Caffè Le Roy

È una domenica mattina. Me ne sto appollaiata su un tavolino del Café Le Roy, in via Verdi a Torino, a osservare dalla vetrina il via vai di gente sul marciapiede. Non c’è un gran via vai, e anche il caffè è piuttosto tranquillo. Manca un quarto alle undici quando dalla porta entrano un uomo e una donna, silenziosi e grevi come a un funerale. Nemmeno si sfiorano, ma si capisce che stanno insieme.

Si avvicinano, non dicono buongiorno, non dicono nulla, e mi si siedono accanto. Lui accende una sigaretta, Lei guarda fuori: entrambi tesi come corde di violino a una nenia funebre. Un attimo dopo arriva Carlo, con il suo buffo papillon rosso, la camicia bianca e le bretelle bordeaux. Il faccione giocondo, le guance accaldate la testa a sfera priva di capelli. Si avvicina e chiede:

«Posso servirvi qualcosa?».

La coppia si guarda esitante. Lei, algida nella sua rigidità, non accenna a rispondere.

«Ci porti due caffè» dice Lui, più accomodante.

Carlo, normalmente gioviale con i clienti, con tutti, fa solo un cenno con la testa e si allontana. Il caffè torna silenzioso.

Non sono un’impicciona, ma ammetto che mi diverte ascoltare i discorsi della gente: hanno sempre qualcosa da raccontare, qualcosa da insegnare. Si può apprendere molto su di una persona da quello che dice; dal modo in cui lo dice. Si può imparare molto anche dai silenzi.

Lui, tira nervose boccate veloci di fumo; guarda fisso in basso, verso la superficie a specchio del tavolino. Forse osserva il proprio riflesso, cercando d’intuire cosa sia andato storto. Lei, se ne sta rigida; dritta come un fuso; immobile. I muscoli del suo lungo collo si agitano per la tensione. Guarda oltre la vetrina; senza muovere gli occhi; senza dare l’impressione di puntare qualcosa di preciso.

Non riesco a smettere d’osservarli. So di essere poco opportuna, persino maleducata, ma non posso farci niente: mi attraggono in un modo che non so spiegare. Di norma la gente non ci fa caso. Alcuni non si accorgono nemmeno di me. Perfino quando mi sfiorano o mi spingono non danno peso ai loro gesti e alla mia presenza.

Torna Carlo: in mano regge un vassoio di latta. Posa le due tazzine sul tavolino e si allontana. Perfino lui è diventato silenzioso. Quei due trasmettono un’inquietudine magnetica. Dalle tazzine sale una sottile spirale di fumo. Molto più sottile e molto meno oleosa del fumo di sigaretta che si allunga dalle dita dell’uomo. E per un attimo l’ambiente si scalda e si riempie dell’aroma di caffè.

Come se fosse un segnale, i loro sguardi s’incontrano. Lei appare impercettibilmente più rilassata. Lui allora tenta un sorriso conciliante. Al sorriso di Lui, Lei torna rigida, opponendo un’espressione granitica.

«Oh, andiamo!» scatta Lui, esasperato. Poi sbuffa, scuote la cenere dalla cicca, storce la bocca in un’espressione da bimbo offeso. Si muove sulla sedia come se gli prudesse la schiena. Lo sguardo pare diventare cattivo.

Lei resta silenziosa, rigida, ma non guarda più fuori dalla vetrina: guarda Lui, e i suoi occhi sembrano pugnali.

«Hai intenzione di tirarla per le lunghe?» dice Lui.

So riconoscere l’inizio di una tempesta…

Ma la donna resta muta. Marmorea e distante. Dietro la sua espressione astiosa posso intuire tutta la frustrazione, la disperazione, la tristezza che trattiene.

L’uomo accenna un mezzo sorriso. Gli occhi ne tradiscono la natura. Poi allunga una mano, quella che regge la sigaretta, e con un dito sfiora la mano di Lei.

La donna si ritrae. «A te non importa» scatta Lei. Il suo tono è duro, definitivo.

Si ritrae anche l’uomo. «Non ho detto questo…». Tenta di difendersi ammantandosi di una distaccata indifferenza. Prende la bustina di zucchero, la spicca tirandone i lembi e ne versa il contenuto nella tazzina. Ruota il cucchiaino in senso antiorario, lo batte un paio di volte sul bordo, sorseggia il caffè.

«Come posso fidarmi?» dice Lei. Il suo caffè se ne sta lì, brodoso, a raffreddarsi.

Lui le punta addosso uno sguardo leso.

«Non mi pare la fine del mondo».

«L’hai fatto ancora».

L’accusa percuote l’uomo. Le spalle si afflosciano. Il petto si sgonfia. Gli occhi s’impennano verso il soffitto.

«D’accordo, scusa…» sbuffa Lui.

«La fai semplice, vero?» dice Lei, appoggiandosi allo schienale e incrociando le braccia. «Ti basta chiedere scusa e via. Tutto passato. Tutto finito. Sei un uomo privo di memoria tu».

«Mi devo inginocchiare? Cos’è che vuoi?».

«Non le voglio le tue scuse. Non me ne faccio nulla. Quello che mi serve è un po’ di rispetto».

L’uomo sbuffa ancora e questo fa imbestialire la donna.

«Ti annoio? Ci lasciamo?».

Adesso è Lui a irrigidirsi. Sbarra gli occhi. Balbetta un paio di versi incomprensibili. La cenere pencola pericolosamente dalla cicca ormai corta. Lo sguardo della donna si fa trionfante, quasi soddisfatto.

«D’accordo,» dice Lui, «d’accordo. Me ne sono scordato… Vuoi crocefiggermi?».

«Di nuovo» insiste Lei.

«Di nuovo, sì» dice Lui, disarmato. «Però… ti amo».

L’espressione della donna si addolcisce. Lo sguardo materno abbraccia il giovane uomo. Poi nei suoi occhi passa un lampo. «Prometti di non farlo più». Non c’è acredine nel tono di Lei, che invece è furbo, quasi giocoso.

«Dai,» dice Lui, confortato, «bevi il tuo caffè e andiamo. Ho voglia di fare l’amore».

«Non lo voglio il caffè» dice Lei, allontanando la tazzina da sé. Mette su un broncio finto: «Andiamo subito».

I due si guardano con complicità. Lui allunga la mano che regge la cicca ormai consumata; me la spegne addosso tamburellando un paio di volte. Quindi si alzano e fuggono via tenendosi stretti.

È sempre la stessa storia: loro vanno via, e a me non resta che un pugno di cenere.

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NOTE

«Čechov, il grande Čechov, chiacchierando con un giornalista che voleva sapere come nascevano i suoi racconti, prese il primo oggetto che gli capitò sotto mano – appunto un posacenere – e gli disse: lo vede questo? passi domani e le darò un racconto intitolato Il posacenere».

– Elena Ferrante, La frantumaglia, Edizioni e/o 2015

66 Comments on “Al Café Le Roy”

  1. Bello, giocato tutto su ciò che non viene raccontato. Più tardi, appena mi siedo davanti a un computer ho un altro paio di spunti su cui parlare 😉

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      • Dai, del punto di vista parleranno tutti, no? (tra l’altro il femminile mi fa pensare ad una tazzina, posacenere sarebbe stato maschile, sbaglio?)

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        • È proprio per questa sicurezza – «sarebbe stato» – che ho voluto scegliere un marcatore femminile. Hai ragione nel dire che in quanto marcato al maschile, il nome posacenere, anche il punto di vista sarebbe dovuto essere marcato al maschile. Ma se ci pensi bene i posaceneri, le tazzine, i tavolini sono tutti neutri. La distinzione sessuale non ha senso. Ha senso dove c’è effettivamente una differenza di sesso. Inoltre, dato l’argomento, il punto di vista femminile rende di più. Perché non può esserci un posacenere “femmina”? Perché limitarsi alla superficialità di un punto di vista banale? Queste sono le motivazioni che mi hanno spinto ad adottare una marcatura femminile.

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          • Un approcio interessante, che però rischia di spiazzare il lettore. Ammetto che la prima cosa che ho pensato è stata: ma perchè Salvatore usa spesso un punto di vista femminile? Poi alla fine “ma è ovvio, perchè parla il posacenere” e in quel momento mi sembrava scontato che il posacenere fosse femminile. Solo ripensandoci dopo mi son reso conto dell’ambiguità e mi sono domandato, che sia una tazzina lasciata sul tavolino? Però la tazina cambierebbe molto nel racconto per quanto riguarda la percezione dei personaggi, sia per il barista, non così solerte come ci si aspetterebbe sia per l’uomo.

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            • L’idea era proprio di spiazzare. Altrimenti perché scegliere il punto di vista di un oggetto? Siamo un po’ troppo assuefatti, credo, alla superficialità data dalla consuetudine. Ma il nostro, è un punto di vista limitato, ristretto. Se proviamo a scartare anche solo di poco, ecco che il lettore si sente completamente spiazzato. E i commenti che sono finora arrivati mi paiono esplicativi. Direi che il racconto ha funzionato benissimo. 😀

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              • Pienamente d’accordo. Soprattutto nei racconti il lettore va spiazzato. 🙂
                A costo di sembrare sprovveduto confesso che alla prima lettura, e fino quasi alla fine, non ho neanche sospettato che fosse il posacenere a raccontare; con me ha funzionato benissimo.

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  2. Ah, scusatemi, non avevo visto che Davide si era posto lo stesso quesito.
    Tra l’altro non si dovrebbero sedere accanto al posacenere, bensì di fronte, se è sul tavolo.
    Io però non ho capito: il racconto l’hai scritto tu?
    L’idea è molto originale.
    La seconda parte mi è piaciuta molto, ma in alcuni punti ho trovato troppi aggettivi. 🙂

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    • Troppi aggettivi? Non ci può essere un racconto più asciutto neanche volendolo. Dove uso gli aggettivi – immagino ti riferisci alla descrizione del cameriere – uso una tecnica di accumulo per rendere un effetto.

      Sì, il racconto è mio.

      Dipende, anche in questo caso, dal punto di vista: in genere, ci si siede di fronte alla persona con cui si colloquia. Ma la storia è raccontata dal posacenere, la quale però non è coinvolta direttamente. L’uomo non ha una relazione con il posacenere. Quindi, dal punto di vista del posacenere, l’uomo e la donna si siedono accanto a lei: non di fronte.

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      • Sì, hai colto nel segno: mi riferisco alla descrizione del cameriere. Se l’effetto è quello di renderlo macchiettistico, farlo sembrare una sorta di giullare, ci sei riuscito bene. Però penso che il tono cambi troppo rispetto alla placida neutralità che accompagna il resto del racconto. Anche “lungo collo” non mi ha convinto. E poi c’è la ripetizione: “resta silenziosa”, “resta muta”. Probabilmente volevi ribadire il concetto, ma io lo trovo ridondante.
        Comprendo il ragionamento legato alla “neutralità” dell’oggetto posacenere, però la lingua italiana ha due generi, non tre, e il senso comune associa il sostantivo al maschile. Per questo il punto di vista non è comprensibile. Per quel che mi riguarda, ho dovuto leggere la nota.
        Daniele ha ragione a parlare del divieto di fumo, per questo ho pensato a un’ambientazione vintage, anni cinquanta diciamo. Questo però non è un problema. Basta mettere una qualunque data prima del gennaio 2005 o spostare i personaggi nel de hors. Per quel che riguarda invece la posizione, io penso a un tavolino quadrato, uno di fronte all’altro (o disposti ad angolo retto) con il posacenere di fronte. Nella maggior parte dei casi (parlo da fumatrice) il posacenere è al centro del tavolo. Lo sguardo di entrambi – a prescindere dal fatto che ci sia o meno un’interazione – sarebbe rivolto ad esso.
        Infine, “tesi come corde di violino” secondo me è una metafora un po’ abusata, però il punto di vista la rende verosimile. 🙂

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        • Dimenticavo:
          “Lui, tira nervose boccate veloci di fumo; guarda fisso in basso, verso la superficie a specchio del tavolino. Forse osserva il proprio riflesso, cercando d’intuire cosa sia andato storto. Lei, se ne sta rigida; dritta come un fuso; immobile.”
          Le due virgole dopo i soggetti servono per enfatizzare chi compie l’azione, ma a me non piacciono molto. Nelle bozze del mio romanzo le ho eliminate quasi tutte. 🙂

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        • Se rileggi il tuo commento, credo ti renderai conto che ci sono un mucchio di deduzioni (non per forza sbagliate) ma che nel racconto non sono specificate. Ad esempio il posacenere non ti dice dove si trova, e ricordati che il punto di vista è il suo, non quello di un narratore esterno. Quando dici: «io penso a un tavolino quadrato. […] con il posacenere di fronte», stai ragionando da narratore esterno. Che è il punto di vista naturale per un lettore. In questo caso, però, il gioco consiste proprio nello spiazzare il lettore con un punto di vista che non gli appartiene, a cui non è abituato.

          Sulle espressioni che hai sottolineato non ho molto da dire. A te il mutismo nelle due espressioni può sembrare una ripetizione, a qualche altro lettore una necessità. “Lungo collo” però è un’espressione importante. Per un posacenere “femmina”, cioè femminilizzato, il collo di una donna – e qui scatta la competizione e il confronto tra donne – è lungo. Il posacenere potrebbe essere invidioso di quel “lungo collo”. Forse avrei dovuto aggiungere anche “snello”, ma mi sembrava eccessivo.

          Anche nel caso del divieto, come ho già detto, è una interpretazione del lettore. La tua, vintage, è molto carina. Ma io non ho specificato una data. E non ho specificato un luogo. Come dicevo, potrebbe essere un dehor o una sala adibita ai fumatori. 🙂

          “Tesi come corde di violino” – con Paolo siamo stati a lungo in dubbio se eliminare questa espressione, perché in effetti è abusata. Alla fine l’abbiamo lasciata perché ci pareva aggiungesse una nota emotiva precisa all’atmosfera.
          ______________

          P.S. Paolo è il mio beta. È molto bravo e tanto paziente. Credo abbia riletto questo racconto almeno venti volte, con tutte le varie modifiche fatte in corso d’opera. Questo è un racconto particolarmente difficile e molte delle “mozioni” che avete giustamente portato ce le siamo poste noi per primi. Quindi approfitto dello spunto per ringraziarlo.

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          • Le possibili deduzioni del lettore (o meglio: di un lettore “tecnico” e quindi più cagacazz…ehm…pignolo sulle questioni tecniche) secondo me sono importanti per prevenire eventuali incongruenze. Il racconto è bello, non lo nego, ma alcune scelte stilistiche non sono da me condivise in pieno. Ciò non preclude la buona riuscita del tuo esperimento: è solo questione di gusto personale e di scelte. 🙂
            Il collo lungo è un pregio? Davvero? Io l’ho sempre considerato un fastidio, forse per questo non ho colto l’invidia del posacenere. 😀
            Ho un’altra considerazione, ma preferirei farla in privato: sai che io tendo sempre a psicanalizzarti, sono il tuo life-coach! 😉

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  3. Ok, il primo caffè l’ho preso (non italiano purtroppo) ho dato una scorsa alle notizie (un po’ annoiata devo dire) e ora veniamo al commento lungo 😛 (naturalmente vado proprio nel sottile, perchè come già detto sopra il racconto mi è piaciuto, ma…)
    – Il superfluo: almeno a mio avviso alcune espressioni sono superflue, ad esempio: “ma si capisce che stanno insieme”, appunto, sì capisce, e se non losi fosse già capito lo si capirà dal dialogo che segue, no? O il periodo da “Non sono un’impicciona […]” che oltre a essere un po’ contraddittorio, non sei un’impicciona, ma ti impicci, non mi pare aiuti a descrivere meglio la voce narrante, non aggiunge gran che alla storia, anzi, sposta l’attenzione e poi lo trovo un po’ banale; e poi si sa che gli scrittori (anche se travestiti da tazzina o da posacenere, origliano le conversazioni per prendere spunto 😛
    – l’uso ripetuto di “espressione”, addirittura quattro volte: “un’espressione granitica”, “un’espressione da bimbo offeso”, “la sua espressione astiosa”, “l’espressione della donna si addolcisce”, penso che in tutti e quattro i case l'”espressione” possa essere resa meglio 😉
    – per finire una sottigliezza: siccoma l’uomo fuma nel locale si suppone che la storia avvenga prima del 2003, ovvero prima della legge antifumo, ma la legge che vieta le zuccheriere nei bar è solo del 2004, dunque molto probabilmente sul tavolino invece delle bustine si sarebbe trovata una zuccheriera con coperchio e due cucchiaini 😉

    Ho visto che hai usato molto la mimica di cui parlavo tempo fa in qualche commento 😉

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    • Continui a perderti un particolare: è sempre il posacenere a parlare, non una voce narrante fuori dalla storia. La storia non è la coppia che entra nel bar, ma la vita del posacenere su un tavolino da bar. Quindi, quella che in un altro contesto potrebbe effettivamente sembrare una ripetizione – “ma si capisce che stanno insieme” – in questo caso a mio avviso aiuta a entrare nel punto di vista del posacenere.

      Anche le altre “ripetizioni” svolgono la stessa funzione: il posacenere ti sta raccontando la sua storia. Non servono a rendere la sua voce, ma la sua storia: «la gente non mi fila; mi spostano, mi urtano ma neanche si accorgono della mia presenza; io non sono un’impicciona, sono loro che parlano accanto a me delle loro faccende private come se io non esistessi», e via dicendo.

      L’uso ripetuto del termine “espressione” è un coesivo. Come fa ad esempio Carver quando ripete all’infinito “dice”.

      Oppure potrebbero essere ambientato in un dehor o in una sala in cui si può fumare: io non ho specificato.

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      • “Oppure potrebbero essere ambientato in un dehor o in una sala in cui si può fumare: io non ho specificato.”
        In un dehor no, perchè dici che guardano il marciapiede dalla vetrina. Una saletta fumatori sarebbe possibile, ma sono così rare 😉 comunque come dicevo giusto una sottigliezza 😉 le bustine si usavano anche prima, ma erano meno frequenti delle zuccheriere, per quel che ricordo.
        Ok, capito l’approcio, ma allora forse potresti renderlo meglio, dando a questa posacenere un po’ più di personalità 😉

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            • Lo so, un difficile equilibrio, ma potresti dare più personalità alla posacenere non per aggiunta ma per maggior precisione degli stessi dettagli.

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                • Gute frage 😛
                  Ad esempio dandole una personalità più spiccata, una sua voce.
                  Prendo il solito punto:
                  “Non sono un’impicciona, ma ammetto che mi diverte ascoltare i discorsi della gente: hanno sempre qualcosa da raccontare, qualcosa da insegnare. Si può apprendere molto su di una persona da quello che dice; dal modo in cui lo dice. Si può imparare molto anche dai silenzi.”
                  Qui ad esempio potresti darle la voce di una portinaia pettegola, magari basterebbe cambiare la prima frase con:
                  “Non è che sono un’impicciona io” cambiando il tono
                  Oppure renderla più “filosofica” da donna vissuta con un “ah, quante ne potrei raccontare io”
                  oppure non so, ovviamente dipende da come tu l’hai in mente 😉

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    • In italia il divieto c’è dal 2005. Forse in Germania è arrivato prima.
      Non sapevo che avessero vietato le zuccheriere, ma effettivamente non le vedo da tempo.
      Sei stato illuminante. 😀

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      • No, in Germania è arrivato molto dopo ed è anche meno restrittivo, oltre tutto dipende dai land.
        La legge Sirchia è del gennaio 2003, quella delle zuccheriere dell’aprile 2004, poi immagino che al solito in attesa di circolari applicative e tempi burocratiche entrambe siano diventate effettivamente operative un po’ dopo (ovviamente lo so perchè avendo avuto il dubbio sono andato a controllare, non sono così dotto 😀 )
        Giusto per curiosità in Germania le zuccheriere usano ancora 😉

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        • La data ufficiale di entrata in vigore è 1° gennaio 2005.
          Il mio romanzo è ambientato fra il 2000 e il 2015, e anche il protagonista fuma, quindi anch’io mi sono documentata. 😀

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          • No, io no, ho solo gugolato al volo 😀
            il Gennaio 2005 me lo ricordo come inizio effettivo del divieto nei locali perchè partii per la Germania a fine mese e io, da non fumatore, non ebbi modo di godere dei benefici, visto che ad Amburgo si fumava in tutti i locali pubblici 😀

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  4. Uno spunto di riflessione che è spuntato (gli spunti spuntano, no? come i fiori affiorano? 😛 ) appena letto l’incipit: “È una domenica mattina”
    determinazione e indeterminazione del tempo e dello spazio.
    Nel tuo caso scegli un tempo indeterminato e uno spazio determinato “il Café Le Roy, in via Verdi a Torino”. Avresti potuto usare un tempo determinato “domenica dodici luglio del 1998” e uno spazio indeterminato “in un caffè” in quale caso è bene che spazio o tempo siano determinati e in quale caso e bene che siano indeterminati? Sempre che ci sia una ragione? (ad esempio nelle favole sono indeterminati entrambi)
    Giusto uno spunto di riflessione magari per un prossimo post 😉

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    • A me pare che siano determinati entrambi: è una domenica mattina; è il caffé Le Roy. Poi si può determinare ancora di più, come dici a proposito del tempo: ma serve determinarlo così tanto?

      Per rispondere quindi al tuo quesito: è opportuno quando è opportuno, cioè quando aggiunge qualcosa. Come dice Čechov, il grande Čechov: se nella storia introduci una pistola, questa prima o poi dovrà sparare. 😛

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      • E io che volevo farti scrivere un post 😛
        Giusta l’osservazione “quando aggiunge qualcosa” in questo caso non sappiamo se fa caldo o fa freddo, se piove o se c’è il sole, ma sappiamo che la gente non si muove in modo frenetico perchè non deve andare a lavorare.

        Ah, la cara pistola di Čechov, uno dei miei argomenti preferiti quando critico racconti 😉

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  5. Non mi convince. Perché usi il femminile, poi? Il portacenere è maschile e il lettore si trova alla fine spiazzato.
    Quando è ambientato il racconto? Perché nei locali pubblici è vietato fumare 🙂

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    • Ho risposto a questi quesiti nei commenti precedenti, ma specificando: proprio per spiazzare il lettore, troppo abituato a un punto di vista superficiale. Ti faccio un esempio: il posacenere è maschile, dici. Sbagliato: il posacenere è un oggetto neutro. E io, se voglio, posso immaginarmi un posacenere femmina.

      Come dicevo, non ho specificato il luogo: potrebbe essere un dehor o una sala adibita a fumatori. Sei tu che l’hai immaginato così. Questo perché è normale che, se ti dico un caffé, tu ti immagini la sala di un bar. Non è un errore; è solo una abitudine. 🙂

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      • Da una parte è accettabile, in fondo è un oggetto a cui noi abbiamo dato il genere maschile, dall’altra però l’uso del femminile sembra un trucco per spiazzare il lettore.
        Riguardo al divieto di fumo, il racconto potrebbe essere ambientato in un periodo antecedente il divieto.

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        • Se avessi voluto così, come ha accennato Chiara, avrei allora specificato una data. Ma dico solo: “una domenica mattina”. Però il tuo commento è molto interessante, perché sottolinea l’importanza che alcune informazioni assumono quando si racconta qualcosa. Può, ad esempio, sembrare banale specificare o meno una data; invece no, è una scelta precisa. Grazie. 🙂

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  6. Bello. Ma tutto al femminile, il posacenere dovrebbe essere maschile…
    Ahahaha! Stavo scherzando, ho letto le risposte sopra… 😀

    Solo un dettaglio mi convince poco: “Lei, se ne sta rigida; dritta come un fuso; immobile. I muscoli del suo lungo collo si agitano per la tensione.”

    Dunque: rigida, immobile… ma con i muscoli che si agitano?
    Non riesco proprio a immaginarlo. Il muscolo teso potrebbe al massimo muoversi impercettibile a causa della tensione. Agitarsi? Parere personalissimo.

    E poi avrei aggiunto una virgola dopo le guance accaldate: “Il faccione giocondo, le guance accaldate la testa a sfera priva di capelli.”.

    Comunque ripeto: bello.

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    • L’hai guardata mai una donna quando è arrabbiata? XD

      Scherzi a parte, stare immobili è una scelta voluta; uno spasmo muscolare invece no. Quindi non mi pare ci sia fra le due cose un’incongruenza. Da bambino, con mio fratello più grande, facevamo un gioco: consisteva nello stare immobili: il primo che si muoveva perdeva. Capitava di tanto in tanto, per via della tensione nervosa, che il muscolo di una gamba si contraesse. Finiva che gli rifilavo un calcio senza volerlo. Per tornare al racconto, la donna è volutamente immobile ma i muscoli, per il nervoso, si contraggono. Non c’è contraddizione.

      Invece sulla virgola hai ragione e ti posso garantire che c’era anche… Forse è andata a farsi un giro. Non puoi mica pretendere che stia tutto il tempo lì: immobile. XD

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      • Ok, concordo. Infatti avevo messo le mani avanti dicendo che è un mio parere personalissimo.
        Comunque non l’ho detto prima, ma il racconto, oltre che bello, è ben strutturato: solo alla fine ho capito che “a parlare” era il posacenere.
        Complimenti.

        Quanto alle virgole, ci sta che vadano a farsi un giro. Tutto il tempo appese con la paura di cadere nella riga di sotto… 🙂

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  7. Letto il racconto e tutti i commenti.
    Che dire, bravo, mi è piaciuto.
    Dal punto di vista tecnico il racconto è veramente buono.
    Il punto di vista lo svii bene e dai il colpo ad effetto (spiazzante) nel finale. Meglio di così in un racconto è difficile.

    Sei stato bravo perché hai seminato quel che io chiamo “il trucco del prestigiatore”.
    Ci dici quasi subito che l’uomo accende la sigaretta. Però torni a ribadirlo altre cinque volte, senza mai calcare troppo e far capire che quello è un elemento chiave. Ci evidenzi sotto il naso che la sigaretta è importante, la sventoli come per dire ehi io sono qui, sono l’interpretazione, ma lo fai con tanta naturalezza, fra espressioni, descrizioni e contesto emotivo, che nessuno comprende che quella è la svolta interpretativa finale.
    Certo ti giochi anche l’azzardo (la tentazione era forte di spiattellarcelo: guardate che c’è il trucco), e infatti dici:
    “Di norma la gente non ci fa caso. Alcuni non si accorgono nemmeno di me. Perfino quando mi sfiorano o mi spingono non danno peso ai loro gesti e alla mia presenza.”
    Il lettore si insospettisce, c’è qualcosa che non torna, ma tu fischiettanto tiri di nuovo dritto e ci svii l’attenzione, torna Carlo, il cameriere, non farci caso, la storia prosegue. 😉
    C’è maestria, lasciamelo dire.

    I tempi narrativi mi piacciono. Riesci a scorrere con stacchi successivi l’intera scena del racconto.
    Il ritmo c’è, cadenzi dalla voce narrante (mascherata) alla coppia in crisi. E poi i gesti, le espressioni, l’ambientazione, il cameriere. Fai scorrere tutto fluidamente come in una danza. Non ti dilunghi in infodump inutili, tutto procede verso lo sbocco finale.

    Queste cose le sanno fare bene i grandi scrittori, io li sto studiando. Quindi bravo.
    Però rispetto ai grandi scrittori ti manca ancora qualcosa. Quella che io chiamo la percezione del mondo.
    Ovvero: Luce, audio, odorato.
    Per farmi capire, Stephen King è il maestro assoluto di questi tre elementi, vitali per dare partecipazione attiva alla scena. Sono i sensi della vista, dell’udito e dell’odorato che evocano il sapore percettivo del lettore.

    Tu lo fai per l’odorato: “E per un attimo l’ambiente si scalda e si riempie dell’aroma di caffè.”
    Se si rilegge il periodo omettendo questa frase, ecco che diventa piatto. Invece dai una bella immagine olfattiva: “l’ambiente si scalda e si riempie dell’aroma di caffè.”
    Il lettore sta percependo sul serio l’aroma del caffè, fa parte dei suoi sensi, si trova lì dentro la scena.
    Ma cosa analoga non c’è per la luce.
    I grandi in genere caratterizzano con rapide pennellate:
    – il riflesso del sole color ottone…
    – La luce mattutina penetrava dalla fessura…
    – Un bagliore dorato si riversava dalla porta…

    Stessa cosa per l’audio. Sei bravo a farci percepire il mutismo di lei. Il silenzio è l’audio. Però da contraltare al silenzio di lei potevi contestualizzare i suoni. Il tintinnio delle tazze, un’auto rumorosa di passaggio per strada, i passi del cameriere, i suoni ovattati della cucina…

    Bastano pochi tocchi perché i tre elementi percettivi permettano al lettore di trovarsi dentro, di annusare, vedere, sentire.

    Il dialogo lo trovo perfetto. È sotteso, sospeso, tratteggiato… rende in maniera efficace il malessere del loro rapporto.

    Sulla frase fatta:
    “Tesi come corde da violino” sarebbe stata una frase fatta da buttare. Ma invece tu con maestria la rimoduli ottimamente.
    La differenza è qui ed è notevole:
    Lo scrittore alle prime armi avrebbe usato la frase fatta cruda: “tesi come corde di violino.” PUNTO.
    Tu la rimoduli dando un’immagine efficace: “tesi come corde di violino a una nenia funebre”. L’hai contestualizzata e ci dai un’immagine forte. Ci sta bene.

    Ultima nota di mio interesse.
    Nel racconto utilizzi molto la similitudine.
    Eccole in successione:
    – entrano un uomo e una donna, silenziosi e grevi come a un funerale
    – entrambi tesi come corde di violino  a una nenia funebre
    – Lei, se ne sta rigida; dritta come un fuso
    – Come se fosse un segnale, i loro sguardi s’incontrano.
    – storce la bocca in un’espressione da bimbo offeso
    – Si muove sulla sedia come se gli prudesse la schiena
    – guarda Lui, e i suoi occhi sembrano pugnali.

    Ecco, come gestisci la similitudine nei tuoi racconti. Sai che devi inserirla per dare colore e immagini al racconto oppure la metti lì in maniera naturale, d’istinto come flusso narrativo quando scrivi?

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    • Parto dal fondo: non ho fatto caso alle similitudini. Erano la cosa giusta da dire (scrivere) al momento giusto. Tutto qua. Non c’è merito né demerito, solo abitudine, istinto.

      Il suono c’è, poco ma c’è: i silenzi della donna, ma anche dell’uomo: «Si può imparare molto anche dai silenzi»; Lui che «batte il cucchiaino un paio di volte sul bordo», e via dicendo. Questo è un racconto per sottrazione. È il lettore a dover aggiungere. Io non ti dico che quel cucchiaino fa un certo suono, lo sai già da te che lo fa. E poi avevo il timore di deconcentrare troppo il lettore, già messo a dura prova con un punto di vista esotico. King è bravo, è vero, ma in storie con uno stile più classico, dove aggiungere colore è decisamente più facile. Il colore c’è anche qui, basta dare un’occhiata alla descrizione del cameriere… 🙂

      Il dialogo, e con Pades ne abbiamo parlato a lungo, era la cosa che m’impensieriva di più. Il fatto che nessuno se ne sia lamentato e che tu l’abbia trovato perfetto mi rincuora parecchio.

      La sigaretta, hai detto bene, è proprio la chiave di volta; il dito che punta alla luna. Nessuno, negli altri commenti, ne ha accennato… 😦

      … così come nessuno ha accennato al fatto che Lei e Lui sono scritti maiuscoli. 😛

      Non sono sicuro di essere bravo come dici, ma mi hai fatto sorridere. Grazie. 🙂

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    • Capita che analisi, complimenti, vale da sola almeno un paio di post. Peccato che ora il prestigiatore di bannerà per aver svelato tuti i suoi trucchi 😛

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  8. Senti ma… perché il posacenere è femminile?

    Scherzo… ;D

    Non mi è piaciuta la fine ma capisco il tuo scopo e direi che lo hai raggiunto in pieno.
    L’idea è bella, la storia è scritta bene, varrebbe la pena approfondire la questione… io vorrei tanto sapere perché lei è incazzata, insomma. Secondo me lui ha guardato un’altra per strada.

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    • Cos’è che non ti è piaciuto del finale?

      La storia non è la coppia, la coppia passava solo di lì. La storia è la vita del posacenere (femmina).

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      • Sei bravissimo a mostrare al lettore la scenografia e presentare i personaggi, ma non rispetti il contratto col lettore.

        È già capitato altre volte, che ti leggessi e rimanessi a bocca asciutta. Scrivi questi raccontini come esercizi di stile, ma a me piacciono più le storie con un senso compiuto.

        Il posacenere non mi soddisfa, come spiegazione. Devi dirmi perché sto leggendo di questi due anziché degli altri cento che si siedono lì a fumare ogni giorno.

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        • Per lo stesso motivo per il quale il posacenere è femmina… Che cosa manca a un posacenere femmina che se ne sta tutto il giorno, tutti i giorni appollaiata sul tavolino di un bar? L’amour… c’est possible? Ripeto: è il posacenere che ti sta raccontando una storia. Io non c’entro nulla. Mi limito a pubblicare sul blog.

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