole in un barattolo. Quello che potevo fare, allora, era dare all’immagine catturata un respiro. Per farlo dovevo essere brava. Vasi, fiori, bambole, cappelli, vestiti, strade, palazzi, perfino le nuvole: chilometri e chilometri di pellicola adoperata per immortalare i soggetti più svariati. Passai molto tempo con la macchina fotografica in mano, l’occhio premuto contro l’obbiettivo. Nemmeno una volta mi azzardai a fotografare qualcosa di vivo.

All’età di tredici anni mio padre mi regalò un manuale di fotografia che aveva trovato in una bancarella dell’usato. L’autore era un certo Francisco Saez. Io volevo una macchina fotografica tutta mia. Mio padre pensava che il mio fosse solo un interesse momentaneo. Quel libro lo divorai!

… continua sul numero 34/2016 di Confidenze

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Note

Interrompo la pausa estiva solo per segnalarvi l’uscita del mio nuovo racconto su Confidenze. Se stesi sulle vostre sdraio non avete nulla da leggere…

8 Comments on “Come lucciole in un barattolo”

  1. Considerando che per la maggior parte del tempo io mi sento come una lucciola in un barattolo, direi che hai decisamente catturato la mia attenzione 😉 Se non per il fatto che a me la macchina fotografica ha sempre suscitato l’effetto contrario. Invece che dare respiro ne togliesse. Esseri animati, o inanimati, nessuna differenza. Molto bello comunque 🙂 Buona giornata

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    • Grazie, Simona. Siamo abituati a immaginare le foto come immagini statiche ferme nel tempo. Visto in questo senso, fotografare qualcosa è proprio come mettere quel soggetto in un barattolo, riempirlo di formalina e dimenticarsi di lui. Ma alcuni soggetti sono come gli uccelli: non sono nati per stare in gabbia e volano liberi anche all’interno di una foto. Quali e come dipende forse da te. Buona giornata. 🙂

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