Storie brevi

Perché scrivere un racconto al posto di un romanzo?

Mi trovavo al solito bar, quello sotto l’ufficio. Era uscito da poco su Confidenze La grande nevicata. Servendomi il pranzo e approfittando della familiarità, la cameriera che lavora lì mi si fece vicina e sottovoce mi disse: «Ieri sono andata su internet per cercare il tuo racconto, ma ho trovato un romanzo scritto da qualcun altro…» Gliene avevo accennato distrattamente la settimana prima. Con lei non corro il pericolo d’apparire vanesio. Per qualche istante la fissai immobile, senza riuscire davvero a comprendere quello che mi stava dicendo. Poi… poi ho capito.

Allora le ho spiegato che La grande nevicata è un racconto; e che se avesse cercato su internet un libro intitolato a quel modo, e non avevo assolutamente idea che qualcuno ne avesse scritto uno, probabilmente le sarebbe successo esattamente quello che le è capitato. Cioè di non trovarlo. Fu lei allora a fissarmi senza comprendere. In quel preciso istante capii che la maggior parte delle persone (leggi: non lettori), quando parlano di racconti, intendono romanzi.

Se a questo aggiungete il fatto che mio padre, ogni volta che incontra qualcuno, per strada o sul pianerottolo di casa o, immagino, al supermercato, con cui è abbastanza in confidenza per vantarsi di me senza apparire petulante o inopportuno, confonde spesso il termine “racconto” con “romanzo” – «Sai, è uscito il nuovo romanzo di mio figlio. Lo trovi su Confidenze…» –, ecco che l’idea prevenuta che ho sviluppato insinua radici profonde. Lo racconto perché l’ho beccato una volta, fermo sul pianerottolo di casa, a parlare con la signora che lava le scale…

Nasce così l’idea per questo post, quella cioè di spiegare la differenza che passa tra un racconto e un romanzo. Poiché, tuttavia, mi rivolgo a dei lettori che hanno più dimestichezza con questi concetti rispetto alla cameriera del bar o mio padre, non mi limiterò a dire ciò che a prima vista potrebbe sembrare banale, ma cercherò di spiegare il perché si sceglie di scrivere un racconto al posto di un romanzo.

Che differenza c’è tra un racconto e un romanzo?

Ho letto da qualche parte questa definizione: “Il racconto è una singola faccia di un diamante, il romanzo è il diamante”. In realtà l’ho inventata sul momento, ma anni fa avevo davvero letto qualcosa di simile. Per quanto poetica, questa definizione è inadatta. Non spiega in alcun modo la differenza che passa tra un racconto e un romanzo né, tantomeno, il motivo per cui si sceglie una forma al posto di un’altra. Dunque, prima di inventare altre definizioni caustiche, proviamo a osservare i dati oggettivi:

Racconto

Romanzo

Ha un’esposizione breve

Ha un’esposizione ampia

È privo di sottotrame

È pieno di sottotrame

Ruota attorno a un’unica vicenda

Incrocia almeno due storie

Queste sono le principali differenze; ce ne potrebbero essere altre, ma non è il caso di fare lunghi elenchi. Già solo queste tre bastano a delineare la caratteristica più importante: il racconto cerca il cuore della storia, va dritto al punto e non si perde in chiacchiere. Il suo scopo, cioè, non è quello d’intrattenere il lettore, non solo almeno. Il racconto ha uno scopo più nobile, più alto: vuole illuminare il lettore. Può essere breve, lungo o brevissimo, a seconda delle necessità, ma si concentrerà sempre ed esclusivamente sul dispositivo drammatico, sul nucleo vero della storia.

Il romanzo, invece, poiché vuole soprattutto, non solo ma soprattutto intrattenere il lettore, si prefigge l’obbiettivo di raccontare la storia nel modo più minuzioso e preciso possibile. Per farlo gira attorno ai fatti, scende in profondità nei dettagli, ripercorre a ritroso i motivi che hanno spinto un personaggio a comportarsi in un determinato modo… E poiché le storie non sono mai la conseguenza di una singola azione, ma il risultato di una congestione di fatti, ecco che servono almeno due vicende, incrociate fra loro, per fare un romanzo.

Ad esempio, se il dispositivo drammatico fosse il seguente:

Una giovane ragazza resta incautamente incinta e decide di abortire. Ad anni di distanza, però, non riesce a farsene ancora una ragione.

… il racconto si concentrerà esclusivamente sul sentimento di inquietudine che la donna, ormai matura, prova ogni volta che le capita di pensare a quel particolare evento del suo passato. Cercherà quindi il modo più diretto ed efficiente possibile per trasmettere quest’informazione, e tutto il sostrato di emozioni che si trascina dietro, senza perdersi nei dettagli meno essenziali, senza starsi a domandare, ad esempio, il perché e in che modo si è giunti a quella situazione. Il racconto parte, cioè, dal presupposto che la situazione sia in atto, e analizzandola in profondità – perché un racconto che si rispetti non si ferma mai in superficie, ma corre come una freccia al cuore del bersaglio – ne crea un distillato efficace.

Da questo dispositivo drammatico nasce, ad esempio, Come una bambola; in cui, approfittando dell’analogia che si crea tra la bambola, che la protagonista Carlotta, da piccola, trova per caso nel cortile della scuola, e il bambino mai nato, frutto di un amore istantaneo con un compagno d’università; ogni volta che da adulta le capita di guardare verso quella bambola, da cui non è mai riuscita a separarsi, Carlotta prova quella sottile inquietudine che solo le donne che hanno abortito possono comprendere. Quella bambola, Carlotta, non riesce a guardarla; tuttavia non può neanche separasene. Resta quindi imprigionata in un limbo senza vie d’uscita; esattamente come una donna che ha abortito.

Quale forma scegliere?

Io ho questo principio:

Di ogni storia, prima di scriverne il romanzo, fanne un racconto. 

Perché ho questo principio? Perché ho notato che in genere la forma del racconto è sufficiente ad analizzare e descrivere un determinato dispositivo drammatico. Raramente una storia necessita di una forma più estesa, e l’efficienza è il principio che ordina e determina il mondo.

Naturalmente se alla domanda: quale forma scegliere?, voi rispondete “romanzo” perché è la forma che vi ispira di più, io non ho nulla in contrario; solo, esercito il mio diritto di non leggerlo il vostro romanzo.

In quali circostanze allora conviene passare alla forma romanzo? Quando il racconto da solo non basta. Quando cioè, nonostante lo abbiate scritto, il racconto non vi pare sufficiente a sviscerare il nucleo della vicenda. In questo senso, potete intendere il racconto come una sorta di premessa al romanzo; con l’indubbio vantaggio che determinando già così bene il dispositivo drammatico, nella stesura del romanzo non potrete che venirne facilitati.

Prima dicevo che il romanzo vuole soprattutto intrattenere il lettore. Non è solo questo, naturalmente. Un romanzo è una forma letteraria che fa dell’estensione un mezzo per giungere a una conclusione. Ogni volta che il dispositivo drammatico non può essere sviscerato da un racconto, o da una poesia, non resta che ricorrere alla forma più estesa. Incrociando gli eventi, ampliando l’osservazione, forse si riesce a giungere lì dove un racconto, da solo, non basta.

Attualmente sto riflettendo se sia il caso di trasformare La grande nevicata in un romanzo.  Ci sto riflettendo per due motivi: da un lato, perché è piaciuto molto alle signore di Mondadori; dall’altro perché mi pare che il racconto non sia riuscito a esaurire la storia. Con Come una bambola, ad esempio, non ho altro da aggiungere. Su quel particolare argomento ho esaurito con un solo racconto tutto ciò che avevo da dire. Ma con La grande nevicata non è così. Il racconto stesso mi pare compresso. Quantomeno andrebbe esteso in una forma più ampia del limite di pagine che m’impongono per la rivista.

Approfitto quindi per chiedere a quanti l’hanno letto, nell’ottica di quanto scritto in questo post, se secondo il vostro parere vale la pena svilupparlo in un romanzo.

84 Comments on “Racconto Vs Romanzo: che differenza c’è?”

  1. Su questo argomento ci sarebbe da scriverci un libro, anzi, forse un giorno lo farò 😛 (ma non penso che un libro possa bastare).
    Questo anche per dirti che se potessi starei qui tutto il giorno a discutere delle caratteristiche delle differenze, delle nobiltà di uno o dell’altro mezzo.
    Comunque a me i racconti piacciono e mi dispiace che l’editoria italiana moderan li veda come un qualcosa che non vende, probabilmente hanno ragione loro, ma io li comprerei e così mi sento un po’ orfano.
    Quanto alle differenze di cui parli, ho letto racconti con sottotrame e con più di una storia e romanzi privi di sottotrame e che seguono una sola storia, forse in entrambii casi l’autore ha sbagliato il mezzo, però penso anche che dipenda dal modo con cui, ad esempio, le sottotrame nel racconto le sai gestire o come sai, nel romanzo, ampliare la singola storia senza tediare il lettore con descrizioni dettagliate di pagine e pagine.
    In “a pesca nelle pozze più profonde” Cognetti paragona il racconto alla fotografia e secondo me il paragone rende bene, perchè in qualche modo il romanzo puà essere paragonato al cinema, dando ad entrambi i mezzi la loro dignità proprio nella loro diversità.
    Mi tengo il resto delle descrizioni per i prossimi commenti 😛

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    • Il paragone con la fotografia rende bene l’idea ed è un po’ come dire che di un diamante il racconto è una sfaccettatura, mentre il romanzo è il diamante. Tutto dipende, secondo me, dal dispositivo drammatico. Al di là delle sottotrame e della lunghezza, il racconto cercherà sempre la strada più breve per definire, sviluppare e illustrare il dispositivo drammatico; il romanzo cercherà la strada più lunga.

      Anche La grande nevicata, ad esempio, ha delle sottotrame; solo che in questo caso, per via della brevità imposta, non sono state sviluppate e restano in attesa come potenzialità inespresse. E questo è un delitto.

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      • Più o meno, perchè la faccia di un diamante è una parte di un tutto, la fotografia è completa in se, e secono me un buon racconto non è una parte di qualcosa di più lungo, è un qualcosa di completo.
        Poi tu mi dirai che il film è fatto da un’insieme di fotogrammi, ma quei fotogrammi non sono fotografie, senza i fotogrammi che lo precedono e lo seguono non hanno significato.
        Anche se, ammetto, ci sono romanzi che in realtà sono costituiti da racconti, ogni capitolo separato dagli altri sta insieme da solo, ma sono casi molto particolari.

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  2. Dimenticavo, leggendo la Ferrante stavo proprio pensando che mi piacerebbe leggere una storia del genere che però parli della mia regione, quindi sappi che se scrivi il romanzo della grande nevicata lo leggerò volentieri 😉
    In realtà si potrebbe ricavare un romanzo anche da “come una bambola”, con un approcio diverso però, tenendolo come nodo ed espandendo i contorni (no saprei bene come spiagarlo, ci penso su)
    Aggiungo ancora, in proposito di ricavare un romanzo da un racconto, che probabilmente fu un errore farlo per Giordano, il racconto da cui poi ha tratto il libro, che se non sbaglio è il primo capitolo, è molto migliore del romanzo che ne è venuto fuori. Probabilmente Giordano sarebbe stato un buon autore di racconti, e invece, perchè i racconti non vendono…

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    • Con Come una bambola in realtà non ho altro da aggiungere; il racconto dice tutto quello che c’è da dire su quel dispositivo drammatico e farne un romanzo sarebbe come allungare un brodo.

      La grande nevicata ha invece delle potenzialità latenti…

      Su Giordano concordo, ma anche il capitolo 2 è molto buono, secondo me. Non ho mai visto una scrittura che riesce a rendere così tanto in così poco spazio. Ho dovuto smettere per ben due volte di leggere il momento in cui racconta l’abbandono della sorellina disabile nel parco, per andare a una festa di compleanno. Una scrittura davvero intensa.

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      • La differenza secondo me è che la grande nevicata è una storia che può essere espansa approfondendo i vari aspetti, come una bambola no, ma il racconto può essere usato come una sorta di “nucleo narrativo” un punto di svolta nella vita di una donna che la cambierà per sempre e che la porterà a fare scelte diverse da quelle che avrebbe fatto senza passare da quella situazione. Insomma sarebbe una storia non contenuta nel racconto ma esterna ad esso. Un po’, mi viene in mente adesso, come la perla che si forma attorno al granello di sabbia.
        Poi ovviamente la storia deve venire fuori dall’autore, era solo per analizzare due possibilità diverse di ricavare una storia più lunga da un racconto.

        Sì, anche il capitolo 2, ma. l’ho letto un po’ di tempo fa, mi pare ci siano altri passaggi riusciti, secondo me è proprio l’insieme che perde, alcune parti sembrano forzate, scritte per riempire il buco tra due capitoli buoni.

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  3. Ti ho già espresso in altra sede la mia opinione, cioè che sì, assolutamente, vale la pena di trarne un romanzo. Non solo perché nel gioco tra romanzo e racconti sono una fan più dei primi che dei secondi, e non solo per i motivi che illustri in questo post e che condiviso, ma anche per il semplice piacere di intrattenere il tuo pubblico.
    Voglio dire, stiamo parlando di donne. Di un certo tipo di donne. Mi ci metto anch’io nel tuo target, visto che da un po’ di tempo mi induci ad acquistare Confidenze. Ci piace perderci nei romanzi, adoriamo farci cullare da una storia che in qualche modo rappresenti la realtà che viviamo tutti i giorni. Ecco perché hanno successo i tuoi racconti, perché parlano di noi. Dei nostri dubbi, delle nostre incertezze, delle nostre difficoltà ad affrontare la quotidianità.
    Un racconto è un flash che lancia una luce immediata, spesso fondamentale per capire certe dinamiche, come ben dici tu, illuminante, ma che svela le risposte quasi subito dopo averti presentato le domande.
    Io credo che un romanzo dia la possibilità al lettore, come al suo autore, di crescere man mano che la storia si sviluppa.
    Il fatto di richiedere tempi diversi sia nella lettura sia nella scrittura secondo me è funzionale al suo significato.
    Mi piace paragonarlo con la nascita e la crescita di un figlio: ci vogliono mesi per dare alla luce un bambino e anni perché diventi un uomo. Questo non è solo indispensabile al bambino per poter crescere poco alla volta, ma anche a noi genitori: non sapremmo affrontare le difficoltà che incontreremo quando i nostri figli saranno adolescenti, se prima non avessimo dovuto affrontare quelle dell’infanzia etc etc. Cioè, anche noi lentamente cresciamo assieme a loro.
    Per quanto riguarda il romanzo vedo la stessa dinamica di crescita tra lettore e autore.
    Nel racconto è tutto più compresso, più simile ad un maestro che educa un allievo.
    Entrambe sono cose utilissime, ma con finalità diverse.

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    • Questa è davvero una bella risposta Silvia, mi ha fatto riflettere. Soprattutto due cose: «Ci piace perderci nei romanzi, adoriamo farci cullare da una storia che in qualche modo rappresenti la realtà che viviamo tutti i giorni» e «Io credo che un romanzo dia la possibilità al lettore, come al suo autore, di crescere man mano che la storia si sviluppa». Sono entrambe delle verità assolute. Almeno, per il romanzo classico, ma in questo caso è proprio di un romanzo classico che stiamo parlando.

      Dunque, nella prima affermazione parli delle donne, «Di un certo tipo di donne» dici. Ma credo che, più in generale, valga per tutti i lettori, con le dovute differenze. A tutti i lettori piace perdersi nei romanzi, farsi cullare dalla storia, trascinare per strade che non avrebbero altrimenti imboccato e lasciarsi sussurrare in un orecchio segreti che altrimenti avrebbero ignorato. Questa è una grande verità.

      Nella seconda affermazione parli di crescita, e anche questa è un’altra grande verità. Il personaggio cresce, si evolve ed è una cosa che nel racconto ad esempio non avviene. Poiché si parla di un’istantanea, nel racconto il personaggio è già cresciuto, se doveva crescere. Nel romanzo invece lo vediamo evolvere poco a poco, ed è questo che ci piace.

      Grazie. 🙂

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  4. Io penso sinceramente che, per quanto se ne possa crucciare chi scrive, le differenze tra un racconto ed un romanzo non verranno mai efficacemente percepite da chi legge, almeno non dalla maggior parte dei lettori. In altre parole: il lettore tende a chiamare “racconto” tutto ciò che legge, indipendentemente dalla lunghezza, dalla presenza di sottotrame, dalla profondità o meno delle riflessioni e/o dei profili dei personaggi. Forse è la lunghezza che spinge a volte ad usare il termine “romanzo”. Per il resto sono d’accordo con Grilloz quando dice che ci sono racconti che hanno caratteristiche di romanzo e romanzi che hanno caratteristiche di racconto. Io quando ho una idea decente attorno alla quale mi pare di poterci scrivere una storia interessante non sono in grado di stabilire a priori se ne verrà fuori un racconto o un romanzo perché mi capita spesso, durante la stesura, di aggiungere idee che si incastrano alla perfezione. Quindi parto con una vicenda, pensando ad una esposizione breve e poi, cammin facendo, aggiungo sottotrame – senza che fossero in programma – solo per il gusto di dare vivacità all’intreccio. Se chi leggerà non è in grado di cogliere le differenze tra racconto e romanzo, non vedo sinceramente per quale motivo lo debba fare chi scrive. Soprattutto non vedo per quale motivo dovrei decidere di scegliere una forma piuttosto che un’altra. Io ho fatto la scelta “semplice” di chiamare racconti tutti i miei scritti, sebbene, stando solo alle tre caratteristiche citate nel tuo post, sarebbero (uso il condizionale) tutti romanzi. Infine sottolineo come alcune caratteristiche siano relative. Una su tutte: la brevità dell’esposizione. Per certi lettori uno scritto di 100 pagine è lunghissimo, per altri è troppo breve.

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    • Ne sono convinto anch’io, Dario, che per la maggior parte dei lettori questa distinzione non ha senso. Eppure, se così fosse, i racconti si venderebbero come i romanzi: se non c’è differenza… Invece una differenza c’è, e credo l’abbia delineata molto bene Silvia nella sua risposta: la presenza o meno di una evoluzione. Ora, non andrò a verificarlo, ma se fossi meticoloso come vorrei essere come minimo andrei a guardare in un paio di raccolte di racconti di autori famosi, anzi famigerati, ad esempio Buzzati e Carver, se nei loro racconti c’è o meno una crescita dei personaggi. Perché anch’io credo che la lunghezza non sia una discriminate, ma una differenza tra i due generi c’è e, se non del lettore, è senz’altro compito dello scrittore individuarla e decidere, in prima battuta, cosa fare.

      Aggiungo che se nei tuoi scritti hai la tendenza ad arricchire con sottotrame il dispositivo, per delineare meglio il contesto, è evidente che nella tua mente sia già ben chiara in partenza l’esigenza di scrivere non un racconto, ma un romanzo. Che differenza fa per i tuoi lettori? Nessuna, credo. Per te, invece, potrebbe farla: se, ad esempio, prima di lanciarti nella stesura della storia/romanzo, ti lanciassi in quella del racconto per delineare e sviluppare da subito il dispositivo drammatico, il romanzo non potrebbe che beneficiarne. Sospetto però che, prima di partire, non ti poni quasi mai il problema di decidere un dispositivo drammatico, dico bene? 🙂

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      • Dici bene. Penso di essere un “animalo” un po’ strano… :-). Diciamo che non amo pormi troppi vincoli quando comincio: mi accontento di una idea portante (trama) e di idee aggiuntive (sottotrame). Per il resto mi lascio trasportare dalla fantasia… 😀

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        • Questo tipo di scrittura si chiama: sfogo. C’è chi ne ha fatto anche una terapia: quella del diario; non ho idea di come la chiamino con precisione. Tuttavia, la scrittura professionale esige una grande progettazione. Poi, anche con la scrittura di getto possono venire fuori dei capolavori, ma questa è un’altra storia. 😀

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          • Credo che sia una semplice questione di punti di vista e, se mi permetti, di termini. Sfogo o scrittura di getto sono termini che non mi piacciono molto anche perché sembra che non lascino spazio alla progettazione, cosa che invece tengo in grandissima considerazione. Anzi: penso che sia proprio la progettazione di un grande intreccio, di una grande trama a fare la differenza… indipendentemente dal genere per cui si scrive, indipendentemente dal fatto che si creda di scrivere un racconto o un romanzo.
            Quindi se parto da una idea principale che mi affascina (e credo possa affascinare) aggiungendo idee creo automaticamente una evoluzione. Secondo l’idea di Silvia sarei implicato automaticamente nella stesura di un romanzo. Non riesco a capire però per quale motivo il racconto debba essere una sorta di attività propedeutica del romanzo, come una sorta di banco di prova per lo sviluppo e l’evoluzione di trama, vicende e personaggi (e qui torno a definirmi un “animalo” strano). Io già in fase di progettazione (che a volte mi cuba mesi di tempo e di pensate, nonché di documentazione e ricerca) “vedo” quanto può essere articolata, evoluta e anche lunga una storia.

            Sempre a proposito di termini, un’altra definizione che non ho mai amato è “dispositivo drammatico”. Che diavolo è?? Non fraintendermi. So cosa si intende per dispositivo drammatico. Penso solo che, nonostante si possa giocare con tutti i più sottili sofismi intellettuali intorno alla definizione di dispositivo drammatico, alla fine si sta parlando della trama essenziale di una storia. E io, che preferisco usare i termini più diretti, se sono in vena di eufemismi preferisco appunto usare “trama essenziale” anziché “dispositivo drammatico”. Altrimenti parlo semplicemente di idee.
            Ed in questo senso la prima cosa a cui penso prima di scrivere *non* è la “trama essenziale”, pardon, il “dispositivo drammatico”. Il motivo? Perché secondo me da una idea principale, se veramente buona, possono derivare diversi dispositivi drammatici. Una sorta di percorso inverso. Astruso? Forse.
            Sono un “animalo” strano… 😀

            Punti di vista opinabilissimi, non c’è dubbio. Ma credo che i blog servano proprio a questo, a confrontarsi sui punti di vista 😀 …
            Mi fermo qui perché temo di andare fuori tema, anzi forse mi sono già allargato troppo…

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            • In effetti ho avuto il dubbio che tu non progettassi. È quello che ho inteso leggendo il tuo commento precedente.

              Il racconto è propedeutico al romanzo per tre buoni motivi: è più breve, scrivendolo ti accorgi subito se una cosa funziona oppure no e, nel caso del no, hai perso meno tempo; il racconto sviluppa unicamente il dispositivo drammatico, quindi quando andrai a scrivere il romanzo ne sarai facilitato (il problema principale dei romanzieri è che quando scrivono non hanno idea di quello che stanno facendo e quando l’idea diviene chiara ormai è troppo tardi: nessuno ha il coraggio di gettare via tante pagine già scritte, magari anche bene; nessuno, tranne me…); se il racconto dice tutto quello che c’è da dire su un dispositivo drammatico, allora non c’è bisogno di farne un romanzo.

              Per quanto il termine non sia neanche di mio gusto, e avevo già intenzione di studiarne un altro, il dispositivo drammatico non ha nulla a che fare con la trama. Non ha nulla a che fare nemmeno con la storia. Il dispositivo drammatico è la scusa per cui si scrive una storia, è il meccanismo attorno a cui ruota una trama. Per intenderci, dei Promessi sposi il dispositivo drammatico è il seguente: Un signorotto locale vorrebbe fottersi una giovane contadina che a già promesso la mano a un ragazzo; i due giovani non sono disposti a cedere alla prepotenza del potere. Come vedi non ha nulla a che fare con la trama né con la storia, ma prova a scrivere i Promessi sposi senza aver individuato con chiarezza questo dispositivo drammatico e ti verrà fuori qualcosa che non vorresti davvero leggere.

              Ci scriverò un post…

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                • A questo punto forse mi viane in mente un’altra differenza tra romanzo e racconto: il romanzo è basato su un soggetto, il racconto su un’idea.

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                  • Alla base del soggetto c’è sempre un’idea, quindi entrambi si basano su un’idea. Tuttavia il dispositivo drammatico non è nemmeno il soggetto, che è già più sviluppato: ad esempio in un soggetto s’inserisce il contesto storico e i tratti salienti dei personaggi principali. Il soggetto ha più a che fare con la trama, è una sorta di trama abbozzata.

                    Il dispositivo drammatico è un’idea su cui si articola la storia. Più dell’idea, mostra già un meccanismo. Per fare un esempio: l’idea è: “Vorrei parlare di due giovani ragazzi che vogliono sposarsi, ma un uomo potente vuole impedirlo perché è sessualmente invaghito dalla ragazza…”; il dispositivo drammatico è: “Un signorotto locale vorrebbe fottersi una giovane contadina che a già promesso la mano a un ragazzo; i due giovani non sono disposti a cedere alla prepotenza del potere”. Come vedi c’è l’idea di base (che viene prima del dispositivo drammatico), ma è già in atto il meccanismo fondamentale che darà il senso alla storia: i due giovani si oppongono e a seguito di questa ribellione cercheranno un modo per cavarsene fuori senza (possibilmente) patire danni.

                    Del soggetto se ne può fare a meno, volendo. Del dispositivo drammatico: no.

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                    • Dobbiamo approfondire, al di la dei nomi il concetto è chiaro, probabilmente io usavo il termine soggetto in modo improprio.
                      Comunque sì, l’idea c’è sempre, ma un racconto può vivere senza soggetto o dispositivo drammatico?

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  5. Bel post, interessante. E mi coinvolge perché, qualche mese fa mi è venuta un’idea per un racconto: semplice, lineare, con un personaggio principale, due “comprimari”, nessuna trama secondaria: un faro puntato sulla protagonista, apparizioni di due o tre personaggi funzionali alla storia che però avrebbe dovuto restare sempre centrata, senza intrecci o trame secondarie, sulla figura di una donna di mezza età e sul suo conflitto tra successo e senso di vuoto. Il “problema” -che problema non è, in realtà- si è posto nel momento in cui, per dare profondità al personaggio, è nata l’esigenza di spiegarne un altro, e poi un altro ancora, e perché la protagonista agisce e sente in una certa maniera piuttosto che in un’altra, e perché gli altri personaggi si muovano e sentano in un certo modo: in caso contrario, la protagonista sarebbe stata una macchietta, descritta in modo manicheo, e così anche gli altri personaggi che volteggiano nella storia . Quindi ho inserito personaggi, sotto trame, ho dilatato i tempi, ed è venuta fuori una cosa completamente diversa da quello che avevo pensato inizialmente che però, incredibilmente, regge.
    Pare quindi che sia diventato un romanzo -a sentire la mia prima beta reader-, anche se preferisco continuare a pensarlo in termini di “una storia”.
    Forse posso pensare che la differenza sia lì, tra romanzo e racconto: quanti fari puntiamo, in maniera più o meno intensa, sui personaggi e sui loro movimenti e motivazioni all’interno di quello che stiamo raccontando.
    Credo. Boh. 🙂
    ChiaraM.

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    • Ciao Chiara, grazie.

      Ma… sai, per delineare anche psicologicamente un personaggio a volte basta un giro di frase. Il mio sospetto è che tu, come Dario, tendi a pensare in termini di storia/romanzo, piuttosto che di dispositivo drammatico. Invece anche quando si scrive intenzionalmente un romanzo, la storia è l’ultima cosa da decidere; la storia serve a supporto delle intenzioni dello scrittore e ne è la prova il fatto che ci si chiede quando si scrive: «Cosa deve capitare prima, affinché dopo capiti questo?». Hai mai fatto questo esercizio? Be’, questa è la prova che la storia è sempre un costrutto assemblato a posteriori sulle esigenze dello scrittore. Invece la maggior parte degli aspiranti scrittori parte sempre dalla storia, e la elevano a impero. Prima di tutto: il dispositivo drammatico, la storia viene dopo.

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  6. Ma che brava la cameriera che cerca i romanzi dell’Anfuso su internet 😀
    La differenza fra racconto e romanzo sta anche nella loro lunghezza. L’idea che hai di scrivere prima un racconto mi pare buona, ho iniziato a metterla in pratica tempo fa, quando ho trasformato un racconto breve nel “famoso” K di cui parlo ogni tanto.
    Ma mi pare di avere anche un altro racconto che vorrei trasformare in romanzo.

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    • eheheh ste cameriere… XD

      Ma… sai, ci sono racconti lunghi e romanzi brevi… Credo che la lunghezza non sia una discriminante; credo che la discriminante la faccia il modo in cui la storia si concentra prevalentemente sul dispositivo drammatico e l’evoluzione – emotiva, psicologica, fisica – dei personaggi man mano che la lettura procede.

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  7. Se senti che la storia e i personaggio abbiano ancora tanto da dire, sì, segui assolutamente il tuo istinto.
    Io non comincio mai un romanzo senza aver lavorato prima con quei personaggi e quelle atmosfere in un racconto. Mi serve come test funzionale, ma anche per capire se posso andare d’accordo con un personaggio, se lo conosco a fondo o se dopo 15 capitoli mi vien voglia di strozzarlo.

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    • Grazie Antonella, lo sapevo che avresti colto il suggerimento. Immaginavo che scrivessi dei racconti, prima di farne romanzi. L’idea di prendere confidenza con un personaggio è molto romantica, ma è anche veritiera? lo chiedo perché di romanzi io finora non ne ho scritti e forse affezionarsi o meno a dei personaggi può fare la differenza. In un racconto raramente se ne ha il tempo. Tranne in un solo caso, che mi ricordi: un racconto davvero brutto, ma che avevo ambientato in Africa. C’erano questi due ragazzini africani… be’ mi ci sono affezionato sul serio, ma poi li ho lasciti lì, sotto il sole… In realtà non avevo molto da dire sull’Africa.

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      • Non è tanto una questione di affezionarmi. I protagonisti dei romanzi che scrivo vivono praticamente con me. Per tutta la durata della stesura vedo il mondo con i loro occhi. Ad esempio ho scoperto che se ho un personaggio davvero depresso (magari giustamente, perché ha avuto la sua dose di disgrazie) alla lunga mi deprimo anch’io. Quindi, personaggi con tendenze suicide solo per racconti, grazie, protagonisti di romanzi neanche se mi pagate (ciao, caro personaggio, sì, mi riferisco a te, ti adoro, ma ti sopporto solo a piccole dosi…). Non so se sono riuscita a spiegarmi.
        Con i protagonisti devo sentirmi a mio agio, se devo stare male oltre un tot, forse non sono adatta a scrivere la loro storia.

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          • Sul metodo stanislavskij in narrativa c’avevo scritto un post tempo fa… ma secondo me è una cosa diversa rispetto a quello che descrive Antonella: lei del personaggio ne fa un amico immaginario.

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        • Ti sei spiegata benissimo, ma continuo a coltivare delle perplessità. Io, ad esempio, non ho mai concretizzato così a fondo un personaggio; da come lo descrivi, sembra quasi un amico immaginario. In genere mi calo nel personaggio durante la preparazione e poi nella stesura di un racconto. Prima e dopo ci sono solo io, e i personaggi sono mezzi: non esistono fini a se stessi. Ma io sono attratto più dal meccanismo… Proverò a fare questo esercizio però, quello cioè di visualizzare un personaggio anche nella quotidianità, e vediamo che succede. Le strade sono due (tre…): o impazzisco, o mi ci affeziono (oppure non funziona).

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          • Sull’immedesimazione con i personaggi la penso come Tenar. Anche per me sono reali al punto da diventare degli “amici immaginari”. Altrimenti mi sarebbe impossibile durante la stesura del romanzo farli agire autonomamente, dovrei continuamente pensare a come si comporterebbero, mentre devo “possederli” prima di iniziare a scrivere. Tuttavia, li vedo un po’ come dei figli. Anche quando mi stanno antipatici, li amo comunque.

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          • In realtà per me dipende molto dalla lunghezza dello scritto. Se è un racconto che scrivo in due sere o in una settimana, chissenefraga, ma la stesura di un romanzo dura mesi. Mesi a scrivere, per dire, in terza persona limitata, o, peggio ancora, in prima persona. È inevitabile che dopo un po’ il modo di vedere il mondo del personaggio o il suo stato d’animo influisca sul mio.
            C’è anche da dire che pare che gli autori si dividano in due grandi categorie (senza meglio o peggio, solo per attitudine mentale), quelli per cui è più importante la storia e quelli per cui è più importante il personaggio. Tu sei da storia, io da personaggio. Io penso ai personaggi come individui, non come a funzioni narrative. A loro accade qualcosa che io racconto. Per altri e, lo intuisco, per te, è diverso. Pare che con entrambi gli approcci si possano ottenere ciofeche pazzesche o capolavori.

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  8. Molto interessante questo post, hai reso molto bene la differenza tra racconto e romanzo.
    Tra l’altro il mio primo romanzo è nato da un racconto.
    Purtroppo caro Salvatore non ho comprato il numero di Confidenze dove c’era La grande nevicata quindi non posso esprimermi al riguardo. Ho letto solo L’equivoco e mi sono dovuta impegnare parecchio per andare all’edicola. Purtroppo passo le mie giornate murate in ufficio situato in un complesso collinare senza edicole nei paraggi e quindi non riesco ad andarci neanche in pausa pranzo. Tuttavia, anche se non ho letto il tuo racconto, visto che tu stesso ti rendi conto di non aver esaurito l’argomento, secondo me vale la pena trasformarlo in romanzo e poi anche perché è piaciuto molto alle signore della Mondadori. Ma scriverai anche un racconto con un protagonista maschile prima o poi ? mi sembra di capire che finora i tuoi protagonisti sono donne…

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  9. Capisco il tuo punto di vista, e sono certa che il tuo racconto sia un buon punto di partenza per un romanzo, però in generale non seguirei il tuo consiglio perché il secondo è di natura più complessa del primo e “gonfiando” un racconto si rischia di ottenere una trama sfibrata, diluita.

    PS: la cameriera prima o poi glia farà a conquistarti?

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    • Credo che abbia perso le speranze, infatti è sparita: questa è già un’altra. XD

      Il punto non è diluire un racconto, non lo farei mai; ma partire da un racconto e scrivere un romanzo. Cioè prendere il dispositivo drammatico e i personaggi, il contesto, ecc. e scrivere d’accapo la storia ma in formato romanzo. Per Come una bambola non lo farei; per La grande nevicata… ci sto pensando. 🙂

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  10. Accidentaccio oggi volevo fare un bel commentone, ma gli impedimenti dirimenti, mi impediscono di esternare. Taccio.
    Taccio dopo va… 😀
    Io al contrario di Grilloz nell’esprimere la differenza tra romanzo e racconto più che un libro scriverei un epitaffio: il racconto è breve, il romanzo è più lungo.

    Ma so già che Erri de Luca scrive romanzi mignon e King in Stagioni Diverse scrive racconti che parrebbero romanzi. Epitaffio cancellato. 😦

    Però non si può cogliere la differenza nemmeno basandosi sul dispositivo drammatico o sulle sottotrame. E’ vero, ma anche qui, troppe eccezioni.

    Potrei allora dire che la vera proprietà d’attribuzione fra racconto e romanzo non dipenda da una regola, ma dalla volontà dell’autore: questo te lo chiamo racconto lungo, questo te lo chiamo romanzo breve.

    Ma è anche indubbio che un romanzo di 500 pagine nemmeno King lo può chiamare racconto. Così come un racconto di due pagine non si può chiamare romanzo. Rispolvero l’epitaffio allora…

    Ma a questo punto ha ragione Grilloz, e per capire l’esatta natura della differenza occorrerebbe un libro. A quando Grilloz…

    Fatto sta che io i tuoi racconti su Confidenze me li sto perdendo tutti. E mi sa che fino a quando non farai una raccolta non potrò leggermeli, tu sei pure contrario al salutare self, che lì era un attimo. 😉
    Ok torno agli impedimenti dirimenti… mi aspettano come tigri dai denti a sciabola. 😀

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    • Però io volevo parlare solo di racconti, che di romanzi se ne parla anche troppo 😀
      Comunque credo che la differenza più che l’autore la faccia l’editore, della serie, bello questo, aumentiamo un po’ il carattere, l’interlinea, ci mettiamo un bel margine qui eh, lo so che sono 50 cartelle, ma una volta che lo chiami romanzo chi vuoi che se ne accorga? 😛

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    • Oggi sono in trasferta e anch’io ho avuto i miei bei problemi a collegarmi per rispondere. Ad ogni modo non sottovaluterei la risposta di Silvia, che mi pare la più azzeccata: cioè che in un racconto non c’è un’evoluzione del personaggio, il personaggio è già bello che cresciuto; in un romanzo è essenziale proprio il percorso. Ma a questo punto, forse, bisognerebbe fare un distinguo, perché mi sono appena reso conto che con “racconti” intendo quasi sempre quelli brevi (non brevissimi, né lunghi), mentre, ad esempio, in quelli di King in Stagioni diverse (ottima citazione peraltro) un’evoluzione dei personaggi c’è (e infatti ne hanno fatto dei film…). A questo punto mi viene da pensare che sia stato il King a sbagliare, cioè a non farne per ognuno un romanzo… A quando il libro, Grilloz? XD

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      • diciamo che sono alla fase di “studio di fattibilità” 😛
        Mah, alcuni racconti di King sono romanzi brevi, che probabilmente sono stati raccolti per questioni editoriali.
        Mi viene però l’esempio di diversi racconti di Dick dai quali sono stati tratti dei film, in genere al racconto, diciamo all’idea basa, è stato aggiunto un contorno che nel testo scritto non c’è, nel racconto c’è l’idea, il film la sviluppa in modo un po’ più esteso.
        Poi parlare di crescita o evoluzione del personaggio è anche difficile a volte, in qualche modo evolve anche il personaggio della sentinella di Brown in poche righe.
        Forse potremmo provare a scivere racconti di sei parole in cui c’è evoluzione del personaggio 😀

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        • Mmh… no, con la sentinella a evolvere è il punto di vista del lettore. Quello è un racconto perfetto, perché non potrebbe essere trasformato né in romanzo, né in film. Vedi? Forse siamo arrivati alla definizione perfetta, quella che cercavamo: un racconto è un testo non può essere narrato in nessun altro modo che in forma breve. 😛

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          • Ma, anche avessimo trovato la definizione perfetta di racconto perfetto, a cosa ci servirebbe quando nel mezzo ci sono infinite sfumature (che noi mica ci accontentiamo di cinquanta)?
            E poi siamo sicuri che la sentinella non possa essere trasformato in romanzo?

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            • No, su questo sono abbastanza sicuro, perché è il meccanismo di quel racconto a fare un’immediata impressione. Infatti se lo rileggi una seconda volta, non funziona più.

              A cosa ci serve una definizione perfetta? Be’ visto che sono così poche le occasioni per fare qualcosa di perfetto…

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              • mica sono tanto convinti, sulla perfezione 😉
                L’effetto che crei con la sentinella funziona solo con la forma racconto, questo è sicuro, tirarla per 100 pagine non funzionerebbe, perderebbe d’effetto. Ma Brown era un maestro in questo.
                Tuttavia il fatto che noi qui non siamo in grado di trovare il modo di espanderlo in un romanzo non vuol dire che nessun’altro possa riuscirci, magari ottenendo un effetto diverso.

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  11. Tenendo buono il paragone di Grilloz racconto / foto e romanzo / film e immaginando di essere in viaggio, quali scene si catturano con una foto e per quali si fa partire la registrazione video? Allo stesso modo, cioè un po’ per istinto e un po’ per scelta ragionata, so quali tra le storie che ho in mente diventeranno racconti e quali avranno bisogno dello spazio di un romanzo. A volte bastano poche pagine per dire tutto, altre volte preferisco dirlo attraverso un sentiero più lungo quando il percorso fa parte della storia.

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    • Questa è una bella domanda; l’unica risposta che mi viene in mente è: quando l’immagine che voglio raccogliere è perfetta così. Allora ne faccio una foto. Quando invece prevedo una evoluzione, ne faccio un filmato.

      Grazie per il contributo, Simona. 🙂

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      • Io giro solo con la reflex, che siccome è un po’ datata non fa i filmati, quindi non ho scelta, il mezzo è quello, ma sei sicuro che da un’immagine statica non si possa “percepire” un’evoluzione?

        hai bisogno di “vedere” cosa succede dopo per sapere che la ballerina atterrerà sulla punta? Il movimento, l’evoluzione, la percepisci dalla perdita di equilibrio, il tuo cervello mette il resto.

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        • Non era questo che intendevo; certo che un’immagine così, anche se statica, rappresenta un micro-mondo perfetto. Però ci sono scene che invece richiedono di essere riprese con un filmato, nella loro evoluzione. Tipo: i primi passi di tuo figlio, ad esempio. Ti accontenteresti di una foto, perdendoti tutte le sfumature della sua espressione, passo dopo passo?

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  12. Uff… Salvatore mi assento un giorno e mi ritrovo 66 commenti che non so più dove rispondere!!
    Parsimonia la prossima volta… XD
    Discussione parecchio interessante, perché ogni contributo ci avvicina per approssimazione a una possibile verità fra racconto e romanzo. Però ogni volta ci troviamo di fronte a quelle eccezioni che lasciano un senso di incompiutezza.
    Tornando al mio intervento e alla tua replica citando Silvia:
    “cioè che in un racconto non c’è un’evoluzione del personaggio, il personaggio è già bello che cresciuto; in un romanzo è essenziale proprio il percorso.”
    Questo è vero, ma non sempre.
    Mi viene in mente uno dei racconti più famosi di Carver: Cattedrale. E lì c’è l’evoluzione del personaggio. Anzi il racconto mira proprio a quella evoluzione.
    Oppure il mutamento in Barnaby lo scrivano, capolavoro di Melville che tengo sempre a mente quando sento la dannosa necessità di spiegare il perché dei personaggi.

    Fra i commenti è interessante anche l’approccio al dispositivo drammatico. Ad esempio io non ne faccio mai uso. Io non so costruire le storie da zero, a tavolino. Le storie che scrivo o che devo scrivere mi vengono all’improvviso. Nascono da suggestioni, incubi (anche da quelli come lo zio King), cose lette, esperienze vissute, tutte cose vaghe che all’improvviso si materializzano in una storia. Storia che in questi momenti devono stendere rapidamente in forma di soggetto, come dice Grilloz. E poi dopo ragionandoci vedo che la storia ha il suo dispositivo drammatico, i conflitti e tutto quel che occorre. Poi va strutturata, modulata, espansa, levigata. Ma con me il dispositivo drammatico è postumo. E non so se sia matto io, ma da me funziona così. 😀

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    • Ma in realtà passi anche tu dal dispositivo drammatico, anche se passi prima dal soggetto (che poi forse nel tuo caso è più l’idea).
      Però mi domando, e lo domando al padrone di casa, se nell’approcio di King, il quale dice di partire dal personaggio e da una situazione (Ammanettata al letto per un gioco erotico provoca involontariamente la morte del marito e si trova sola in una casa isolata nel bosco – il gioco di Gerald, per fare un esempio) questo personaggio e quasta ambientazione costituiscono già di loro un dispositivo drammatico?

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      • Più che altro andrebbe chiarito con il King, ma credo di sì. È quello che ho pensato quando ho letto quel passaggio nel suo libro. Per aiutarsi, e forse questo è un metodo, lui prende un personaggio e lo mette in una situazione. Il costrutto ha in sé già il meccanismo fondamentale su cui poi si articolerà la storia. Diciamo che è un po’ più di un dispositivo drammatico e un po’ meno di un soggetto…

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    • Be’, Marco, ognuno ha il proprio metodo e finché funziona… va bene così. Mozzi, per citarne uno, ti suggerirebbe ti attendere, di non scrivere subito, di lasciare che l’idea prenda forma. Il dispositivo drammatico lo realizzi in questa attesa, assieme alla raccolta di tutto il materiale necessario. Se nel frattempo l’idea è svanita, dice il Mozzi, allora non era una buona idea: il mondo ne può fare a meno.

      Per quanto mi riguarda, ho imparato che identificare fin da subito il dispositivo drammatico mi è di grande aiuto. Mentre progettare la storia nei minimi dettagli, invece, mi è d’ostacolo. A volte si scrive di getto delle cose incredibili, ma se a posteriori ci rifletti, scoprirai che il dispositivo drammatico, in modo inconscio, ti era ben chiaro. Forse è questa l’ispirazione: avere un dispositivo drammatico chiaro in mente senza rendersene conto. 😉

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      • La certezza è che non esiste un metodo di scrittura. Ciascuno deve trovare il proprio. Ho imparato per esperienza, sono 20 anni che progetto storie senza scriverne alcuna, che una buona idea va appuntata sempre. Un giorno potrà essere utile, così come cestinata, nel dubbio, meglio tenerla.

        Io quando ho l’ispirazione devo proprio scrivere di getto. In uno dei tre romanzi che ho in corso, un distopico, ricordo che rimuginavo da giorni su quanto gli zombie nella loro condizione di morti viventi fossero biologicamente poco credibili. Nel frattempo avevo un incipit buono che non riuscivo a concretizzare col il soggetto della frase, per la serie: e quindi accade… accade… cosa accade? E infine pensavo alla fragilità del mondo moderno, basterebbe un piccolo intoppo al movimento delle materie prime, qualcosa che spezzi la catena, perché tutto quel che abbiamo di tecnologico si fermi in un istante. Questi tre elementi erano disconnessi fra loro, assieme ad altri pensieri.

        Poi una sera bang. L’incipit si incastra con gli zombie, qualcosa di vero e tangibile, l’evento che porta l’umanità a frantumarsi si spalanca e un uomo, il protagonista che si trova a difendere la propria famiglia proiettato in quella nuova realtà. Ho cominciato a scrivere di getto capitolo dopo capitolo, sono andato avanti per ore. Poi quando mi sono fermato è cominciato il retro pensiero. E ho compreso che quelle associazioni e non altre erano l’elemento scatenante.
        Napoleone diceva che a volte in battaglia, alcuni errori si possono risolvere solo perseverando.
        Io credo che a volte nella scrittura certe idee nebulose possono trovare soluzione solo scrivendo.
        Però è vero, il dispositivo drammatico lo moduli anche in maniera inconscia. Appare e te lo ritrovi giusto, senza comprendere il nesso iniziale. 😉

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        • Per quel poco che ho letto sul processo creativo (c’è anche qualcosa di scientifico basato sulle neuroscienze) funziona proprio così, pensiero laterale che sgorga quando il pensiero centrale sta lavorando ad altro, ad esempio contando le pecorelle (a proposito, stanotte sono arrivato a settemilioniottocentoquarantatremilaseicentodiciotto, poi sono entrate in sciopero).
          Prendere appunti in realtà è un trucco mentale, potresti ad esempio mangiare un bignè quando ti viene un’idea e il pensiero del bignè ti ricorderà quell’idea, forse prendere appunti fa meglio alla linea però 😛

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