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Diario di un romanzo

*** Questo articolo è tratto dai miei appunti di “viaggio” sul romanzo in stesura. ***

Il concetto di viaggio, ci tengo a sottolinearlo, se associato alla figura del romanziere e alla stesura di un romanzo solo raramente riguarda una vera e propria escursione. In quel caso, di norma, si tratta di libri che hanno la forma dei diari di viaggio o guide turistiche. In tutti gli altri casi il viaggio è un volo pindarico alla scoperta del nucleo fondamentale di una storia, della sua vera essenza. Gli appunti che seguono sono molliche lungo il percorso.

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«Al momento della nascita gli esseri umani sono dotati di generali potenzialità, che li rendono capaci di vivere una esperienza culturale, ma sicuramente non nascono già pronti per vivere in una cultura particolare».

Ralph L. Beals e Harry Hoijer, Introduzione all’antropologia culturale, il Mulino – 1987

In un ambito differente da quello precedente, mi imbatto nuovamente nel termine «cultura». Prima si parlava di famiglia, di parentela e dei modi in cui società diverse dotate di tradizioni culturali differenti intendono queste due cose e di conseguenza si organizzano. Adesso si sta parlando di infanzia, di educazione e di formazione della personalità. Il modo in cui in entrambi i casi viene tirata in ballo la «cultura» pare fare intendere che non esiste nulla di definito, di naturalmente giusto, come ad esempio l’istinto; nel caso dell’uomo è la tradizione che si è andata costituendo, generazione dopo generazione, formando così un sostrato culturale, a costituire un elemento indispensabile non solo all’organizzazione, ma anche, e forse soprattutto, allo sviluppo di quelle competenze necessarie a permettere a un individuo di far parte di una determinata società. Ma la «cultura» per sua natura, benché si formi da una base certa (le tradizioni), non è qualcosa di statico: in una società viva e vitale essa è un continuo divenire.

«Cultura o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la moralità, il diritto, il costume o qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro di una società».

Edward B. Tylor, Primitive culture, Londra 1871

A differenza delle altre specie animali, persino delle scimmie antropomorfe, che «dimostrano una notevole regolarità di comportamento» [Beals e Hoijer], a seconda della tradizione culturale di appartenenza i gruppi umani mostrano una larga varietà di comportamenti, che possono differire anche notevolmente: le abitudini nel campo dell’alimentazione, ad esempio, sia per il genere degli alimenti sia per il loro accostamento sia per il modo in cui vengono consumati; le abitudini che concernono il vestiario e gli ornamenti; gli usi che regolano il comportamento reciproco. E via dicendo.

Gran parte del comportamento umano non è regolato dall’istinto, come avviene per le altre specie animali, ma appreso. E tutto ciò che è appreso può anche evolvere e cambiare. La cultura si apprende. E la si apprende a partire dalla prima infanzia:

Se «da un lato gli individui debbono imparare le abilità necessarie a soddisfare i bisogni della vita materiale, e il comportamento necessario per condurre la vita sociale nel gruppo; dall’altro tutte le culture incoraggiano o premiano certi tipi di personalità individuali, e ne scoraggiano altri».

Beals e Haijer, Ivi p. 521

Ma dove mi conduce tutto questo? Ciò che mi interessa non è il concetto di «cultura» in sé; piuttosto rientra nel mio interesse prendere una determinata cultura in un preciso momento storico – come se si potesse isolare un singolo fotogramma di una lunga pellicola ancora in movimento – e inserire in essa degli elementi di disturbo. Elementi collegati al concetto di «famiglia».

Nota: l’unica tradizione culturale che rientra negli interessi di questo
romanzo è quella occidentale.
Nota: il fotogramma storico di riferimento riguarda il decennio che va 
dalla fine degli anni settanta (esclusi) all’inizio degli anni novanta 
(esclusi) dello scorso secolo.

Parlare di anni Ottanta, anche se di per sé è molto evocativo, appare però limitante. Cronologicamente un decennio ha una data di inizio e una di fine. Ma se prendiamo in considerazione gli usi e costumi, le mode, l’evoluzione tecnologica, i cambiamenti sociali e economici, perfino i fatti storici – in una parola: la «cultura» – di una determinata società in un determinato periodo storico, allora i confini cronologici appaiono labili e insoddisfacenti.

A un certo punto, almeno per quanto riguarda l’Italia proprio a partire dagli anni Ottanta, è successo qualcosa al concetto di cultura occidentale, almeno nelle sue manifestazioni più evidenti. La cultura pare non essere più, da un lato, qualcosa che si tramanda in modo più o meno statico da una generazione all’altra, pur contemplando dei piccoli balzi in avanti; dall’altro, non è più qualcosa che ha confini ben definiti, quelli nazionali; infine, non è più qualcosa di relegato a un’élite. A partire, a mio avviso, dagli anni Ottanta si assiste a uno sdoganamento verticale del concetto di cultura, che diventa sia alla portata di tutti sia un fenomeno da esplorare come si esplora un ricco banchetto sia un miscuglio caotico di influenze e scambi tra tradizioni culturali anche molto lontane fra loro:

«[…] al giorno d’oggi non è più tanto facile distinguere una élite culturale da quelli che si trovavano più in basso nella gerarchia culturale sulla base di vecchi indicatori, come ad esempio la presenza assidua ad opere e concerti, l’entusiasmo per tutto ciò che è considerato “arte alta” in un determinato momento, e l’abitudine di storcere il naso nei confronti di “tutto ciò che piace alla massa, come una canzone pop o la televisione popolare”».

Zygmunt Bauman, Per tutti i gusti, Laterza 2016

Benché sia più evidente oggi, l’emancipazione della massa (e di conseguenza l’abbassamento della cultura) ha avuto inizio almeno nella forma più eclatante a partire dagli anni Ottanta, in Italia, sull’onda dei consumi e di una ricchezza (almeno all’apparenza) più diffusa.

Nota: approfondire l’analisi della società italiana negli anni Ottanta.

La cultura si tramuta in una tavola imbandita su cui tutti piluccano in modo caotico:

«[…] come degli “onnivori”: nel repertorio del loro consumo culturale c’è spazio tanto per l’opera quanto per l’heavy metal o il punk, per “l’arte alta” come per la televisione popolare, per Samuel Beckett come per Terry Pratchett».

Z. Bauman, Ivi p. 6

Tuttavia, non serve a nulla osservare questi cambiamenti con sguardo critico; essi sono solo un’altra fase dell’evoluzione sociale.

Nota: non è interesse di questo romanzo spingersi alle conseguenze più 
estreme di questo concetto, ben visibili nella società contemporanea.

35 Comments on “Il concetto di cultura”

  1. Ricostruire il clima culturale, la mentalità, le idee di un periodo storico diverso dal presente è sempre un’impresa ardua, specialmente considerando come sia talvolta difficile analizzare anche i nostri tempi. Spesso la più grande insidia è la proiezione, anche involontaria, di idee e concetti nostri in un’epoca che ne era priva o li concepiva in un altro modo. Lo so perché da tempo cerco la maniera migliore per raccontare una storia ambientata un secolo fa. Lì la differenza è ancora maggiore.

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    • Credo che sia ancora più difficile quando il periodo storico che si va a raccontare non è così lontano dal nostro, il rischio di dare per scontate cose che sono arrivate dopo è altissimo. Ancora ammiro Murakami per aver scritto negli anni 2000 un romanzo ambientato negli ’80 senza aver fatto errori (almeno errori che io abbia potuto notare, e ci ho fatto attenzione).

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    • Dipende anche dalle fonti che hai a disposizione e da quanto sei disposto ad andare a fondo. Per mia fortuna le fonti che mi necessitano sono numerose e ho dalla mia tutto il tempo che la vita mi può concedere. Non mi fermo fino a quando non sono soddisfatto.

      Per quanto riguarda la proiezione mentale del presente nel passato, ho notato che se si inseriscono un paio di idee moderne, magari in modo leggermente velato, in un contesto passato questa manovra facilita l’immedesimazione con i lettori. Quindi non è un problema, anzi è indispensabile. Ad esempio, se tu volessi raccontare l’uomo del medioevo così com’era, probabilmente quel personaggio risulterebbe antipatico a tutti e tutti avrebbero difficoltà a immedesimarsi. Questo perché quella mentalità lì è troppo lontana ormai da noi.

      Eco nel Nome della rosa ha fatto la stessa manovrava. Guglielmo da Baskerville e il suo aiutante sono personaggi molto molto moderni.

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      • Anche questo è vero. Diciamo che è un problema di equilibrio, bisogna badare molto alle dosi e non rendere l’inserimento troppo evidente. Per riprendere l’esempio del romanzo di Eco, è vero che Guglielmo è molto moderno, ma l’autore riesce a calare così bene quella modernità nel personaggio, che alla fine è perfettamente credibile.

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  2. E tutto ciò per una nevicata?
    Comunque tutto questo parlare di cultura e di istinto mi ha fatto tornare in mente un racconto/romanzo che avevo pensato un po’ di tempo fa, tiro fuori il foglio dal cassetto della memoria, sopra c’è un’idea (originale? non so, lo spero) un’immagine e una voce. Rimetto il foglio nel cassetto, mancano ancora troppi elementi 😀

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  3. P.S.
    “il decennio che va dalla fine degli anni settanta (esclusi) all’inizio degli anni novanta (esclusi) dello corso secolo”
    Mi piace quando i letterati giocano con la matematica, ma occhio che l’anno scorso Lagioia mandò in tilt metà della comunità intellettuale con una frase che più o meno suonava come: sicuramente non aveva ancora raggiunto i quaranta anni, ma doveva averne più di trenta.
    😉

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  4. Mi è piaciuto molto questo post, anche perché conosco bene l’argomento, in quanto di questo mi sono occupata per la prima tesi di Laurea, quella triennale. La definizione che ai tempi avevo usato come guida, era quella del sociologo Edgar Morin, anch’essa coniata negli anni ’80: “La cultura è l’insieme dei riti, dei miti e dei simboli che strutturano una collettività”. Pertanto, per dirla in modo banale, “Beautiful” e “La grande bellezza” hanno il medesimo “status” di prodotto culturale, ma una diversa collocazione in una scala qualitativa che tiene conto di altri parametri. Questo concetto, mi aiuta a definire il “frame” del romanzo, che come il tuo si svolge in un’epoca ben precisa, il primo decennio del nostro secolo. Quindi comprendo tutto il lavoro che stai facendo per conoscere e approfondire le caratteristiche di una data epoca. è impegnativo, ma molto affascinante. 🙂

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      • L’argomento della cultura torna in entrambe le tesi, ma soprattutto nella tesina, quella triennale, che però affrontava l’argomento in merito alle fiction televisive. Unico problema: non ho più il file elettronico. Posso farti delle copie e spedirtela per posta se vuoi. 🙂

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      • Avevo risposto a questa domanda dal cellulare, però c’è stato qualche problema perché vedo che il mio commento non è stato pubblicato. Comunque ti dicevo che non ho più il file elettronico, ma posso spedirti il cartaceo, se vuoi. Avevo parlato di “prodotto culturale” confrontando due soap-opera, “Beautiful” e “Vivere”, una americana e una italiana. Era la tesina triennale. Quella di Laurea Specialistica l’avevo fatta sulla fruizione cinematografica. Anche lì avevo affrontato l’argomento, ma in modo più marginale. Mi ero però focalizzata molto su Bauman, in particolare sui nonluoghi (le multisala). Erano venute circa 300 pagine.. un romanzo, praticamente. 🙂

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  5. A me non convince la tesi secondo la quale gli anni ’80 siano un punto di passaggio in cui la cultura statica si atomizza sotto miriadi di influenze.
    E trovo anche approssimativo Bauman (e sì non riservo reverenza e rispetto nemmeno per i grandi, che tipaccio che sono) quando dice che i vecchi indicatori non sono più sufficienti per distinguere le elite culturali.

    Perché il mio quadro storico e il mio ragionamento attingono a fonti che non collimano con quanto detto.
    Innanzitutto il popolo ha avuto sempre un livello culturale importante. E spesso la distinzione con le elite è data soltanto dall’ignoranza dei poveri (impossibilitati a leggere e scrivere) con i dotti.

    La cultura popolare è sempre stata parecchio accentuata. Anzi quella che noi oggi chiamiamo cultura d’elite è essenzialmente una cultura popolare.
    Le tragedie e le commedie greche che noi consideriamo roba d’elite, erano opere destinate al popolo grezzo. La stessa divina commedia non era un’opera riservata all’elite dei dotti, ma appunto, con scandalo per i dotti, scritta in volgare, per il volgo. Il popolo si riuniva nelle chiese per ascoltare il prelato che leggeva e spiegava i versi di Dante.
    E’ vero che ad esempio Poliziano si rivolgeva all’elite più colta delle corti, ma è anche vero che nel ‘500 esplode la commedia dell’arte, che a sua volta trae origini dai menestrelli medievali (vedi Fo).
    Per noi il dotto Goldoni, in realtà scriveva e si faceva comprendere dalle masse. Idem Moliere, che otteneva successo nelle fasce alte così come nelle fasce basse. E che dire della musica classica e lirica che rientrava nel gusto degli aristocratici, dei borghesi e del popolo minuto.
    Nella stessa letteratura il grande Dickens, era popolare. E che dire di Dumas, che da autopubblicato del suo tempo, riletto oggi avrebbe bisogno di due editor affiancati, è un classico per noi, ma scrittore da popolino nel suo tempo.
    E nell’arrivare fino a noi posso testimoniare l’arte dell’opera dei pupi, così travolgente per secoli nella Sicilia popolare. E che dire del teatro dialettale. Io conosco quello siciliano dove Martoglio, Capuana, Verga e Pirandello si dilettavano in commedie e tragedie per sale riempite dal popolo. Pirandello comincerà a creare opere per elite solo dopo il successo popolare.
    E citiamo ll’ultima arte, il cinema. Tornatore con Nuovo Cinema Paradiso echeggia l’impatto dei film nella società popolare. E Sciascia quasi morente, alla proiezione del film, commosso, nel rivedere la sua infanzia diceva è tutto vero, era così.
    Negli anni Sessanta e Settanta, più degli Ottanta abbiamo l’internazionalizzazione della musica con i Beatles, e gli altri gruppi e cantanti.
    Insomma cercare di cogliere i passaggi di transizione degli anni ’80, è molto arduo, perché ogni epoca storica ha avuto le sue transizioni e per noi contemporanei è difficile poter intelligere. Quel che era popolare diventa elite per le generazioni successive.
    Ad esempio è robaccia tutta quella interpretazione critica che addita Berlusconi per l’avvio del trash in tv.
    Intellighenzia da 4 soldi. L’arte popolare è sempre stata piena di ammiccamenti trash se rapportati al relativo periodo.
    A mio giudizio possiamo calarci nel clima di quegli anni, per averli vissuti, o perché vengono analizzati. Ma voler comprendere l’onda culturale degli anni ’80 senza tenere conto delle onde analoghe in ogni epoca e in ogni tempo, è come voler osservare al microscopio delle cellule di un albero e dire, però, guarda come funziona un albero ai nostri giorni.

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    • Condivido il tuo ragionamento, ma credo tu parta da un equivoco di fondo: sia Bauman sia Eco, per citarne due, non pongono un opposizione aristocratico/borghese per indicare nei primi un gusto elitario e nei secondi un gusto popolare. Con cultura di massa entrambi indicano una certa tipologia di cultura, che prescinde dalla classe (o meglio dipende dalla classe solo fino al punto in cui l’appartenenza a una classe pone all’individuo l’accesso a determinati mezzi senza i quali non può formarsi un gusto “elitario”). Negli anni ottanta però succede qualcosa, succede che la classe popolare si arricchisce più di quanto non sia mai stato prima e quindi, grazie a questo, gli si apre l’accesso alla fruizione di un determinato tipo di cultura che prima gli era negata. Per spirito di emulazione decide di approfittarne e si appropria della cultura elitaria che in effetti non gli apparteneva, nel senso in cui non rientrava nelle proprie tradizioni. Solo che la cultura “elitaria” quando si apre alle masse diventa inevitabilmente cultura di massa. Lo diventa per via del tempo di fruizione. Infatti se oggi tutti noi possiamo andare all’opera, a teatro, o leggerci Proust ancora pochi sono quelli fra noi che possono dedicare a queste attività un tempo molto lungo. La differenza la fa proprio il tempo: è diverso scorrere rapidamente i quadri di una mostra o fermarsi davanti a ognuno di essi per dieci minuti interi; è diverso leggere libri a ripetizione o fermarsi a ragionare su ogni singola frase per tutto il tempo che è necessario a eviscerarne in profondità il senso. Detto questo, anche il popolo aveva una propria tradizione culturale, ben distinta da quelle delle classi più agiate ma non per questo meno importante. Infatti quello che sia Bauman sia Eco, pur partendo da presupposti diversi, indicano con cultura di massa non riguarda affatto la tradizione culturale degli strati più bassi della società, la quale è a sua volta vera cultura, limpida, meritevole, importante. Ciò che loro indicano con cultura di massa è la cultura elitaria (cioè quella delle élite) abbassata al livello delle masse. Per intenderci, certe tradizioni culturali popolane della Sicilia sono cultura nel senso più profondo e elevato del termine, non appartengono cioè alla definizione di cultura di massa anche se non sono detenute dall’élite. Hai ragione, per altro, a dire che quello che viene considerato originariamente cultura popolare (e fai giustamente i nomi di Goldoni, di Moliere di Dante) è poi divenuta cultura di élite e, infine, tornata al popolo, ma in tutto questo io non scorgo alcuna incoerenza, se non la bellezza del continuo riflusso storico. 🙂

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      • Infatti proprio all’inizio dell’articolo ho scritto: «Ma la «cultura» per sua natura, benché si formi da una base certa (le tradizioni), non è qualcosa di statico: in una società viva e vitale essa è un continuo divenire». 🙂

        La cultura non può essere statica; è sempre un continuo divenire.

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        • Sì, su questo siamo d’accordo.
          Più che altro io vedo con fastidio chi oggi inneggia la cultura d’elite, snobbando la cultura popolare. In quanto la tradizione che lui considera d’elite in realtà in massima parte si fonda sulla cultura popolare.
          Per intenderci, sputare addosso a Volo, e inneggiare l’alta letteratura, equivale a sputare a Dickens o a Dumas. Questo non significa che Volo diventerà un classico. Questo significa che le elite spesso hanno una visione snobbistica di ciò che è alto e basso. E quando indico queste elite, mi riferisco a quei circoli di lettori colti, ai critici d’elevata caratura, a certi ambienti editoriali che sputano la sentenza se piace a molti vuol dire che fa schifo. Eh no, il grande Shakespeare al Globe Theatre lo andava a vedere il popolo e lui scriveva per il popolo.

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  6. Mi sono un po’ persa nel post, ma mi sono riconosciuta appieno nell’ultima definizione, dato che ascolto metal e opera lirica, leggo Beckett e (il grandissimo) Pratchett.

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  7. Mi sono persa sia nel post che nei commenti, però l’immagine della cultura come tavola imbandita a cui ciascuno può accedere e spiluccare mi piace molto.

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