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Estranei al parco

Sbocciata la primavera ho preso l’abitudine di concedermi una pausa dalla grammatica. A pochi metri dal mio ufficio sorge un piccolo polmone verde: un grosso giardino situato nel cuore di piazza Adriano. Aiuole a forma di soffici seni, sormontati da pini e abeti, con alcune sghembe panche di legno disposte a cerchio. È poco frequentato. Ci vanno solo nugoli di piccioni, i cani con i loro due-zampe appresso e un gruppetto esiguo di folli: una signora che canta a voce alta filastrocche montanare, un signore che legge incurante La Stampa, un ragazzo di colore che prega in privato, un’avvocatessa in tiro, e il sottoscritto. Da tre settimane è qui che passo le due ore del pranzo. Anziché lo stomaco, ho scelto di nutrire il cuore e l’intelletto.

Il ragazzo di colore ha l’abitudine di sedersi in un angoletto appartato, protetto dall’ombra che gli alberi riversano su di lui e dalla riservatezza offerta dalle siepi. Essendo egli stesso scuro di pelle lo si distingue a fatica. Non saprei indicarne la nazionalità, ma veste all’occidentale: jeans blu, t-shirt colorata, felpa aperta, scarpe bianche da ginnastica. L’ho sempre visto seduto: quando arrivo è già lì, quando vado via si trattiene ancora. Tiene spesso lo sguardo basso. Le mani conserte abbracciano un rosario. Le labbra gli si muovono appena, ma rapide appresso a una sua orazione. Chissà per chi prega, mi sono chiesto. Forse per se stesso; forse per qualcuno rimasto all’estero; forse per tutti noi. Mi piace pensare che preghi per noi. Che approdato in Italia, al seguito di una promessa, sia rimasto sconcertato dal nostro stile di vita. Noi ci abbiamo fatto il callo, ma per chi viene da fuori il nostro mondo deve sembrare il fatidico “inferno in terra”.

La signora mi si è avvicinata un paio di settimane fa. Passetti rapidi in mezzo alla polvere. Stavano potando gli alberi e rasando le aiuole. Nel mezzo della caligine me la vedo apparire. Mi guarda in tralice e prosegue impettita. Si siede sulla panchina accanto: gambe strette, spalle rigide, viso tirato, sguardo attento. Nella sua espressione noto un guizzo furbesco, come di un animale selvatico che fiuti un’occasione. Ho finto di ignorarla. Pochi secondi dopo, forse delusa, si è spostata a una panca di distanza; poi a due. Era palesemente inquieta. A un certo punto si è tirata su di scatto, e rapidi passetti l’hanno allontanata da me. Si è azzardata fino al confine del piccolo parco e da lì ho udito la sua voce cristallina alzarsi in un canto intonato che non so riconoscere, ma che alle mie orecchie suonava come un’antica filastrocca montanara. Sono rimasto folgorato dalla sua voce. L’ho ascoltata finché ho potuto. Da allora la incontro tutti i giorni. Non si avvicina più, ma canta sempre. Riflettendoci, penso non volesse disturbare la mia lettura.

Il signore ha l’aria di un pensionato a caccia di solitudine. Veste in tono dimesso, un po’ sbracato, ma lo distingue una nota altera. Quando arrivo è già lì, e tiene gli occhi fissi sul giornale aperto. Non parla, non si muove, forse respira ma non ci giurerei. Quando mi appresto ad andarmene, di solito è già sparito. È così silenzioso che non lo noto mai andare via. In alcuni momenti ho pensato si trattasse di un’illusione, forse di una rivelazione sul mio futuro. Ma l’altro giorno, sorprendentemente, l’ho visto arrivare. In effetti mi ero stupito di non averlo trovato. Era accompagnato da un uomo più giovane: stessa posa altera, vestito bene, occhiali tondi. Hanno condiviso la stessa panchina. Il vecchio ha cominciato a leggere il giornale. Il ragazzo guardava davanti a sé, senza soffermare lo sguardo su nulla. Come se stesse espletando un compito noioso: di chi aspetta il proprio turno in una sala d’attesa. E allora ricordo di aver pensato che forse il vecchio non era a caccia di solitudine – come me ad esempio – ma di compagnia. Quando sono andato via, erano ancora lì.

L’avvocatessa è una figura tipica all’ombra del Palazzo di Giustizia che s’innalza a pochi metri dal giardino. Ne vedo tante da quelle parti, e sembrano tutte uguali: tailleur scuro, camicetta bianca, collant neri, scarpe col tacco. Hanno capelli solitamente pettinati di fresco. Trucco modesto ma intrigante. Profumo di soldi, in alcuni casi tanti, mesciato a melliflui effluvi di libidine controllata. Sono ancora donne? Non saprei dirlo. Forse dovrei verificare, ma ho sempre paura di beccarmi una denuncia per molestie. Di sicuro spargono attorno a sé sentori di potere, di denaro e di rapace sessualità. Ma l’unica cosa che i miei occhi riescono a cogliere è un’incontenibile solitudine. L’avvocatessa siede sola. Occupa l’intera panchina. La cartellina, in prezioso budello bovino, ozia accanto a lei. Indossa spesso dei pantaloni di cotone. La camicetta è troppo aperta. Attorno al collo e alle dita luccica dell’oro. Fuma con gesti nervosi. Forse prega anche lei… Ma per chi? Per tutti noi? Per un imputato che gli ha affidato la propria sorte? Per se stessa…? Non mi piace immaginarlo, ma è quello che penso: per se stessa. Forse dovrei invitarla a cena.

E poi… poi ci sono io. Parlando di me, ho un’altro ricordo che riguarda i giardini di Torino. Un ricordo legato al padre di mio padre. Quando ero ancora piccolo, mio nonno aveva l’abitudine di passare i pomeriggi in un giardino vicino casa. A volte mi passava a prendere. Era solito portarsi dietro un giornale, che sfogliava con attenzione. Poi, intimandomi di andare a giocare con gli altri bambini, attaccava bottone con i vicini. Non era insolito osservare perfetti sconosciuti occupare la stessa panchina. Non era insolito che perfetti sconosciuti parlassero fra loro senza che nessuno li avesse presentati. Mio nonno è morto da un paio di decenni.

La differenza più grossa che noto tra le due immagini, il giardino che ho preso a frequentare e quello frequentato da mio nonno molti anni fa, è che nel mio gli estranei non siedono mai vicini, e non scambiano mai una parola. Il vivere urbanizzato ha esiliato la solitudine senza sostituirla con la compagnia. Siamo degli estranei, incapaci di ridurre le distanze. Spesso lo siamo anche fra le mura di casa. Forse è arrivato il momento di prenderci una pausa da noi stessi.

65 Comments on “Il lusso della pausa”

  1. È pericoloso incontraare uno scrittore al parco, si rischia di essere trasformati in personaggi 😉
    La chiusura lascia molto da pensare, è vero, nelle città ci siamo circondati di gente per tener lontane le persone e chiuderci nelle nostre solitudini. Abbiamo smesso di essere animali da branco per chiuderci nelle nostre gabbiette.

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  2. Mi ricordo anche io che da piccolo era frequente, anzi era abitudine, attaccare bottone con persone sconosciute. Adesso succede che è facile farlo sui social, ma nella realtà, che è quella che conta, nessuno si sogna di farlo.
    Un tempo capitava che vedevi un bambino e gli facevi una carezza (l’ho fatto anche io tantissimi anni fa), adesso invece te ne guardi bene dal farlo, con tutto quello che senti in giro. Rischi una denuncia o un linciaggio.
    Adesso parlano tutti di socializzazione, ma è solo virtuale, perché nella vita reale siamo sempre più estranei.
    Se chiedi aiuto su Twitter o Facebook, tutti ti danno una mano. Se lo chiedi per strada, gli stessi si girano dall’altra parte.

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    • Fatto di cronaca recente conferma quanto dici. Mi riferisco alla ragazza del rogo. Non ho seguito la vicenda, ma mi pare che avesse chiesto aiuto prima del tragico epilogo. I social costituiscono un filtro dalla realtà: siamo diventati così sensibili da dover guardare il mondo attraverso delle lenti?

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  3. Ok, adesso che sappiamo il luogo, lunedì prossimo io e Grilloz arriviamo al parco col solo intento di disturbare con campanacci e petardi la tua pausa pranzo! 😀

    Però in realtà io non sono convinto della tua chiusa sulla solitudine.
    A me pare evidente che in quello scenario urbano ci sia una solitudine universale. Siete una galassia di persone troppo distanti.
    Ma metti che in piazza ci fossero due vecchietti. E’ probabile che le loro orbite ruoterebbero fino a collidere in un approccio sui tempi andati quando ancora…

    Idem bambini. Uno gioca, l’altro si avvicina a guardare e l’innesco è breve.

    Idem ancora se sulla panchina di fronte alla tua si sedesse una bella ragazza con un libro in mano. Il viso pulito, le labbra dolci che si distendono facilmente in un sorriso. E tu a quel punto, dalla tua lettura sbirci.
    Cosa legge? Un romanzo.
    Dentro te scommetti che sia una robetta commerciale alle 50 sfumature.
    Ma invece ti sorprendi che fra le mani tiene un Franzen.
    E come in una danza di pudore lei alza lo sguardo nell’istante in cui tu abbassi il tuo.
    E ogni giorno quando arrivi, lei è già lì. Solo che va via un po’ prima di te. Ti scorre davanti e tu calamitato con l’attenzione, mentre ti domandi dov’è che va ogni giorno, quale sia la sua orbita, ti soffermi a guardarla lì dove ogni uomo si sofferma quando una donna cammina di spalle.
    E poi prima o poi succede che la vostra solitudine allo specchio si frantuma. Succede sempre con un libro che scivola di mano a un passo dai tuoi piedi e tu lesto che lo raccatti e lo porgi. Solo che lo stringi un attimo di troppo fra le dita. “Franzen, questo l’ho letto anch’io” — anche se menti spudoratamente.
    E lei invece indica il tuo di libro, “Infinite Jest, io pure l’ho letto — anche se mente il doppio spudoratamente, chi diamine legge Infinite Jest.

    Insomma, galeotti sono i libri e chi li ha scritti… 😀

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    • Pensa se sbirciando il libro scopri che la donna legge proprio il tuo, di romanzo. Allora sì, che te la batti a gambe tese. XD

      Scherzi a parte, la tua ricostruzione è molto romantica e come tutte le storie romantiche: molto fantasiosa. Non capita praticamente mai. Non in una grande città. Potete smentirmi, naturalmente. Per quanto riguarda i vecchietti, forse al sud è ancora così ma al nord… non più. Almeno nelle grandi città. Sui bambini è più probabile che la curiosità, la purezza nei rapporti sociali ancora non inquinati da invidie timidezze diffidenze, e la voglia di giocare prevalgano. Ma quei bambini crescono in un ambiente di adulti… Finiranno per esserne rovinati. Insomma: sono cinico e catastrofico.

      Sia Infinite jest che Purity sono nel mio elenco di letture. Prima o poi… 🙂

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      • Sì dai è vero, c’è molta più diffidenza fra le persone.
        Viviamo in contesti che ci portano all’alienazione. Anche qui al sud.
        Io per fortuna vivendo in un piccolo paese vicino alla città, assaporo ancora il piacere di recarmi al panificio e trovare quel rapporto cordiale. O nella piccola bottega d’alimentari dove il macellaio dietro al banco ti domanda se la fettina appena tagliata è da consumare in loco o da portare via. O magari ti sconsiglia di comprare il suo pollo in quanto è arrivato dalla multinazionale e ha il sapore della plastica.
        Certi paesini sono ancora enclave dove i rapporti umani sono più vivi.
        Io provo a essere ottimista perché detesto il pessimo da deriva… 😉

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  4. Io devo portarlo scritto in fronte che sono una persona che ama la chiacchiera, perché ovunque vada c’è sempre qualcuno che attacca a parlare con me e io interagisco con piacere. E, a scanso di battute ovvie, non sono uomini che fanno i provoloni, ma quasi sempre anziani che hanno voglia di raccontarsi e io amo ascoltarli.

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  5. Questa è una storia vera, giusto?
    Non verosimile al massimo livello, come al solito? 😀

    Ormai con te c’è da stare attenti, mi hai fregato più di una volta!
    La cosa più bella del tuo parchetto è che non c’è una persona normale (tu incluso).
    Chissà se anche gli altri si interrogano su quel che ci fai tu lì. “Guarda quello, viene ogni giorno, da solo, col panino e un libro. Un libro… chissà cosa leggerà… non vedevo uno con un libro da anni, avrà rotto il tablet?”
    😀

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    • Lo è, è una storia vera. Verissima. Di più. Tutto vero verissimo: l’uomo di colore che prega col rosario, l’avvocatessa sexy, il pensionato col figlio scazzato, la donna che canta filastrocche montanare con voce intonata… tutto vero! Persino io, sono vero… verissimo! XD

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  6. Ma se a questo punto vi dicessi che invece è tutto vero? Che quelle persone esistono davvero? Che ho personalmente sentito la voce della signora innalzarsi incredibilmente melodiosa nel mezzo della mia pausa pranzo, roba da Italia’s GOt Talents? Che l’uomo di colore lo potete incontrare voi stessi se solo aveste voglia di andare tutti i giorni al parco nell’ora di pranzo? Perfino il rosario, il rosario è vero! Non potevo crederci, siamo così abituati ad associare la figura dell’immigrato con i mussulmani che alla fine non ci rendiamo conto che fra loro ci sono anche dei cristiani, e forse perfino degli atei… Solo l’avvocatessa sexy… ecco, questo lo devo proprio confessare, l’avvocatessa sexy è una mia invenzione. Diciamo, una speranza. Una speranza libidinosa… Invece il pensionato che legge il giornale, be’ quello ci sta in tutti i parchi, no? 🙂
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    Forse…

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  7. Ho visto anch’io una volta un immigrato pregare nei giardini di Bologna, la vecchietta che dà da mangiare ai piccioni e la ragazza che fa yoga.
    È vero nei centri urbani spesso prevale la solitudine, però a volte basta poco, magari cominciare a parlare per primi. Spesso però si ha paura di disturbare o di essere guardati come alieni e si rinuncia.

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    • La ragazza che fa yoga al parco la vorrei vedere anch’io… Tra l’altro da un paio di mesi ho cominciato a fare yoga. Sono un perfetto neofita, intendiamoci. E la cosa che mi ha impressionato di più è che il numero di partecipanti maschi è di gran lunga superiore a quello del gentil sesso. 😦

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  8. Io oggi ho visto più personaggi di quanti potrei immaginare e peggio conciati di quanto potrei descrivere.
    Non vedo l’ora di tornare sulla costa tra i procioni, non sono più abituata alla vita di città.
    Traffico, stress e pericoli ovunque, nonostante Vancouver sia votata tra le città più vivibili del mondo.
    Ti ho pensato Salvatore, a quanti spunti avresti trovato per i tuoi racconti.
    C’era una ragazza (grassa e pallida) con i collant rosa, le giarrettiere e la gonna a tutù talmente corta che si vedevano i rudelli sotto le chiappe. Aveva lo zaino rosa (gonfio e sporco) e i codini a boccolo (rosa e bianchi).
    Sul marciapiede c’era un senza tetto, stava seduto in mezzo al passaggio e reggeva il cartello “Smile”. Imprecava e malediva tutti, ma con un gran sorriso.
    Poi è passata un’altra ragazza (magra ma pallida) con i pantaloni stile fuseaux anni 80 bianchi e neri a scacchi grandi, però a metà coscia il pantalone spariva in un sottile filo che saliva in verticale, bah come spiegarlo, praticamente questa era mezza nuda, ma dalla coscia in su.
    Mi sento molto anziana oggi. (Ne sono un po’ felice)

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