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Profezie condivise

Bisogna essere pacifici eremiti
che dalle loro celle si lanciano messaggi
per annodare le proprie solitudini

Andrea Temporelli

Quando non si ha nulla da dire si sta zitti, è così che sono stato educato. Poi c’è chi parla, e tanto, anche e soprattutto quando qualcosa da dire non ce l’ha. Non è il caso di Andrea Temporelli, alias Marco Merlin, che in un’intervista curata da Davide Brullo e apparsa su La voce di Romagna il 18 giugno scorso, dichiara: «la poesia italiana è morta […]. La poesia italiana non esiste più. So che agli altri la mia affermazione sembrerà un proclama pretestuoso e riciclato, mentre per me è un’evidenza, una considerazione ovvia».

Se è vero che la poesia italiana è morta, è anche vero che non tutte le “morti” vengono per nuocere. Io di poesia però non me ne intendo, e quindi sto zitto. Ma il fatto di stare zitto non significa che (io) non esista. Non significa nemmeno che non possa, nel silenzio, maturare un’idea. Dunque, quantomeno, ci sono molti tipi di silenzio. Alcuni di essi sono addirittura proficui: è proficuo stare in silenzio se non si ha nulla da dire, altrimenti si finisce per fare figuracce; è proficuo il silenzio riflessivo, quello che precede un enunciato, il quale permette di meglio raccogliere le idee; è proficuo perfino il silenzio di protesta, quello che rimbomba per l’assenza di parole e che serve ad attirare l’attenzione. La domanda che a questo punto sorge spontanea è: la poesia italiana è morta, o sta solo zitta? Forse, in questa nostra epoca postmoderna, i poeti nostrani non hanno nulla da dire; forse stanno raccogliendo le idee per urlare più forte; forse la poesia è morta (di una morte apparente) per meglio attirare l’attenzione. Qualunque sia il destino della poesia italiana, dopo un silenzio riflessivo, Andrea Temporelli è tornato a urlare:

«I fatti crudi sono questi: i pochi maestri del Novecento sono nel frattempo morti; i presunti eredi si sono ridotti a manichini, dal momento che con gli anni si sono sfilati da soli la spina dorsale, come dimostrano i loro libri sempre più sbiaditi; quelli dell’opera comune si sono dissolti come neve al sole, senza lasciare testi capaci di incidere e senza creare le condizioni perché un’eventuale opera capace di lasciare il segno fosse quantomeno inoculabile nel corpo della tradizione, ridotto ormai a cadavere inerte. I più giovani? Una masnada indistinguibile di belle faccine o di tigrottini carini, buone per le passerelle nei festival estivi. A dispetto di queste mie parole, comunque, io resto pieno di speranza e di vita, mi guardo intorno con tranquillità, continuo a cercare cellule di condivisione».

Ma chi è Andrea Temporelli? Direttore di Atelier dal 1996 al 2013, ha pubblicato con Einaudi  Il cielo di Marte (2005), con Il Ponte del Sale Terramadre (2012), con Guaraldi Tutte le voci di questo aldilà (2015) e, naturalmente, il libro che vedete in calce: Smarcamenti, affondi e fughe con Giuliano Ladolfi Editore (2016).

Tesi a scrivere qualcosa che piaccia, che venda, che susciti plausi e stima, ammirazione ed elargizioni spesso dimentichiamo la vera funzione della scrittura. Ci parliamo addosso senza avere nulla da dire, e passiamo il tempo che avremmo potuto impiegare in una silenziosa riflessione, a invidiarci reciprocamente i miseri successi individuali. L’idea che piano piano mi sono costruito è che, esclusi gli usi professionali, la scrittura letteraria non possa essere intesa come un mestiere vero e proprio, quello del romanziere o del poeta nell’immaginario popolare, ma piuttosto un richiamo proteso a incontrare uomini e donne dotati di una sensibilità e di un immaginario simili ai nostri. Arroccati nei confini individuali, lanciamo sordi richiami nella speranza che inciampino in un’ombra gemella. È così che mi è giunto questo libro.

Smarcamenti, affondi e fughe è una raccolta di editoriali apparsi su Atelier nei numeri diretti da Andrea Temporelli, più alcune lettere (nel senso letterale del termine, e mi scuserete il gioco voluto di parole) indirizzate a personaggi famosi. Benché gli editoriali siano più difficili da digerire per chi, a suo tempo, non ha seguito la rivista, sono le lettere ad aver attirato la mia attenzione. Andrea si fece carico di un sogno: la creazione di un’opera condivisa (semplifico). Nel 2013, quando ha lasciato Atelier per ragioni che non approfondiremo, si è smarcato passando a una profezia privata.

Lasciando da parte il discorso sulla poesia che non mi compete, non perché ci stia riflettendo né per attirare l’attenzione, ma piuttosto perché al suo riguardo non ho davvero nulla da dire; è sull’opera condivisa e sulle profezie private che invece vorrei esprimere un parere. Per farlo mi rivolgo direttamente ad Andrea. Dunque:

Caro Andrea,

c’è stato un tempo recente in cui ho sognato la fondazione di un piccolo, cazzuto gruppetto di giovani e talentuosi scrittori, affamati di notorietà, tesi a sfondare le barricate ostili erette da chi occupa gli scalini più elevati. Al momento, e al seguito della lettura del tuo libro, ma era un’idea comunque in fase di maturazione, immagino invece un gruppetto di arzilli quarantenni che, voltando le spalle all’immagine del professore di lettere (o dell’impiegato) con domenicali aspirazioni letterarie, in un mondo in cui scrivere per vivere è impensabile, raccolgano l’unica eredità davvero buona rimasta al mondo delle lettere: affondare la parola scritta nelle terga dei dinosauri e dei loro apostoli per il solo gusto di farlo; perché farlo è divertente; e farlo assieme, come picareschi spadaccini all’ombra di un immaginario Richelieu, è semplicemente più esaltante: lo so, sono una cattiva persona. La mia ex, che non amava leggere ma era una donna sagace, diceva sempre che i successi sono tali solo se hai qualcuno con cui condividerli.

Ciò che più di ogni altra cosa mi trovo ad odiare, non sono gli scrittori arroccati nei loro castelli di potere, i quali danno vita a macchiette semmai divertenti da osservare e non fanno altro che ribadire un cliché di cui, credimi, non sapremmo fare a meno, ma quei lamentosi svenevoli fantozziani scrittori incompresi, che passano buona parte del loro tempo a scrivere opere mediocri, giustificandosi non per la loro sapidità, ma per l’irriconoscimento sociale. Se da un lato non c’è spazio, dall’altro non mi ci metterei. Tuttavia di passare del tempo a vivere senza scopo, una vita fuori dalla pagina scritta, non ne ho voglia. Ciò che mi esalta è la sfida verbale, è l’autostrada imboccata nel cuore della notte per ritrovarsi assieme a ridere dei successi e degli insuccessi reciproci. Ho letto le tue lettere, lo so che anche tu sei una personcina davvero davvero cattiva: «[…] smettiamola di essere complici dei nostri becchini. Sperperiamo il nostro talento: saremo degli splendidi guastafeste». Solo che il mio modo di “sperperare” non può che trascendere ogni morte.

Con stima.

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Note

Se questo libro possa rappresentare una lettura utile ai fequentatori tipici di questo blog, è una domanda che mi pongo da quando l’ho avuto tra le mani. In tutta sincerità non so rispondere. Non è narrativa e non può insegnarvi a scrivere (anche se…), ma non è nemmeno un saggio. È una raccolta postmoderna di testi vivi e veri, scritti da uno scrittore, poeta, critico, uomo, marito, padre… non sul “magico mondo dell’editoria”, ma all’interno di esso. Leggerlo non farà di voi scrittori migliori (anche se…) né uomini migliori (semmai il contrario); tuttavia potrebbe aprirvi gli occhi su quello stesso mondo che vorreste sfondare per approdarci a piedi giunti. Volete davvero farne parte? Ecco, forse questo libro può tentare di rispondere. Quindi fa per voi nella misura in cui quella domanda ve la siete già posta, e nella misura in cui preme con forza sulla vostra pelle.

Vi lascio con un piccolo estratto:

«Anche Rondoni di strada ne ha fatta molta. Non lo leggo più in libricini dalla vita davvero “clandestina” tra gli scaffali delle librerie del centro. Esce ormai da Guanda, con un librone che vince premi a destra e a manca. E non lo dico con invidia: sono solo un po’ stordito da modi e tempi, mi sembra di trovare acclarato, nella repubblica delle lettere, solo ciò che ha già fatto corso. Si battezza la novità quando è anestetizzata. Siamo tutti fuori tempo».

Sarebbe stato facile, visti i tempi, proporvi un estratto della lettera indirizzata a Moresco…

45 Comments on “Silenzio dalla Repubblica delle Lettere”

  1. Che cosa strana trovare questo post! Ladolfi editore è la casa editrice più vicina a casa mia (la sede è neanche a un km, cosa che, abitando in un paesello, non è comunissima) e conosco l’editore, a lungo preside del liceo locale. Però lui era preside dello scientifico e io ho fatto il classico dalla concorrenza e forse questo mi ha creato una certa incapacità a comprenderne il pensiero. Non ho letto questo libro e la critica letteraria in sè mi è difficile da comprendere (sempre colpa del classico, covo di strutturalisti). Non sono un’esperta di poesia, ma non mi sembra morta, anzi. La poesia più che la prosa ha bisogno di tempo per stabilire la propria importanza, per far capire quando un testo ha la forza per restare. Nel mio piccolo qualcosa di intenso l’ho letto in questi anni, poi si vedrà se avrà la forza per restare. Per quanto riguarda la prosa non ho capito, credo, bene il discorso. Mi sembra che sia normale che emerga gente che ha fatto gavetta (Guanda per altro ha fama di casa editrice proprio attenta al passato di un autore, a me non sembra un male…). Se poi si vuole cambiare le cose, allora proviamoci, invece che rimanere a piangere o a criticare. Come dici tu, smettiamola di essere complici dei nostri becchini!

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    • Credo che Andrea si riferisca più al sistema editoriale che non all’opera in quanto tale. Magari lo conosci, Davide Merlin. Vive a Vercelli se ho capito bene.

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      • Conosco un altro Andrea Temporelli che scrive saggi storici (in effetti all’inizio del post pensavo che si trattasse di lui e che mi fosse sfuggita una sua pubblicazione, ma mi sono accorta che non si parlava di stregoneria…)

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  2. Io penso che la poesia non sia morta, ma abbia assunto nuove forme coerenti con una realtà culturale emergente: essendo spesso trasposta in musica (e potrei citare numerosi cantautori degli ultimi cinquant’anni che possono essere considerati poeti) diventa più facilmente fruibile dalle persone. Certo, perde la propria aura. Diventa un prodotto culturale destinato a un ampio numero di persone e non più una lettura destinata a un’elite di menti colte. Cambiano anche le modalità di fruizioni: le “poesie” non si leggono più, ma si ascoltano, come nei tempi antichi. Forse è anche per colpa delle canzoni se la prosa ha surclassato i versi, in letteratura, perché gli individui possono concedersi ciascuno la propria dose di poesia quotidiana…

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  3. Caro Salvatore, ti ringrazio per la lettura e le considerazioni. Magari troverò il modo e il tempo di risponderti, adesso però lascio decantare tutto. Intendo: i libri che ho scritto, ma anche, in generale, me stesso. Mi sembra però utile ribadire subito al volo un paio di possibili fraintendimenti. 1) L’opera comune, ovvero il contesto generale che ho cercato di creare ai tempi della rivista, non era da intendersi come l’ennesima avanguardia che vuole “rottamare” gli altri e pretendere spazio, ma come un luogo di resistenza e di esistenza, che mantenesse saldo il valore letterario al di là del riconoscimento sociale e del mercato. Un presupposto, insomma, per l’azione letteraria di ciascuno; un modo perché la scrittura non venisse intercettata, deviata, storpiata dalle logiche del sistema, ma affondasse le radici nella tradizione, unico terreno dove può esistere vera innovazione. 2) Un atteggiamento lamentevole non mi appartiene, né credo che caratterizzi ciò che ho scritto. Ho sempre pensato che invece di lamentarsi occorresse darsi da fare. Ho sempre creduto nel lavoro. Solo che pensavo di aver dato vita a un cantiere, mi sono trovato solo a scavare nel deserto. Per questo dall’opera comune sono passato alla profezia privata. Ma, come tu hai ben capito, non smetto di cercare di intrecciare la mia solitudine con altri percorsi. In questo senso, anche la morte della poesia va intesa bene. Io mi sento come uno che brancola al buio, ma ha la sensazione che da qualche parte un interruttore ci sia, e non troppo distante. Prima o poi qualcuno ci farà compiere un balzo d’epoca (forse questo si intuiva, dall’intervista completa da cui hai citato: http://www.andreatemporelli.com/2016/06/24/dormite-nella-pancia-di-matrix/).
    Il fatto, in definitiva, è questo: siamo già in una nuova epoca, anche se pochi lo capiscono, anche se non è facile liberarsi dei vecchi pensieri, anche se non è semplice adattare i vecchi strumenti alla costruzione di cose nuove…
    Basta, devo lasciar(mi) decantare, dicevo…
    Ma sono lieto di aver intercettato, dal mio eremo, la tua fratellanza.

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    • Hai fatto bene a fare queste precisazioni, Andrea. Il pericolo, quando si scrive un post come questo, è di venire fraintesi dai lettori. Loro non possono conoscere quello che io ho solo intravisto e che tu conosci invece bene, e infatti i commenti si sono concentrati molto sull’affermazione che “la poesia è morta” e non sul perché una tale affermazione è stata enunciata. La colpa è del narratore (io), che non sa spiegarsi.

      Anch’io devo fare una precisazione. Nell’articolo postulo la formazione di un gruppo che si diverta a svellere il sistema a ciocchi o ciuffi. L’immagine è suggestiva e mi diverte, soprattutto quella degli spadaccini picareschi che, come tanti don Chisciotte, anziché combattere con i mulini a vento, lottano con i tanti Richelieu presenti in Italia. Questo, però, non prescinde la natura principale dello scopo: preservare il valore letterario. Insomma, la mia intenzione non è semplicemente quella di sbracciarmi per trovare posto nella folla, ma fare in modo che la folla si svegli e abbandoni determinati meccanismi.

      Altresì sono contento di avere un nuovo fratello.

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  4. La poesia non credo che sia morta, ma credo che sia in uno stato moribondo.
    Lo è già da un pezzo. Tutti i poeti del Novecento sono dei moribondi, anche i nobel e coloro che riteniamo grandi. Ad esempio l’Ottocento è il crepuscolo della poesia. La coda alta che annuncia il buio.
    Io non ho mai creduto a una poesia d’elite. Chi dice che la poesia si debba affermare fra pochi perché la massa non può comprenderla, credo che si sbagli.
    Ogni arte, per essere sulla cresta deve essere popolare. Se non è popolare e si rinchiude nelle stanze muore.
    E la poesia lo è stata, è stata popolare per millenni. Fra noi umani, l’arte della poesia ha rappresentato l’anima dei sentimenti. Da Omero a Pindaro, dai romani sotto mecenate e dintorni al medioevo e rinascimento, la poesia è stata popolare. Era una poesia colta, profonda nell’indagare i drammi dell’uomo, ma anche burlesca, irriverente, d’intrattenimento. Spesso la ha assunto anche funzione sociale o di ribellione.
    Ma già nell’Ottocento la poesia è al crepuscolo perché per quanto Leopardi, Belli, Whitman (solo per citare nomi esaustivi), siano dei pesi massimi, nella popolarità vengono surclassati dai romanzieri.
    Nel Novecento la poesia è un’arte che desta minore interesse, quasi nullo.
    Basta provare a chiedere in giro se qualcuno conosce i titoli di tre poesie di Montale o di Quasimodo, per comprendere quanto la poesia sia inesistente nella nostra società.
    Io la poesia la ritengo moribonda per questo. Esiste ancora, ma viene letta e apprezzata da dagale superstiti, supernicchie di pochi. E io confesso che non sono fra questi.
    Riguardo alla lotta editoriale, i moschettieri che si armano contro Richelieu, è molto suggestivo, direi subito uno per tutti e tutti per uno.
    Però come sai nel mio pensiero la vera ribellione non è andare di cappa contro l’editoria. Ma ignorarla proprio. Pensare a Richelieu come a una statua di gesso e andare oltre, fare da sé, senza editore.
    Per millenni gli scrittori hanno fatto a meno degli editori, perché non possiamo fare da soli in una versione amplificata dagli strumenti moderni.
    Il self publishing è la rivoluzione. 😉
    Anche perché basta analizzare la realtà dei fatti. In qualsiasi contratto editoriale che mi sia capitato a tiro la sostanza è una soltanto. Non c’è cultura, non c’è voglia d’arte. In tutti i contratti editoriali si legge espressamente (o implicitamente) che l’autore cede i diritti di sfruttamento economico dell’opera. Sfruttamento economico dell’opera. L’editore richiede questo per contratto.
    La natura e lo scopo degli editori è far soldi vendendo libri. Nulla di immorale e di sbagliato ci mancherebbe. Anzi qualcosa di normale. Ma smettiamo di ammantare nella pubblicazione dei libri i termini di arte e cultura. Ci sono pure certo, ma dopo il business.

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    • Lo scrittore cede i diritti di frutamento economico all’editore perché da solo non è (non lo sarebbe in buona parte) in grado di amministrarli. Io mi ci rivedo parecchio in questo. Lascio che ognuno, nella propria specializzazione, svolga il proprio ruolo. Se, però, tu ritieni di poter essere un bravo editore, ecco io a te affiderei volentieri i diritti di fruttamento della mia opera, cosicché tu sfrutterai lei, l’opera, e io sfrutterò te, l’editore. Ci stai? 🙂

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      • Nemmeno se mi paghi amico. A ciascuno il suo, l’importante è che si abbia sempre la consapevolezza di quali sono gli attori in scena. Solo così si evita di combattere i mulini al vento. 😉

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  5. Io vedo in campo letterario un livellamento verso il basso consapevole e voluto, con il solo scopo di difendere il poco che si vende (sia da editore che da autore). Ovvio che chi inizia a scrivere lo prende ad esempio e ci si butta a corpo morto.

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  6. Un bel post, Salvatore. Il dibattito è così sfaccettato e complesso che qualsiasi cosa si dica si rischia di avere torto e ragione allo stesso tempo, dunque non mi avventuro, non mi sento all’altezza.

    Io ho sempre letto poesia, ho sempre avuto un’attrazione magnetica per questa scrittura così difficile (la metrica, la musicalità… andrebbero usate anche in narrativa) che smuove sentimenti profondi, vasti, quasi ancenstrali. Ecco perché anche se è una forma di scrittura così “condensata” non ha presa al nostro tempo che pur vive così veloce, perché i nostri tempi vivono di sentimenti superficiali e frenetici, di storie lette fra una stazione della metro e la successiva, schivando le gomitate dei vicini e tentando di ottenere da quella storia tutto e subito. Una poesia va invece meditata per giorni, a volte mesi, una poesia la puoi capire anche dopo una vita.

    Per questo penso che non sia la poesia a essere morta, e neanche i poeti. Sono i lettori a essere in coma, profondo. Anni fa mio figlio mi fulminò con una battuta: leggendo qualcosa sui lupi gli dissi che si pensava che in Italia fossero ormai estinti, e lui mi disse che forse non erano tutti morti, eravamo noi che non li vedevamo più. Ecco, sono i poeti che sono morti o siamo noi che non li vediamo più?

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  7. Sul fatto che la poesia contemporanea (italiana) sia morta o viva (che è cosa diversa dal dire: se ne scrive/legge poca o molta) spero si espongano persone che abbiano un minimo di dimestichezza, gente insomma che non solo ha letto (oltre la scuola) i vari Montale, Zanzotto, Luzi, Sereni, Giudici, Raboni ecc., ma che abbia letto (intendo: letto libri, non qualche verso qua e là; vale la stessa logica dei narratori), che so, sparo a caso, Cucchi, Viviani, De Angelis, Gualtieri, Valduga, Magrelli, Mussapi, D’Elia, Conte… e poi qualcuno degli autori più giovani (qui cito qualcuno non della mia generazione, ma di quella precedente): Ceni, Iacuzzi, Rondoni, Dal Bianco, Benedetti, Anedda, Riccardi…
    Sul fatto che la canzone non ci azzecchi nulla con la poesia (con tutti i rapporti, le contaminazioni possibili) a me basta quanto ha scritto sul tema Umberto Fiori, ex cantante degli Stormy Six e oggi poeta, tra i più validi di oggi. Altrimenti, ricadiamo nelle solite confusioni (la poeticità diffusa e comprensibile, e persino vendibile, non è la poesia).

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      • Umberto Fiori ha scritto diversi saggi, e libri, in proposito. Sul mio sito, se cerchi il tag “Poesia e canzone”, arrivi anche all’archivio di “Atelier”, con alcuni saggi in merito. Prima o poi riorganizzerò alcuni post con questi materiali sul sito, ma per ora il tema della “generazione” occupa già abbastanza spazio.

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  8. 1) Poesia:
    Questa mattina avrei scritto alcune considerazioni, riprendendo anche un po’ quello che ha scritto Chiara più sopra (del resto la poesia è nata in musica, il professore di greco di mio padre usava “cantare” le poesie in greco sostenendo che così venivano recitate all’epoca), però dopo aver letto l’intervento di Andrea penso resti poco da aggiungere.
    Aggiungerei solo quella che è stata la mia espereinza personale, ho avuto la fortuna di avere avuto dei professori di lettere che la poesia me l’hanno fatta capire, apprezzare e amare, professori che mi hanno saputo spiegare il valore e il funzionamento della metrica, la musicalità delle parole, la melodia di fondo. E così all’epoca ne scrissi anche io, in metrica, perchè mi pareva il modo più adatto di farlo.
    Oggi ho la sensazione che molti pensino che fare poesia significhi scrvere parole “melodiose” andando spesso a capo.
    Poi purtroppo i programmi sono ampi e il tempo limitato e in genere non si va oltre i primi del novecento, avrei dovuto contiuare da solo da dove loro si erano dovuti fermare, ma come sai ho preso una strada un po’ diversa 😛

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  9. 2) gruppo/caffe/moschettieraggio/pirateggio letterario.
    (e qui concedimi di dividero in due sotto argomenti separati)
    a) hai prenotato in pizzeria?
    b) l’idea di un comelovogliamochiamare letterario è un’idea affascinante, interessante, e le nuove tecnologie lo renderebbero anche abbastanza semplice da realizzare, ma quello che le nuove tecnologia non possono fare è dargli sostanza, le nuove tecnologie possono solo offrire un luogo degeograficizzato dove incontrarsi.
    Questo comelovogliamochiamare per nascere e svilupparsi ha bisogno di un’idea di fondo attorno a cui silupparsi, dalla quale nutrirsi altrimenti finirebbe col limitarsi ad essere un gruppo di amici che si incontrano per una pizza (cosa nobilissima, ma che ssi può fare anche senza pretesti letterari) e da quell’idea di partenza bisogna sviluppare una poetica e da li costuire un manifesto, e poi scrivere roba, non solo romanzi e racconti, ma anche, boh, analisi critiche? saggetti? boh?
    Insomma non basta dire noi siamo il comelovogliamochiamare degli autori esclusi e vogliamo trovare il nostro spazio, bisogna dire noi (esempio) aborriamo (e qui volendo ci si può mettere una locuzione più colorita) lo show don’t tell ci ha rotto i … nelle nostre opere noi diremo sempre senza mai mostrare!
    Ecco, non so se sono stato spiegato (come si diceva un tempo a Zelig) 😛

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    • P.S. gruppi avrebbero pututo nascere attorno alle scuole di scrittura, l’avrebbe potuto fare Barrico con la Holden, o Mozzi con la sua bottega, ma mi pare che gli alievi una volta usciti seguano ognuno la sua strada, forse fa qualcosa in più minimum fax attorno alle sue iniziative collaterali. Il timore, insomma, è anche che “noi” siamo un po’ troppo piccoli per raggiungere una massa critica.

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    • Be’ tu ipotizzi già l’istaurazione di una avanguardia critica. Io voglio solo divertirmi a prendere a scudisciate verbali i dinosauri e i loro apostoli. Due cose ben diverse. 🙂

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  10. Concordo con Chiara, la poesia non è morta e possiamo trovarla spesso nei testi di alcune canzoni. Basti ricordare il poeta Bob Dylan, cantante, poeta, scrittore e tanto altro.

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    • La provocazione di Dylan (Bob) poeta è vecchia di parecchi decenni, ormai. Siamo fermi agli stereotipi. E parla uno che non disprezza affatto la canzone, e che spiega la poesia al ginnasio partendo da un’antologia di canzoni scelte dai ragazzi. Ho il dubbio che molti parlino di poesia senza conoscerla. Io non chiederei mai un parere sulla vitalità del romanzo italiano a chi ha letto Verga Pirandello Calvino. A scuola, ovviamente. Scusate l’osservazione, non fraintendete il tono, non vorrei sembrare duro. Solo: preciso. Non si tira con l’arco sulla testa di chi si ama a occhi chiusi.

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  11. Non so dire se la Poesia è morta o sta zitta. Semplicemente la Poesia (con la P maiuscola) è lontana da me. Di sicuro ne sono responsabili gli insegnanti che mi sono capitati nel cammino scolastico, che per primi non mettevano particolare enfasi nel proprio lavoro (se trasmetti che la Poesia è noia ad un pubblico adolescente, sarà difficile per loro cambiare messaggio poi). Ha ragione chi dice che la Poesia si è riversata nella Musica rendendola popolare quanto in tempo antico (adesso il problema è spiegare che San Martino è di Carducci, non di Fiorello…) Poi penso al motivo perché io non legga poesia ma preferisca romanzi: la prima mi costringe a pensare, interpretare, analizzare e non ha mai una sola definizione (a volte “vuol dir tutto e non vuol dire niente” e ognuno ci vede altro), mentre un romanzo è una storia completa (o lo dovrebbe essere), con un inizio ed una fine, personaggi e concetti definiti, un percorso dove l’autore mi ci accompagna tenendomi per mano, senza lasciarmi divagare. Perciò il secondo risponde di più alla mia voglia di evasione dentro le pagine.

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    • Anch’io non mi sono appassionato alla poesia, ma il mio insegnate era validissimo. Era propietario della Pentarco (una piccola casa editrice che credo esista ancora) e grazie a lui mi sono invece interessato di storia. Forse non ero semplicemente portato per la poesia. 🙂

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