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Ovvero: insidie per chi scrive

Ormai credo di poterne parlare, sono passati diversi mesi. Spero comunque che l’interessata non mi legga: sarebbe piuttosto imbarazzante. Spesso, quello che facciamo, soprattutto quello che scriviamo, sfugge infatti al nostro controllo… e non sai mai chi possa affacciarsi alla tua vita seguendo l’eco di ciò che hai scritto.

Le parole, soprattutto quelle incise a inchiostro (o bit), sono molliche di pane che seminiamo alle nostre spalle. Ma non servono a farci ritrovare la strada; servono a farci scovare da chi, seguendo la scia, è attratto da ciò che gli lasciamo in lettura.

Era il 25 novembre scorso quando una ragazzina di quasi 17 anni, attraverso la chat di facebook, mi inviava la foto che vedete in calce a questo articolo. Lei si chiama *** e frequenta il quarto anno di liceo classico della sua città. Prima di allora mi aveva già scritto via mail per chiedermi un parere sui suoi racconti. Chi c’è passato sa quanto io possa essere spietato nel correggerli… La foto ritrae una scritta. La ragazzina ha inciso sul proprio banco di scuola una frase che ha letto sul mio blog: Sbaglia. Fallo senza scrupoli. Ma con la consapevolezza che il passato non si può modificare. Quando vidi la foto, rimasi spiazzato. Commisi l’errore di non dirlo immediatamente. Forse mi sentivo anche legittimamente compiaciuto.

Questa storia, questa sorta di tira e molla mediatico, di messaggini, di richieste d’attenzione,  d’immagini, anche private, inviate senza alcuna richiesta da parte mia andò avanti ancora per qualche tempo. Non sapevo come gestirla. Mi faceva piacere che le mie parole avessero suscitato delle emozioni, ma non ero pronto ad affrontarne le conseguenze. Poi, per fortuna, ci si stanca di tutto: anche del sottoscritto.

Chiudo la parentesi e mi scuso per avervi reso partecipi. Serviva però a introdurre l’argomento di questo post: siamo responsabili di ciò che scriviamo?

La responsabilità

Responsabilità s.f. 1. Congruenza con un impegno assunto o con un comportamento, in quanto importa e sottintende l’accettazione di ogni conseguenza, specialmente dal punto di vista della sanzione morale e giuridica.

il Devoto-Oli 2013

Prima di allora non mi ero mai veramente sentito responsabile di ciò che scrivevo. Non che sia successo qualcosa, la ragazzina presumo stia bene. Il punto non è questo. Il punto è una riflessione che è scaturita come conseguenza di un gesto che mai prima di allora mi sarei aspettato.

Cos’è che mi ha fatto sentire esposto?

Quando ho cominciato a tessere questo blog non pensavo che qualcuno avrebbe mai veramente letto ciò che scrivevo. Poi siete arrivati Voi, e di questo Vi ringrazio; poi è arrivata Mondadori. Infine è arrivata la suddetta ragazzina.

Anche se non fossimo scrittori, ciò che scriviamo, seppur in modo più limitato, lascia degli strascichi; degli echi che possono essere letti e interpretati da gente che neanche conosciamo. Da gente che non conosce noi. Magari molto tempo dopo, quando il contesto in cui si è scritto una certa cosa è ormai svanito. Avviene costantemente sui vari social media. Il contesto può evaporare, evolversi o cambiare: le parole restano.

La mia frase, è una bella frase; l’avevo scritta a proposito di uno dei tanti romanzi che ho iniziato e mai concluso. Mi sembrava potesse attirare l’attenzione, e quindi l’ho inserita nel frontespizio del blog. Mai mi sarei aspettato di vederla riprodotta in una foto: incisa su un banco di scuola. Non è grave; su quei banchi spesso viene scritto di peggio, presumo. Ma il gesto, e le attenzioni successive, non possono lasciarmi indifferente. E richiama alla mente qualcosa di diverso.

Il giovane Holden

Mark David Chapman attese John Lennon fuori dal Dakota Palace a Manhattan, New York. Quando lo vide uscire, lo affiancò e si fece autografare la propria copia di Double Fantasy: l’ultimo album del cantante. Paul Goresh, un fotografo lì presente, immortalò la scena. Quattro ore dopo, quando John Lennon rientrava nel proprio appartamento, Chapman, che era rimasto in attesa, attirò la sua attenzione: «Ehi, Mr. Lennon!», e gli esplose contro cinque colpi di pistola. Uno perforò l’aorta del cantante, uccidendolo. In mano, Chapman, teneva una copia del Giovane Holden. Era l‘8 dicembre del 1980. In tribunale disse che si sentiva come il protagonista del libro: Holden Caulfield.

Il 30 marzo del 1981, fuori dal Washington Hilton Hotel, John Hinckley jr. sparò all’allora presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan; perforandogli un polmone e ferendo altre tre persone. Diversamente da Lennon, Reagan se la cavò. L’uomo disse di voler attirare l’attenzione di Jodie Foster, di cui era perdutamente innamorato. Nella sua stanza d’albergo fu trovata una copia del Giovane Holden.

La stessa cosa accadde a Robert John Bardo, quando decise di entrare in casa dell’attrice americana Rebecca Schaeffer. Era il 18 luglio del 1989. L’attrice morì mezz’ora dopo, in ospedale.

Che responsabilità ha J.R. Salinger per il modo in cui le sue parole sono state interpretate non solo da questi tre protagonisti della storia meno nobile degli Stati Uniti, ma anche dalle migliaia di fan che per anni hanno continuato a bussare alla sua porta di casa?

I dolori del giovane Werther

D’accordo, eravamo in Germania e in un’epoca, quella pre-romantica, in cui un determinato tipo di sentimentalismo era avvertito con una forza che oggi stenteremmo a comprendere. Tuttavia, secondo gli storici, a seguito della lettura dei Dolori del giovane Werther furono quasi duemila i  casi di giovani altrettanto doloranti che si tolsero la vita suicidandosi. Gli esperti hanno chiamato questo fenomeno: “suicidio mimico” o “effetto Werther”.

In Italia si ebbe un fenomeno simile con le Ultime lettere di Jacopo Ortis, anche se per fortuna in misura minore.

Anche in questo caso mi viene da chiedermi: che responsabilità hanno Goethe e Foscolo per l’effetto che i loro rispettivi romanzi hanno prodotto sui giovani loro contemporanei? Ce l’hanno una responsabilità? E anche se legalmente non ce l’avessero, come avrebbero dovuto sentirsi a seguito di ciò che è accaduto? Salinger, ad esempio, passò buona parte della sua vita, quella successiva alla pubblicazione del romanzo, rinchiuso nella propria abitazione di Cornish, nel New Hampshire. Fu questo il motivo per cui si isolò? l’effetto del suo romanzo?

Etica della scrittura

Conscio dell’effetto che le proprie parole potrebbero avere su chi le legge, uno scrittore dovrebbe porsi una sorta di etica della scrittura? Siamo responsabili per il modo in cui vengono interpretate le nostre parole? È corretto limitare la propria poetica anche solo per il tenue rischio che questa possa essere interpretata in modo estremo dalla persona sbagliata?

Io non so dare una risposta a queste domande. Forse non è neanche corretto porsele. Vorrei sottolineare che in questo articolo il mio ben noto egocentrismo non centra nulla. È una questione più elevata e più generale quella che vi pongo: avvertite mai il peso della responsabilità per ciò che scrivete?

72 Comments on “Le responsabilità di una scrittura efficace”

  1. Io mi sento responsabile solo nei confronti della storia, della parola, non del lettore e di quello che capisce. Può sembrare una scorciatoia o una fesseria, ma che senso ha scervellarsi sul lettore? Il mio dovere è appunto verso la storia, che devo cercare di scrivere al meglio delle mie possibilità, e stop. Quello che accade dopo è imprevedibile. C’è quello che capisce fischi per fiaschi; quello che non capisce nulla. Quello che capisce più di te… Ma tutto questo accade, nel bene o nel male, se la tua storia è scritta senza avere in testa chi leggerà, ma i protagonisti. Facendo loro spazio. Permettendo loro di emergere.

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  2. Il tuo post tocca un argomento molto interessante che non ha a che fare solamente con la scrittura ma con la vita in genere. Ci si chiede dove finisca la responsabilità di ognuno di noi.
    Da genitore è una domanda che mi pongo tutti i giorni e non è mai facile uscirne con la coscienza tutta intera.
    Penso però che da donna, così come da madre o da aspirante scrittrice, ci sia un momento in cui debba mettere un freno alla tentazione di avere tutto sotto controllo. La nostra responsabilità c’è ed è grande, ma termina là dove comincia quella altrui.
    Come già ha detto Marco, noi non siamo responsabili di come poi gli altri usano le nostre parole. Io so che cosa voglio dire e mi prendo tutta la responsabilità di ciò che dico, ma non posso prendermi quella di come useranno gli altri le mie parole. Non solo non è ho il potere, ma non ne ho nemmeno il diritto.

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    • No, certo. Non possiamo sentirci responsabili per quello che le altre persone fanno. Se è vero che le parole di uno scrittore, esattamente come le immagini dei film e il suono della musica, hanno un potere è anche vero che poi il lettore sceglie la propria condotta. Tuttavia questo non solo non chiude la questione, ma non mette neanche in pace la propria coscienza. Se vieni a sapere che le tue parole, quelle che hai scritto in uno dei tuoi romanzi, hanno spinto una persona a fare una cosa estremamente stupida, magari a danno di terzi, per te sarebbe come se non fosse successo nulla? La tua vita continua normale come sempre?

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      • Mi pare che dal tuo post e da tutti i commenti successivi emergano due punti.
        Il primo è chiedersi quale responsabilità noi abbiamo sugli effetti che le nostre parole possono produrre sugli altri, il secondo è come possiamo proteggerci dagli effetti negativi dell’essere “visibili” in quanto portatori di un pensiero o di parole.

        Nel primo caso, ho risposto nel commento precedente, anche se vorrei precisare che non intendevo dire che la nostra coscienza è salva (anzi dicevo che sovente la nostra coscienza ne esce a pezzi), semmai che dovremmo sforzarci di mantenere una certa lucidità e separare ciò che ci compete da ciò che non è in nostro potere controllare. Con questo non voglio dire né che sia facile né che sia possibile, tuttavia cercare di farlo è un modo per sopravvivere al meglio.
        Come già dicevo, come genitore, so che ogni mia azione e ogni mia parola ha conseguenze sui miei figli, più probabilmente negativa che positiva. Tuttavia non posso fare a meno né di agire né di parlare né di prendere decisioni per loro. Ovviamente mi faccio milioni di scrupoli e di domande, ma non posso neanche smettere di vivere nel timore di danneggiarli. Lo stesso vale, credo, per chi scrive. E’ giusto porsi il problema di quali conseguenze possono avere le nostre parole, ma c’è un momento in cui vanno frenati i sensi di colpa, altrimenti l’unica alternativa è non scrivere più, perché se ci pensi bene ogni singola parola si presta a mille interpretazioni, cosa che è anche il bello della narrativa.

        Sul secondo punto, capisco il tuo timore, e, ancora una volta, da genitore lo sento più pressante. Quando esci dall’anonimato, come nel tuo caso, diventi visibile e sei oggetto delle attenzioni altrui. Nel bene e nel male. Tu fai l’esempio di persone famose che sono persino state colpite fisicamente per la loro fama. Purtroppo succede. Succede di essere vittime del fanatismo, nel bene e nel male, a persone molto famose così come ad altre magari meno famose ma più accessibili, come puoi essere tu.
        Come ci si può proteggere? Nello stesso modo in cui ci si protegge da altri eventi nefasti. Ovvero facendo attenzione, tenendo gli occhi bene aperti, essendo pronti a reagire e sperando che vada tutto bene. Nella maggior parte dei casi questo è sufficiente, a volte purtroppo no. Ma fa parte delle variabili della vita a cui dobbiamo sottostare inevitabilmente.
        Ci può chiedere se ne vale la pena, ovviamente. E si può rispondere che no, non la vale. E forse davvero non la vale, però l’alternativa è tornare nell’anonimato che, però, non garantisce comunque di non essere oggetto dell’attenzione altrui, semplicemente lo rende meno probabile.

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  3. Non ho letto Il giovane Holden, ma Salinger non ha akcuna responsabilità in ciò che ha scritto. La mente umana è quella che è: i folli ci sono sempre stati e sempre ci saranno. C’è gente che ha commesso stragi prendendo alla lettera ciò che ha letto nella Bibbia, ma quel libro e i tanti autori che lo hanno scritto non hanno alcuna colpa.
    La colpa è di chi compie quelle azioni.
    Idem per Goethe e Foscolo: non hanno alcuna colpa.
    Non mi pongo queste domande, comunque. La gente interpreta a modo suo ciò che legge. E l’etica in questo senso non credo c’entri nulla.

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    • Le persone sono folli a prescindere, è vero. Le colpe sono di chi commette le azioni. Ma anche scrivere è un’azione. Hai la stessa opinione vero il Mein Kampf scritto da Hitler? Se i libri non hanno alcuna responsabilità, perché il Mein Kampf è stato messo all’indice per tanti decenni?

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      • Il Mein Kampf è stato messo all’indice per ovvi motivi: era di Hitler e, dopo quello che ha combinato, era naturale che fosse censurato, anche se io sono contro queste censure. Quando lo leggerò, me ne farò un’opinione, ma sarà mia, appunto.
        La scrittura sarà pure un’azione, ma nessuno obbliga le persone a leggere. Inoltre, siamo dotati di intelligenza.

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      • Per questioni politiche e anche per un certo senso di colpa. Questo te lo posso dire dopo aver vissuto diversi anni in Germania.
        Sto per andare fuori tema.
        Personalmente ritengo che la ripubblicazione del mein Kampf sia un atto dovuto e doveroso, ovviamente con i dovuti commenti e appropiati commenti, questo perchè i tedeschi hanno vissuto per rimozione (proprio a causa di quel senso di colpa colletivo di cui accennavo sopra), ma così facendo non si sono “vaccinati” contro il ritorno della “malattia”, l’hanno semplicemente ignorata. Ora la malattia sta tornando (mi riferisco nello specifico al fenomeno PEGIDA) ma non sono in grado di accorgersene proprio perchè hanno rimosso dalla loro coscienza e dalla loro memoria i sintomi.
        La rilettura ragionata di quel libro dovrebbe dirgli: occhio, stai imboccando la stessa strada.
        Il discorso sarebbe un po’ più lungo, ma come fuoritema direi che può bastare.

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        • Non so cosa sia la PEGIDA, ma credo di aver colto il tuo pensiero. Anche un libro come il Mein Kampf (che tra l’altro possiedo, aspetto solo di aver il tempo per leggerlo) merita d’essere letto. In questo caso, però, chi ha scritto il Mein Kampf ha una certa responsabilità, mi pare.

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          • Beh, però chi ha scritto il mein Kampf ha ottenuto il suo scopo. Un po’ come se Al Capone avesse scritto un manuale sull’estorsione.

            PEGIDA sta per Patriotische Europäer gegen die Islamisierung des Abendlandes ovvero partito europeo contro l’islamizzazione dell’occidente. Se ne è parlato anche in Italia, solo che in italia lo accostano all’estrema destra neonazzista, sbagliando. Siccome si riuniscono ogni lunedì poco lontano da dove abito li ho incontrati spesso. Non hanno nulla a che vedere coi neonazzisti tedeschi, sono persone comuni, vestitein modo sobrio, spesso si recano agli incontri con la famiglia, anche coi bambini. Loro si sentono nel giusto, non si considerano neppure razzisti o xenofobi, pensano solo i difendere i valori in cui credono e ascoltano concentrati e attenti i discorsi dei loro leader (non ti so però dire quanto questi discorsi siano farneticanti non essendomi mai fermato ad ascoltarli). A vederli mi hanno ricordato molto coloro che si riunivano nella famosa birreria di Monaco ad ascoltare i discorsi del futuro Fuhrer. Per questo penso che se qualcuno gli aprisse gli occhi e gli mostrasse le similitudini che io dall’esterno ho notato forse cambierebbero atteggiamento.

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            • A questo punto hai una sola cosa da fare: introdurti nell’ambiente fingendoti uno di loro e poco alla volta erodere la loro base ideologica.

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                • Chi ha detto che dovrebbero essere i soli teutonici a preoccuparsi per il futuro culturale dell’europa… 😛 Caro agente 007 e 1/2 si faccia avanti e affondi la congiura. XD

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    • Be’ alla fine non mi pare che arrivi ad alcuna conclusione. Forse non esiste una conclusione possibile? Tutto dipende dallo scrittore, cioè dall’uomo? Così come ci sono uomini assennati e uomini stupidi ci possono essere scrittori irresponsabili e scrittori che avvertono il peso di ciò che scrivono… Tuttavia non sempre i secondi sono quelli che vendono di più.

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  4. Il confronto tra la reazione dei tedeschi e degli italiani ai famosi romanzi ottocenteschi mi ha ricordato una vecchia barzelletta, così vecchia che penso sia inutile riraccontarla, per la cronaca ne sono protagonisti il fuhrer, il duce, una piuma e un paio di plotoni di soldati tedeschi e italiani.

    P.S. se non hanno cambiato l’ordinamento scolastico come faceva la ragazzina a frequentare la quarta liceo classico? 😀

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  5. Fra le righe ne parla anche la Ferrante ne l’amica geniale riferendosi all’effetto che hanno le parole di Lila sull’amica e sul fratello.

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    • Sì, è vero. Tieni conto che questo articolo l’ho scritto prima di leggere il libro della Ferrante. In realtà l’ho scritto mesi fa, e aspettavo solo il momento più opportuno per pubblicarlo (quello, cioè, in cui la ragazzina si sarebbe stancata di me e avrebbe staccato ogni collegamento con il sottoscritto).

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  6. Questo articolo è veramente molto interessante, Salvo. Di ciò che scrivi potremmo parlarne per ore.
    Per prima cosa, mi è venuta in mente una frase trovata online tempo fa. Se non ricordo male è estratta dal libro che Mario Maccione delle Bestie di Satana ha scritto in carcere. Come forse sai, i media si erano accaniti contro il genere di musica ascoltata e scritta da queste persone, per i messaggi subliminali che a detta loro trasmetteva. Però, il tipo in questione, replicava che se si fosse occupato solo della musica, tutto ciò non sarebbe successo. La devianza era qualcosa che già covava in lui. La musica, di per sé, non ha creato il male dal nulla…
    Ho voluto citare questo ricordo, per far presente che noi – lettori, ascoltatori, spettatori – non siamo scatole vuote dentro cui si possa inserire senza cognizione critica qualunque contenuto. Un testo, un film e una canzone incontrano il background dell’individuo. Il loro significato, pertanto, è elaborato in chiave soggettiva. Uno scrittore o un musicista non può far impazzire la gente. La gente è già pazza. Le nostre parole attecchiscono su un terreno già impervio e viene trasformato.
    Nonostante ciò, io sono molto attenta alla chiarezza del messaggio. Sento molto forte la mia responsabilità, ma è una “responsabilità positiva”, se così si può dire: per me scrivere è una missione, è la condivisione di ciò che ha trasformato la mia vita, ovviamente in senso buono. Non temo che le persone possano fare “qualcosa di male” leggendomi, perché ciò che dico veicola valori importanti. Certo, ognuno ha il libero arbitrio, e può agire in conseguenza delle mie parole, ma queste parole intercettano un intento preesistente. E chissà, magari possono anche fare del bene. Per esempio, tu sai che sono contro un certo modo di concepire il lavoro dipendente, e non mi faccio remore a scriverlo sul blog perché penso che ogni individuo abbia il diritto (se non il dovere verso se stesso) di lottare per avere un’esistenza all’altezza dei suoi obiettivi e delle sue capacità. Ma se tu, leggendomi, decidi di licenziarti da un giorno all’altro senza valutare i pro e i contro la decisione è tua. 😀

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    • La gente è già pazza, è vero. Non sono certo le parole di un libro, o di una canzone, film, ecc. a farle uscire fuori di senno. Questo spiega anche il perché un certo libro piaccia ad alcune persone e non ad altre: ci vuole una certa propensione; si deve essere nel giusto stato d’animo: quello che ti permette di immedesimarti con un certo personaggio o situazione. Tuttavia, premesso questo, le tue parole un effetto ce l’hanno. Sicura d’essere in grado di difendere la tua coscienza dietro una barriera tanto esile? Quella, cioè, del: io non spingo nessuno a fare niente.

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      • Per rispondere a questa domanda, prendo spunto dalla mia esperienza personale. Come forse già sai, io fumo, e anche tante. Più volte in passato ho accampato scuse del tipo: non volevo fumarla, questa sigaretta, poi Beppe/il capo/mia mamma mi ha fatto innervosire.” Okay, ma loro non mi hanno mica obbligato, è stata una reazione individuale libera e consapevole.
        Allo stesso modo, fermo restando che io cerco di mandare messaggi positivi con i miei scritti (in poche parole: forse se spingessi qualcuno a far qualcosa sarebbe anche un bene :D) ribadisco che non obbligo nessuno a fare niente. Non penso che la mia coscienza sia un filtro esile. Lo sarebbe se io scrivessi “uccidere è giusto”. Io non scriverei mai qualcosa che potrebbe danneggiare gli altri. E se questo dovesse succedere, sarebbe per il libero arbitrio altrui. Spero di essermi spiegata bene. 🙂

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        • Aggiungo inoltre che spesso la gente esagera nel dare le colpe. Mi è venuto in mente Marco Masini, che ha avuto la carriera rovinata perché accusato di aver spinto un ragazzo al suicidio con una canzone. Queste secondo me sono esagerazioni che possono anche rovinare la vita a una persona.

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          • Su questo condivido: mi pare che l’accusa dall’esterno non regga (cioè che sia un altro ad attribuirti delle colpe). Rimane la responsabilità morale verso la propria coscienza.

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        • Ti sei spiegata, ma giro il tuo punto di vista: tu scrivi un messaggio positivo e questo messaggio attecchisce così tanto e così positivamente in un tuo ipotetico lettore che egli, per ricambiare con entusiasmo il tuo apporto positivo nella tua vista, comincia a essere prima invadente e poi molesto… C’è, insomma, anche una responsabilità verso se stessi e la propria famiglia, e che il messaggio sia positivo o negativo non mi pare cambi il problema.

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          • Io mi ero focalizzata su un altro lato del discorso, ovvero sulla responsabilità dell’autore che spinge il lettore a “fare cose”. Se devo essere sincera non ho mai considerato la questione in quest’ottica, anche perché non mi sono mai trovata in situazioni del genere. Però penso una cosa: la mia collega mi ha sputato sulla sedia, mi ha frugato nei cassetti e ha cercato di farmi buttare fuori dall’ufficio. Anche questa, se ci pensi, è una forma di “invadenza molesta”. Che responsabilità ho in tutto questo? Allo stesso modo, ho un’amica che mi chiede tutti i giorni l’oroscopo. Ho smesso di farglielo quando ho visto che stava diventando una fissazione. Questo per dire: nella scrittura come nella vita, noi siamo responsabili delle nostre azioni, ma non del modo in cui gli altri rispondono. Possiamo tutelarci, possiamo proteggerci, possiamo trasformare la realtà nel nostro piccolo, ma se ci lasciamo fagocitare da ciò che potrebbe succedere dicendo questa o quell’altra cosa rischiamo di “non vivere più”. A un certo punto, occorre semplicemente fare, intervenendo su ciò che possiamo controllare, e incrociando le dita per ciò che riguarda il comportamento altrui, che non possiamo prevedere. 🙂

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            • La tua collega si comporta come alle elementari. Anzi, peggio: io alle elementari non ricordo compagni che sputassero sulle sedie degli altri.

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  7. Pingback: Settimanale16: La responsabilità dello scrittore – Circolo16

  8. Riflessioni interessante. Penso che siamo responsabili di tutto quello che facciamo, e quindi anche di quello che scriviamo, anche se raramente ci rendiamo conto di questa responsabilità. Spesso per esempio mi è capitato di stupirmi moltissimo quando qualcuno mi scrive in privato e mostra di aver preso alla lettera qualcosa che ho detto sul blog. Forse bisognerebbe porsi questo problema in modo serio, con più attenzione al messaggio che trasmettiamo, sia con i post che con le storie.
    Chiara ha fatto l’esempio di qualcuno che potrebbe licenziarsi in seguito a quello che lei dice sul suo lavoro, e a me è venuto in mente di aver avuto lo stesso dubbio per la storia che sto scrivendo attualmente, dove appunto una persona si licenzia. Mi sono detta: e se qualcuno davvero venisse spinto fino al punto da prendere le motivazioni di questo personaggio e farle sue?
    D’altra parte come ha ribadito qualcun altro, noi siamo responsabili fino a un certo punto. Le persone dovrebbero essere in grado di pensare con la loro testa e agire di conseguenza. E’ vero che un libro ha molto potere su di noi, molto più di quanto ci rendiamo conto. Ma è anche vero che abbiamo delle teste per valutare ciò che viene scritto.

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    • Grazie Maria Teresa, apri uno scenario che va contro tendenza rispetto agli altri commenti. Dunque, alcune volte mi capita di rileggere i post più vecchi che ho scritto per questo blog. Con alcuni di essi sono ancora piuttosto allineato. Magari non perfettamente, ma abbastanza. In altri non mi riconosco più (di uno in particolare ne parlerò fra qualche giorno). Eppure stanno lì. Qualcuno che capita nel mio blog per caso, qualcuno che non lo frequenta assiduamente come fate voi e che quindi non è stato spettatore della mia crescita, potrebbe leggerlo e prenderlo alla lettera. Peggio ancora: potrebbe pensare che io la pensi ancora allo stesso modo, riguardo un determinato argomento. Questa è un’altra sfaccettatura dello stesso problema, mi pare, no?

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  9. I camorristi hanno elevato il Tony Montana di Scarface a modello di vita. Non bisogna allora più creare personaggi negativi, visioni diaboliche, filosofie mortali? Uno stupro, una tortura, l’omicidio, il bullismo possono entrare in una narrazione? Sì, ma solo se ne strettamente necessari, e mai con il compiacimento di chi scrive, credo che la responsabilità morale debba essere di questo tipo.
    Se uccidere un uomo è male, lo è anche nella fantasia. Uccidiamolo solo se non esistono altre possibilità di fuga. Non mi piace il compiacimento morboso di registi e scrittori per qualsiasi tipo di devianza, giustificato in base al botteghino.

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    • Come sempre, caro Hell, sei il più saggio fra noi. Tuttavia mi pare che tu ti riferisca solo alla responsabilità verso l’esterno. Eppure mi pare che ci sia anche un altro tipo di responsabilità: quella verso noi stessi. Cerco di spiegarmi meglio. Grazie hai racconti che pubblico su Confidenze comincio ad avere qualche fan. Alcune di queste “fan”, molto poche a dire il vero, colpite dai miei racconti, dalle mie parole, sono giunte fino alla mia pagina fb. Nulla di male in questo, anzi che Dio protegga e moltiplichi ciascuna di loro, amen. Tuttavia il passaggio dal leggere un mio racconto e mettersi a cercare il mio profilo su facebook, e il cominciare a inviare foto private nella chat, messaggini ad ogni ora, fino ad aspettarmi sotto casa mi pare piuttosto labile. Quindi, credo, esiste anche una responsabilità verso noi stessi e i nostri cari: quella di proteggerci.

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  10. Come insegnante e scribacchina mi sono posta spesso questo genere di domande, che non trovo superflue.
    Credo che quando si ha un lavoro a contatto con un pubblico, in qualsiasi maniera, (compreso quindi il lavoro di scrittura, in cui contatto è spesso indiretto, ma c’è) si debba essere trasparenti. Veicolare messaggi che siano coerenti con il nostro modo di vivere e con quello che diciamo in altri ambiti, prendendosi tutte le responsabilità del caso. Non sono bacchettona, tutt’altro, ma se porto i miei alunni a un incontro contro la droga (come questa mattina) poi non posso pubblicare un racconto in cui è implicitamente o esplicitamente detto che drogarsi va bene (e lavorando con Sherlock Holmes questo è un esempio concreto). Se scrivo ad esempio un racconto in cui Sherlock Holmes si droga per migliorare le proprie capacità intellettive e grazie a questo poi risolve un crimine, passando quindi il messaggio che in alcuni casi drogarsi è lecito poi devo avere il coraggio di dire la stessa cosa anche in altri ambiti (cosa che, ovviamente, non mi appartiene). Non ho certo una responsabilità legale verso eventuali emuli, ma non sarei così sicura su quella morale. Poi, ovvio, ognuno vive come vuole con la propria coscienza.
    Io scrivo gialli in cui spesso avvengono fatti disturbanti e vi sono personaggi al limite e sono un’educatrice quindi un’occhio alla coerenza con quello che vado dicendo fuori dai miei racconti ce lo devo mettere.
    Questo non vuol dire non mettere personaggi negativi nelle storie o non raccontare il fascino del male o l’ambiguità morale. Credo che però ci sia un senso complessivo che ogni storia trasmette e che questo senso debba essere coerente con quello che noi andiamo dicendo ogni giorno.

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    • Penso che il ruolo dell’insegnante debba essere anche quello di insegnare a distinguere tra personaggio letterario e realtà. Anche personaggi positivi possono portare a pericolose emulazioni. In qualche modo mi fa un po’ paura l’autore che si autocensura, preferisco che sia il lettore ad imparare a distinguere tra realtà e fantasia.

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        • Tu sei lo scrittore, io sono solo il commentatore 😛
          Tra l’altro leggendo anche gli altri commenti ho pensato ad un paragone con quelle che sono le star del cinema ad esempio, nel qual caso realtà e fantasia, personaggio e attore, tendono a mescolarsi, creando un ancora più forte effetto di emulazione. Pensa a James Dean ad esempio.

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    • Leggo dell’incoerenza, involontaria certo, in quello che scrivi. La quale definisce perfettamente la complessità di questo argomento. Ad esempio, scrivi che bisogna avere un atteggiamento trasparente: «[…] se porto i miei alunni a un incontro contro la droga (come questa mattina) poi non posso pubblicare un racconto in cui è implicitamente o esplicitamente detto che drogarsi va bene» eppure, come ricordi da te, scrivi racconti su Sherlock Holmes (un drogato perso, non ricordo quale di quale droga però: morfina?). Capisco cosa intendi parlando del senso generale, cioè: che Sherlock Holmes si droghi va bene perché il personaggio ha quel tipo di problema, ma io come autrice devo assicurarmi che al lettore giunga il messaggio: “questa è una cosa negativa”. La contraddizione sta nel fatto che a te il personaggio di Sherlock Holmes piace, altrimenti scriveresti di altro, è scommetto che ti piace in toto: anche per i suoi lati negativi. Eppure non approveresti che uno dei tuoi studenti, magari geniale come Sherlock, provasse la stessa droga. Ora: si può forse distinguere tra immaginario e realtà? Io credo che la soluzione al garbuglio, all’intrico sia dare per scontato che ciò che i nostri personaggi fanno nel mondo immaginario (letterario, cinematografico, fumettistico e via dicendo) debba essere trattato in modo separato dalla realtà quotidiana.

      Tuttavia ti do ragione sulla responsabilità morale e con questo post proprio a quella mi riferivo. Forse non possiamo farci nulla. Non credo che si debba limitare la propria vena artistica per il pericolo che da essa possa scaturire qualcosa di malvagio. Tuttavia ognuno di noi è dotato di una coscienza e con quella deve fare i conti.

      Poi, come scrivevo a Hell, c’è anche la questione di doversi in qualche modo tutelare. Perché con responsabilità finora abbiamo inteso solo quella che dalle nostra parole possano scaturire azioni contro terzi; ma possono scaturire anche azioni contro noi stessi. Soprattutto quando un fan si immedesima così tanto in ciò che scrivi da innalzarti a idolo. E gli idoli sono una cosa pericolosa; non solo per gli altri, anche per se stessi.

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      • Ci tengo che un mio alunno, nel leggere un mio libro non abbia l’impressione che sia stato scritto da una persona diversa. È diverso descrivere un comportamento come tratto di un personaggio dal farlo apparire in luce positiva. L’esempio della droga secondo me è calzante: se descrivo in classe gli effetti negativi della droga, poi quel ragazzo non può trovare un mio racconto che gli dà l’impressione che drogarsi sia una bella cosa. Troverà dei miei racconti in cui il protagonista si droga, ma avrà gli stessi problemi che sono stati descritti in classe e il ragazzo non potrà avere l’impressione che il personaggio abbia fatto bene a drogarsi. Potrà empatizzare con lui, capire cosa lo ha spinto, percepirne anche il fascino ma dovrà anche essere chiaro che no, drogarsi non ha fatto bene al personaggio.
        Nel caso specifico di Sherlock Holmes, come ho già detto proprio ai ragazzi, lo ammiro anche se si droga, così come si può essere amici di una persona che commette una sciocchezza e preoccuparsi per lui. Non censurerei mai il personaggio, ma non minimizzo per nulla il problema. Nel caso specifico mi ha anche aiutato a spiegare che compiere errori non vuol dire essere stupidi, anche le persone intelligenti fanno errori terribili a volte.
        Se Sherlock Holmes non si drogasse sarebbe meno interessante narrativamente, ma se non si fosse disintossicato (come avviene nel canone) lo ammirerei di meno. Quindi mi è già capitato di pubblicare un racconto su Sherlock Holmes che affrontasse il tema della droga e spero sia chiaro a chi legge che Holmes se la cava anche se si droga, non perché si droga.
        Probabilmente io vivo la situazione un po’ al limite, essendo insegnante in un piccolo paese e mi sono già trovata alunni e mamme alla presentazione di un libro che non era stato pensato per i ragazzini. Ho spiegato che forse erano un po’ piccoli per quel romanzo, ma so che dopo che lo hanno letto non hanno avuto l’impressione che a scriverlo fosse stata un’altra persona. Se in un mio scritto emerge chiaramente come la penso su determinate cose, poi devo avere il coraggio di dire lo stesso anche a una mamma o a un alunno. È ovvio da ciò che scrivo, ad esempio, che sono favorevole alle unioni civili e che allargherei tranquillamente anche la possibilità di adozione, non è che poi posso fare marcia indietro davanti al collega di religione appena tornato dal family day…
        Spero di essermi spiegata. E spero di riuscire ad essere coerente sempre. Non è facile, ma ci provo.

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        • No, non credo sia facile. Immagino, ad esempio, che l’apparenza pubblica e il pensiero privato alcune volte possano trovare strade diverse, per ragione o per necessità.

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  11. Può essere troppo semplicistico, ma io penso che uno scrittore sia responsabile di quello che scrive, non di ciò che il lettore capisce leggendo.
    Potrebbe sembrare molto sottile come differenza, ma c’è. Eccome se c’è.
    Se voglio trasmettere un certo messaggio (attraverso un aforisma, un racconto, un romanzo, una e-mail, un quadro, una scultura) non posso sapere come viene recepito questo messaggio, se viene recepito nella maniera corretta e, soprattutto, non posso sapere quando e da chi viene interpretato. Ogni lettore vive una propria realtà, un proprio contesto. Un lettore se legge lo stesso racconto in due fasi di vita differenti, interpreta il messaggio diversamente. Tutti possono sperimentare questo aspetto: prendete un libro che vi hanno “costretto” a leggere sui banchi di scuola. Da adolescenti probabilmente lo avete detestato o anche semplicemente non capito. Se lo rileggete ora, a distanza di anni, l’effetto che ne ricaverete sarà sicuramente diverso. Eppure le parole, le frasi, i capitoli, sono rimasti immutati.

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    • Molto giusto, Dario. Le parole rimangono sempre uguali, siamo noi a cambiare. Ma questo nasconde una lama a doppio taglio: con gli anni potremmo non riconoscerci più in quello che abbiamo scritto; tuttavia le parole restano come testimonianza eterna (più o meno).

      La tua semplificazione non mi pare semplicistica, tutt’altro. Nonostante questo, vi possono essere circostanze in cui questa labile linea demarcativa è inapplicabile. Mettiamo che tu scriva un romanzo in cui le torri gemelle vengano abbattute da un aereo di linea dirottato, e che un terrorista prenda spunto dalle tue parole, dalla tua idea per fare altrettanto (riuscendoci): il mattino dopo ti guarderesti allo specchio?

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      • Lo scrittore cresce e cambia esattamente come il lettore. Su questo concordo. A maggior ragione il lettore accorto deve saper contestualizzare ciò che legge. Se il lettore non è accorto (e, nel peggiore di casi, travisa o estremizza) non può essere colpa dello scrittore. Né quando il romanzo è fresco di stampa, né quando viene letto a distanza di decenni (cioè quando lo stesso scrittore ha fatto un suo percorso di crescita, non solo artistica…).
        Tu fai l’esempio delle torri gemelle: è chiaro che il giorno dopo mi sentirei in “colpa” se come scrittore avessi predetto uno scenario del genere. Ma anche qui credo che prima o poi me ne farei una ragione perché troverei ovvio che è colpa del lettore che ha estremizzato una finzione letteraria fino ad arrivare a realizzarla. Lo stesso discorso si può applicare a qualsiasi ambito della vita quotidiana. Prendiamo un coltello: lo si può usare per tagliare una torta o per uccidere una persona. Chi ha inventato il coltello chiaramente non ha nessuna responsabilità, in nessun caso. E’ chiaro che poi nella scrittura ci sono infinite sfumature di responsabilità: se sono un politico, un medico, un giornalista che scrive secondo determinate ideologie, allora potrei avere responsabilità oggettive se cerco, con i miei scritti, di influenzare un certo tipo di pubblico. Ma finché siamo nel campo della finzione letteraria, trovo che il responsabile ultimo sia il lettore. Quindi torno sul mio pensiero iniziale: uno scrittore è responsabile del messaggio che scrive, non di come crede di capirlo il lettore.

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  12. La tua frase è molto bella, e secondo me non dovrebbe avere effetti negativi perché invita a sbagliare ma con la consapevolezza che uno sbaglio può non essere cambiato in quanto il passato non si cambia.
    In ogni caso capisco cosa intendi con la responsabilità della scrittura, lo stesso Sartre, padre dell’esistenzialismo, con il suo romanzo La nausea sembra abbia causato molti suicidi, dicono.
    Io l’ho letto, ma sono ancora viva. Credo che ognuno veda in un libro quello che vuole vedere, secondo lo stato d’animo di un determinato momento, secondo il proprio vissuto e la propria personalità.
    Quindi anche un libro apparentemente innocuo può portare qualcuno a gesti estremi.
    Alla luce di questo tuo post (molto bello tra l’altro) mi conforta sapere che in quello che scrivo cerco sempre di metterci un messaggio positivo (ho questa mania del bicchiere mezzo pieno…)
    ma non so se questo può bastare a fermare i folli.

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    • Grazie, Giulia. Mettiamo però che il tuo messaggio positivo cambi in meglio la vita di qualcuno. E che questo qualcuno, per ricambiare con entusiasmo il tuo apporto alla sua esistenza, cominci a diventare prima invadente e poi molesto… Sicura che c’è tutta questa differenza tra messaggio positivo e messaggio negativo?

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      • Mettiamo che tu ad esempio decida di far morire la tua protagonista, e mettiamo che una sera, su una strada isolata, durante un forte temporale la tua auto resti in panne, e mettiamo che tu sia costretto a chiedere aiuto e ospitalità nella prima casa che trovi, e mettiamo che questa casa sia abitata da una tua fans che leggendo il tuo manoscritto inedito scopra le tue intenzioni di far morire la sua amata eroina…
        Potrebbe venirne fuori una bella storia. Ah, no, ooops, troppo tardi 😀
        Sì capisco il tuo discorso, però se uno comincia a preoccuparsi di quest cose o smette di scrivere o si procura uno pseudonimo a prova di bomba 😉

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  13. La responsabilità c’è solo se c’è l’intenzione.

    Se Bukowski dice “Find what you love and let it kill you” e io mangio Nutella fino all’infarto, non è colpa sua.
    Ma se Bukowski l’avesse detto con l’intento di spingermi a morire grassa e felice, allora la mia morte sarebbe anche, ma non solo, una sua responsabilità.

    Nel tuo caso, Salvatore, tu avevi buone intenzioni quando hai scritto la tua frase storica, non potevi immaginarti come questa ragazzina l’avrebbe interpretata o cosa ne avrebbe fatto. Se una fan di una rock star si tatua una canzone dell’idolo “per averlo sulla sua pelle” (#truestory) che ci può fare la rock star? Goderne o fregarsene. Di sicuro non prendersene la colpa.

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    • Quando facevo pugilato una delle prime cose che mi dissero fu che se rimanevo coinvolto in una rissa la mia conoscenza dell’arte marziale mi avrebbe procurato agli occhi del giudice un’aggravante, sia che la rissa l’avessi provocata io sia che ne fossi rimasto coinvolto mio malgrado. Per lo scrittore non è diverso. Uno scrittore è un professionista della parola. La sa usare per ottenere degli effetti. Se una persona comune scrive una frase che spinge gli altri ad agire in un certo modo, e la scrive senza l’intenzione di traghettarli in una certa direzione, non gli si può imputare alcuna colpa. Ma uno scrittore è un professionista e in questo senso c’è nei suoi confronti un’aggravante, al di là dell’intenzione. Credo sia necessario riflettere bene sulle conseguenze di ciò che si scrive. E credo sia necessario prestare attenzione agli atteggiamenti troppo entusiastici dei fan. Forse è per questo che più si diventa famosi, più si tende a isolarsi dagli altri.

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