Montalbano Camilleri

Leggere nella propria lingua

C’è chi sostiene che la traduzione di un romanzo, dalla lingua originale in cui è stato scritto alla lingua in uso nel mercato di vendita, ad esempio dall’inglese all’italiano o dal russo all’italiano o dal giapponese all’italiano, tenda a uniformare lo stile. Romanzi scritti da un acclamato giapponese contemporaneo o da un geniale russo nell’Ottocento o da una raffinata scrittrice britannica del Settecento tradotti in italiano davvero ci apparirebbero tutti uguali? Con questo post intendo confutare questa tesi.

Una questione di scelte

Le scelte che alcune volte il traduttore è costretto a compiere non sono quelle dell’autore, d’accordo. Sostenere però che la traduzione appiattisca e uniformi lo stile, rendendo romanzi molto diversi fra loro del tutto simili come stile e lessico, mi sembra azzardato. Ho sempre pensato che i libri, dove possibile, vadano letti nella lingua originale; questo per osservare le scelte fatte direttamente dall’autore. Tuttavia ho anche sempre storto il naso di fronte all’ostinato rifiuto di alcuni ad accettare l’idea che, anche se tradotti, qualcosa dello stile e delle scelte originali giunga comunque fino a noi.

Poiché fare degli esempi in lingua, ad esempio in russo, sarebbe arduo, sia per me, sia per voi, voglio provare a fare un esempio parlando proprio della nostra lingua. Come sapete, l’italiano, è una lingua che si è formata recentemente (rispetto ad alcune altre europee) e la cui diffusione nazionale ha trovato più di qualche ostacolo sulla propria strada. L’italiano risente degli influssi dialettali ma anche di un passato nobile. Molto del nostro lessico deriva direttamente dal latino, in alcuni casi per scelte letterarie. Un’altra parte del nostro lessico si è evoluto, invece, naturalmente, per bocca dei parlanti, dal volgare (da volgo = popolo) al fiorentino trecentesco e poi ancora, nelle sue varie limature, fino all’italiano moderno (quello del Manzoni, per intenderci).

Una distinzione importante da fare, che rende peculiare la nostra lingua, è tra il parlato e lo scritto. L’italiano ha tenuto una certa compostezza (a differenza dell’inglese e del francese), tanto che la lingua parlata e la lingua scritta non solo aderiscono in modo piuttosto uniforme ma possono essere usate vicendevolmente nel contesto opposto. Così, ad esempio, un linguaggio come quello di Paolo Nori, che ha fatto di una certa parlata popolare emiliana un marchio di stile, può essere più che accettato in un contesto letterario. Tuttavia, come tradurlo in inglese? Come tradurre in inglese la parlata mista italo-siciliana dell’autore nazionale più conosciuto oltre confine: Andrea Camilleri? Sono sicuro che una pessima traduzione, in questi casi specifici, appiattirebbe lo stile dei due autori. Ma in che modo però? Quali sono le difficoltà della traduzione?

La parlata siciliana, ad esempio, che Camilleri utilizza non nella narrazione badate, ma solo nei dialoghi e solo per quei personaggi cui l’uso del siciliano sarebbe giustificato (un magistrato, ad esempio, nei libri di Camilleri si rivolge al commissario usando sempre l’italiano e il commissario, in un contesto cosi specifico, risponde comunque in italiano), potrebbe essere tradotto alternando l’inglese standard, per la narrazione, allo scozzese o all’irlandese per lo slang… Questo sarebbe facile da fare. Da una buona traduzione mi aspetterei qualcosa di simile. Cos’è, invece, difficile?

Come sapete, l’italiano fa largo uso dei pronomi. Ne parlerò più avanti in modo specifico nei mini-ripassi di grammatica. Però la variante attualizzante «ci» davanti al verbo avere presenta qualche difficoltà persino per i nostri scrittori nazionali. Il motivo è semplice: «Ci ho fame» non solo non lo scriverebbe nessuno, ma anche in un contesto colloquiale famigliare nessuno si sognerebbe mai di pronunciarlo. Nella parlata orale può capitare di dire: «Sta piovendo, ce l’hai l’ombrello?», «Sì, ce l’ho». Nessuno si sognerebbe di rispondere: «Sì, l’ho». Dunque la «ci» davanti al verbo avere ha una sua ragione d’essere. Tuttavia, nel caso citato di «Ci ho fame», abbiamo un problema di tipo grafico. Forse potrebbe apparirvi naturale eliderlo: «C’ho fame», ma sbagliereste… Sbagliereste perché il valore velare della «c’» elisa davanti a vocale dovrebbe farla pronunciare: «/k/o fame» e non «ci+ho fame».

Verga lo scriveva proprio così: «Ci ho fame» e poi lasciava che fosse il lettore a fare l’elisione. Paolo Nori, che a dispetto dello stile è un grandissimo linguista, lo scrive così: «Ciò fame». La maggior parte dei romanzieri contemporanei tende a non scriverlo affatto, per evitare l’imbarazzo. In uno dei racconti che ho inviato a Mondadori, ho fatto la scelta di elidere il pronome «ci» davanti al verbo avere («c’ho») perché il protagonista del racconto, narrato in prima persona, è un capo turno di un’acciaieria che si sforza, riuscendoci, di scrivere in un buon italiano. Un capoturno di un’acciaieria (che potrebbe anche essere un raffinato linguista, per carità, ma più spesso non lo è), pur riuscendo a esprimersi in un buon italiano potrebbe commetterla una leggerezza simile. Nella mail di accompagnamento al racconto ho spiegato queste ragioni e la responsabile della narrativa di Mondadori mi ha risposto con entusiasmo. Ma come tradurre in inglese una raffinatezza linguistica di questo tipo? Non lo so, forse non sarebbe possibile. Quindi queste sono il tipo di scelte che dovremmo aspettarci di perdere quando leggiamo un romanzo tradotto.

Tuttavia continuo a pensare che la traduzione non uniformi lo stile…

Tre esempi

Così ho voluto fare una prova; ho voluto leggere l’incipit di tre romanzi, scritti originariamente in altre lingue, nella loro traduzione italiana. Ve li posto senza dirvi chi sono gli autori o in quali lingue sono stati originariamente scritti.

“All’inizio di un luglio caldissimo, sul far della sera, un giovane uscì dallo stambugio che aveva in affitto nel vicolo S., scese nella strada e lentamente, quasi esitando, si avviò verso il ponte di K.

Ebbe la fortuna di non incontrare per le scale la padrona di casa. Il suo stambugio si trovava proprio sotto il tetto di un edificio alto cinque piani, e sembrava più un armadio che una stanza. La padrona di casa che gli affittava quel buco, vitto e servizi compresi, abitava una rampa di scale più giù, in un appartamentino indipendente, e ogni volta, per uscire in strada, egli era costretto a passare davanti alla cucina della padrona, che teneva quasi sempre spalancata la porta sulle scale. Ogni volta che passava davanti a quella porta, il giovane provava una sensazione vaga e invincibile di paura, e poiché se ne vergognava, faceva una smorfia di stizza. Era sempre in arretrato con l’affitto, e temeva di imbattersi nella padrona.”

***

“È una verità universalmente riconosciuta, che uno scapolo in possesso di un’ampia fortuna debba avere bisogno di una moglie.

Per quanto poco si possa sapere circa i sentimenti o i punti di vista di un uomo del genere al suo primo apparire nel vicinato, questa verità è così saldamente fissata nelle menti delle famiglie del circondario, da considerarlo di legittima proprietà di una o l’altra delle loro figlie.

«Mio caro Mr. Bennet», gli disse un giorno la sua signora, «hai saputo che finalmente Netherfield Park è stato affittato?».

Mr. Bennet rispose di no.

«Ma è così», replicò lei, «poiché Mrs. Long è appena stata qui, e mi ha raccontato tutto sull’argomento».

Mr. Bennet non rispose.”

***

“Dal mese di luglio del suo secondo anno di università fino al gennaio seguente, Tazaki Tsukuru aveva vissuto con un solo pensiero in testa: morire. Nel frattempo aveva compiuto vent’anni, ma raggiungere la pietra miliare della maggiore età non era stato per lui un evento particolarmente significativo. Metter fine ai suoi giorni gli sembrava la cosa più naturale e coerente. Per quale motivo, però, non avesse fatto quell’ultimo passo, ancora oggi non riusciva a capirlo. E dire che in quel periodo attraversare la soglia che separa la vita dalla morte sarebbe stato più facile che bere un uovo dal guscio!”

Mentre vi divertite a scovare gli autori di questi tre incipit, cosa che ritengo semplice da fare, rispondete a questa mia domanda: il loro stile, lo stile di questi tre autori tradotti dalla loro lingua originale all’italiano, vi sembra uniforme o anche solo piatto?

Per quanto consideri essenziale leggere molta buona narrativa nazionale per imparare bene a scrivere in modo creativo nella propria lingua, forse si può imparare qualcosa anche da una buona traduzione.

71 Comments on “La traduzione uniforma lo stile?”

  1. Il giochino forse è un po’ troppo facile, quasi in modo imbarazzante 😀 i primi due li ho individuati al volo, per il terzo sono andato per deduzione 😛
    Comunque io sono d’accordo con te, a patto che ci sia un bravo traduttore, e questo normalmente, per opere di un certo valore c’è. (il discorso per me vale anche per il doppiaggio)
    Certo nella traduzione si perde qualcosa, ma siamo sicuri che leggendo inlingua, a patto di conoscere la lingua molto bene, non ci perderemmo comunque qualche sfumatura? Non conoscendo fino in fondo la cultura del popolo da cui proviene uno testo, non perderemmo comunque qualche nesso, qualche riferimento, qualche dettaglio? Penso addirittura che un americano che legge un testo scritto da un inglese si perda qualcosa, e viceversa. Quindi l’alternativa sarebbe leggere solo testi scritti nella propria lingua, ma non basta, dovrebbero essere anche scritti nel proprio tempo e probabilmente anche nella propria regione. Quindi mi restano Barrico, Fruttero e Lucentini, sempre che non siano già troppo datati, Giornado, Gramellini e pochi altri? Naaa, non ci sto 😀
    E poi forse dai, ci perdiamo qualcosa anche se leggiamo un libro nel momento sbagliato, magari solo perchè non siamo dell’umore adatto.
    Ok, leggero i capolavori della letteratura russa sapendo di perdermi qualcosa, ma consapevole che allo stesso tempo mi apriranno una finestra su un mondo, una cultura, un epoca che non avrei modo di conoscere in altro modo.
    Che lo stile si “appiattisca” mi pare un’altra stupidagine (se mi perdoni il termine), la lingua è sufficientemente versatile da plasmarsi allo stile dell’autore tradotto (anche perchè altrimenti sarebbe come dire che i testi scritti nella stessa lingua hanno tutti lo stesso stile), certo, ci saranno delle scelte del traduttore per rendere certi passaggi, certi modi di dire, certi giochi di parole. E’ comunque un compromesso che mi sento di poter tranquillamente accettare visto ciò che posso guadagnarci in cambio.
    Voi no?

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    • Il giochino era volutamente semplice perché non era fondamentale ai fini del post, ma la tua risposta è esemplare. Naturalmente, soprattutto nella narrativa di consumo, ci può essere un appiattimento verso il basso e forse questi tre testi letti in lingua originale ci apparirebbero ancora più caratteristici, ma come dici giustamente anche leggendoli in originale ci perderemmo comunque qualcosa e alla fine il compromesso, a patto di trovarci davanti una buona traduzione, è accettabile. 🙂

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      • Magari Dostoevskij provo a farmelo leggere da qualche collega e vediamo come suona 😉
        Forse per il giapponese avresti dovuto scegliere la Yoshimoto che secondo me scrive in modo più “giapponese” rispetto a Murakani,, un po’ più internazionale.
        “Da quanto tempo sarà che quando sono da sola dormo in questo modo?
        Il sonno viene come l’avanzare della marea. Opporsi è impossibile. È un sonno così profondo che né lo squillo del telefono né il rumore delle auto che passano fuori mi arrivano all’orecchio. Nessun dolore, nessuna tristezza laggiù: solo il mondo del sonno dove precipito con un tonfo.”

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        • Più semplicemente ho scelto tre autori che amo leggere. 😛

          In che senso ti fai leggere Dostoevskij? In tedesco intendi? Fammi poi sapere allora!

          P.S. non ce l’hai il coraggio di leggertelo da solo, di’ la verità! XD

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          • Nono, intendevo proprio in russo (ho diversi colleghi russi qui), e per leggermelo da solo, beh, ho ancora qualche problema col cirillico.
            В начале июля, в чрезвычайно жаркое время, под вечер, один молодой человек вышел из своей каморки, которую нанимал от жильцов в С — м переулке, на улицу и медленно, как бы в нерешимости, отправился к К — ну мосту
            Insomma, in russo suona più o meno così 😀
            Però posso provare con Goethe in tedesco 😉 (magari anche qualcuno di più moderno)

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          • Nono, intendevo proprio in russo (ho diversi colleghi russi qui), e per leggermelo da solo, beh, ho ancora qualche problema col cirillico. Però posso provare con Goethe in tedesco 😉 (magari anche qualcuno di più moderno).

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            • Anche se te lo fai leggere in russo, se il russo non lo parli a che ti serve? E poi non eravamo d’accordo che imparavi il polinesiano? Pensa quanto ci sarà utile che tu lo sappia parlare una volta che ci trasferiremo là! XD

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              • Per sentire come suona 😀 ma non penso che suoni molto diverso dai discorsi che fanno abitualmente (e che io non capisco :D)
                Chissà quante opere memorabili sono state scritte in polinesiano e ci sono completamente ignote 😉

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      • Più o meno così

        В начале июля, в чрезвычайно жаркое время, под вечер, один молодой человек вышел из своей каморки, которую нанимал от жильцов в С — м переулке, на улицу и медленно, как бы в нерешимости, отправился к К — ну мосту.
        Он благополучно избегнул встречи с своею хозяйкой на лестнице. Каморка его приходилась под самою кровлей высокого пятиэтажного дома и походила более на шкаф, чем на квартиру. Квартирная же хозяйка его, у которой он нанимал эту каморку с обедом и прислугой, помещалась одною лестницей ниже, в отдельной квартире, и каждый раз, при выходе на улицу, ему непременно надо было проходить мимо хозяйкиной кухни, почти всегда настежь отворенной на лестницу. И каждый раз молодой человек, проходя мимо, чувствовал какое-то болезненное и трусливое ощущение, которого стыдился и от которого морщился. Он был должен кругом хозяйке и боялся с нею встретиться.

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  2. Non so chi siano i 3 autori, sospetto Murakami il 3°, perché mi pare tu l’abbia letto.
    Neanche per me lo stile si uniforma, se il traduttore si è mantenuto per quanto possibile – e secondo me lo è – fedele all’originale.
    Ci sono autori tradotti che ho letto e che non mi sono piaciuti come stile di scrittura, e quindi non ho letto altro di loro, quindi anche questa è una prova contro l’uniformità dello stile.

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    • Pensa però se fosse colpa del traduttore… Tu smetti di leggere un povero tapino di autore solo perché il traduttore non è stato all’altezza? XD Scherzi a parte, bisognerebbe provare a leggere qualche autore nostrano tradotto in inglese o tedesco o francese e vedere che ne esce. 😛

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              • Devo ammettere che in germania lo scaffale del fantasi (ma anche quello della fantascienaza) è ben servito, mentre in italia mette una certa tristezza.
                E pensare che di lettori ne troverebbero molti.

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                • Dalle statistiche sembrerebbe non essere vero. I lettori di fantasy e di fantascienza sono in Italia molto meno di quanto si pensa, però forse sono più attivi su internet e quindi “risalto” di più. Certo però che le statistiche potrebbero essere “truccate” da una mancanza di materia prima…

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                  • Le statistiche non le ho viste, magari poi cerco. Però ovvio che se non trovano in libreria cercano altrove e magari comprano self su amazon andando fuori statistica. Comunque l’impressione è che ci sia più mercato di quello che le case editrici vogliano coprire. Tieni anche conto del fatto che, e qui la statistica l’ho vista, la fascia di lettori più attiva in italia è quella tra i 15 e i 17 anni, soprattutto ragazze, pubblico ideale per i libri stile Troisi 😉

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                    • Quella a cui mi riferisco io ha almeno tre anni, forse di più, ed è un peccato non averla salvata perché non la riesco più a trovare, però era stata commissionata dall’associazione editori. Sul fatto che vengono coperti dei dati, invece, non ne vedo l’utilità. Lo scopo dell’editore è vendere libri. Se vanno di più i fantasy dei gialli, per dirne una, all’editore che importa? Che la fascia di lettori più attivi sia quella che hai indicato ho visto anch’io la statistica. La mia nipotina, che proprio quest’anno inaspettatamente è diventata una lettrice feroce, legge prevalentemente fantasy. Poi con il tempo si sposterà sulla narrativa d’autore, esattamente come ho fatto io.

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  3. “Fu allora che vidi il Pendolo.
    La sfera, mobile all’estremità di un lungo filo fissato alla volta del coro, descriveva le sue ampie oscillazioni con isocrona maestà.
    Io sapevo – ma chiunque avrebbe dovuto avvertire nell’incanto di quel placido respiro – che il periodo era regolato dal rapporto tra la radice quadrata della lunghezza del filo e quel numero π che, irrazionale alle menti sublunari, per divina ragione lega necessariamente la circonferenza al diametro di tutti i cerchi possibili – così che il tempo di quel vagare di una sfera dall’uno all’altro polo era effetto di una arcana cospirazione tra le più intemporali delle misure, l’unità del punto di sospensione, la dualità di una astratta dimensione, la natura ternaria di π, il tetragono segreto della radice, la perfezione del cerchio.”

    “Da endlich sah ich das Pendel.
    Die Kugel, frei schwebend am Ende eines langen metallischen Fadens, der hoch in der Wölbung des Chores befestigt war, beschrieb ihre weiten konstanten Schwingungen mit majestätischer Isochronie.
    Ich wußte – doch jeder hätte es spüren müssen im Zauber dieses ruhigen Atems -, daß die Periode geregelt wurde durch das Verhältnis der Quadratwurzel aus der Länge des Fadens zu jener Zahl ü, die, irrational für die irdischen Geister, in göttlicher Ratio unweigerlich den Umfang mit dem Durchmesser eines jeden möglichen Kreises verbindet, dergestalt, daß die Zeit dieses Schweifens einer Kugel von einem Pol zum ändern das Ergebnis einer geheimen Verschwörung der zeitlosesten aller Maße war – der Einheit des Aufhängepunktes, der Zweiheit einer abstrakten Dimension, der Dreizahl von ü, des geheimen Vierecks der Wurzel und der Perfektion des Kreises.”

    Ok, non vi dico autore e libro tanto si capisce benissimo 😛 (continuiamo il giochino) ma per conto mio non suonano dissimili, a parte qualche adattamento dovuto alla grammatica. La ricercatezza del periodo, la complessità della frase si mantiene pressochè intatta, ovviamente adattandosi alle rigide regole della costruzione tedesca. Ne risente forse un po’ la musicalità, ma per conto mio lo stile resta inconfondibile.

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    • “That was when I saw the Pendulum.
      The sphere, hanging from a long wire set into the ceiling of the choir, swayed back and forth with isochronal majesty.
      I knew — but anyone could have sensed it in the magic of that serene breathing — that the period was governed by the square root of the length of the wire and by pi, that number which, however irrational to sublunar minds, through a higher rationality binds the circumference and diameter of all possible circles. The time it took the sphere to swing from end to end was determined by an arcane conspiracy between the most timeless of measures: the singularity of the point of suspension, the duality of the plane’s dimensions, the triadic beginning of pi, the secret quadratic nature of the root, and the unnumbered perfection of the circle itself.”

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    • Letteralmente sarebbe il richiamo (o la chiamata, se preferisci) della vita selvaggia, lo so, ci vuole una locuzione, rende meglio il richiamo della foresta, anche se non è una traduzione propriamente letterale però rende il concetto. Era peggio tradurre The Catcher in the Rye 😉

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    • Il richiamo della foresta? XD

      Il punto non è appurare se e quanto una traduzione differisca dall’originale, non potrebbe essere altrimenti. Anche un testo traslato dal siciliano (o qualsiasi altro dialetto) all’italiano perde e acquisisce qualcosa. Il punto è capire se è vero che la traduzione uniforma lo stile, facendo apparire simili romanzi scritti da autori diversi in epoche diverse. La mia esperienza empirica mi dice che non è così.

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  4. D’accordissimo con voi che la traduzione non può appiattire lo stile, a patto che il traduttore si metta una mano sulla coscienza. Un romanzo di genere ha lo stesso diritto di essere ben tradotto di un romanzo di un grande autore e comunque mi soffermerei sul concetto di stile, che è un concetto molto complesso e squisitamente personale. Nella traduzione ci deve essere lo sforzo di trasmettere interi periodi con attenzione alle scelte lessicali e alla costruzione delle frasi e in questa attività si manifestano sempre preferenze stilistiche personali, è inevitabile. Credo che difficilmente si possa tradurre un racconto o un romanzo allo stesso modo, se cambia il traduttore. Anche in questo si afferma in un certo modo lo stile del traduttore, che però non vuol dire tradire lo stile dell’autore. Qual è la vostra idea personale di stile? C’è un ebook che l’amico e scrittore Andrea Franco ha dedicato a questo argomento che mi ha fatto molto riflettere e che cerca di rispondere a tante domande, tra cui anche questa: cos’è che rende uno stile unico e riconoscibile? La risposta sembra difficile, ma è sotto i nostri occhi: la nostra particolare sensibilità, il nostro patrimonio di vita ed esperienze, in una parola, noi stessi, con la nostra unicità. E questo si riflette anche nella traduzione.

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    • Ciao Lia, anche se mi segui spesso questa è la prima volta che ti fermi a commentare: benvenuta! 🙂

      Hai proprio ragione, è inevitabile l’interferenza del traduttore e lo stesso libro tradotto da persone differenti può apparire molto diverso. A questo punto mi viene da chiedermi: come mai non è nato il culto del traduttore? Ad esempio nel cinema i grandi doppiatori sono riveriti se non al pari degli attori, quasi. Con i traduttori invece questa cosa non sembra essere scattata. Vale la pena rifletterci.

      Interessante la tua domanda: cos’è lo stile? Come si differenzia? Ci rifletterò e ci scriverò un post.

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        • La Pivano la conoscevo per le sue traduzioni di Hemingway. Gli altri, no. Ma, credimi, in vita mia non mi sono mai – mai! – soffermato a leggere il nome del traduttore. Magari sono io a essere superficiale… 😛

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          • “La Pivano la conoscevo per le sue traduzioni di Hemingway” e hai detto poco 😛 un po’ come Amendola per il doppiaggio di Dustin Hofman 😉
            In realtà neanche io mi ci soffermo. Beh, la Rambelli era proprio considerata un’autorità nell’ambiente della fantascienza, lo stesso Lippi (Giuseppe, non Claudio) ha tradotto diversi Urania. Amitrano l’ho sentito nominare proprio da appassionati di Murakami.
            Poi ogni tanto capita leggendo le vite di alcuni autori che hanno tradotto questo o quello (mi pare anche Calvino, ma non vorrei sbagliare) però ovvio che in questi casi la loro fama da scrittori abbia offuscato quella da traduttori.

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      • I traduttori sono sempre stati sottovalutati. Parlo dei traduttori certificati, quelli con titoli di studio professionali. Nei tempi andati il ruolo del traduttore nella narrativa è sempre stato ricoperto da autori di un certo livello e questi non erano certo ignorati. Ora questo mi pare stia un po’ cambiando. La crisi però non aiuta, anzi: c’è stato un abbassamento generalizzato delle tariffe, in tutti i settori della traduzione (forse sarà per questo che i grandi scrittori non si dedicano più alla traduzione?). C’è la percezione diffusa che tradurre sia semplice e che chiunque possa farlo (anche Google), ma non è così.
        L’analisi dello stile e di cosa sia è interessante, è un bell’esercizio rifletterci su.

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  5. Salvatore, ho apprezzato moltissimo questo tuo articolo, che mi trova in gran parte d’accordo. Certo, se si padroneggia la lingua originale, tanto meglio, ma se così non è, l’alternativa quale sarebbe: non leggere affatto? La questione della traduzione dei testi letterari, tanto interessante quanto problematica, mi sta particolarmente a cuore, così come il doppiaggio per i film, che concettualmente pongo sullo stesso piano. E ritengo che noi italiani (più bravi a lamentarci, o a fare mea culpa per non conoscere il russo o il vietnamita – laddove a stento mastichiamo un po’ di basic english) siamo davvero fortunati, perché abbiamo degli ottimi traduttori e una scuola di doppiatori unica al mondo! 😉

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    • Grazie a te Francesco, per la lettura. Come al solito intervieni in modo opportuno. In effetti se non si parla nessun’altra lingua a parte la propria le alternative si restringono. E comunque non c’è nulla di male credo nel leggere letteratura d’importazione, buona letteratura d’importazione. Basta ricordarsi che esistono anche grandi autori italiani.

      Poco sopra, come risposta all’altro commento, ho anch’io tirato in ballo i doppiatori. Anche se traduttori e doppiatori sono due cose molto diverse – i primi hanno la responsabilità di tradurre nel modo più fedele possibile un testo da una lingua a un’altra, i secondo devono riuscire a farlo non con il testo ma con la recitazione, cioè riuscire a tradurre lo stile recitativo dell’attore straniero – alla fine credo che il concetto non sia così dissimile, e quindi ti chiedo: come mai, diversamente dai doppiatori, non è sorto il culto del traduttore?

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      • Gran bella domanda, che in effetti non mi ero mai posto… Ma forse proprio questa potrebbe essere la prova provata che i traduttori di opere letterarie scompaiono totalmente dietro le loro traduzioni, un lavoro straordinario teso unicamente a veicolare nel modo migliore possibile – quindi, anche dal punto di vista stilistico! – l’autore in questione e la sua opera, non a dare un volto e un nome al traduttore (cosa che invece spesso accade per i doppiatori, basti pensare alla battaglia voce-volto, peraltro non più così attuale). Per tornare alla tua stimolante domanda, credo che sia dovuto essenzialmente al fatto che cinema e letteratura – e quindi doppiaggio e traduzione come le rispettive e industriose “ancelle” – sono due arti straordinarie che semplicemente comunicano con linguaggi diversi, e che seguono logiche differenti, soprattutto mediatiche, oltre che di mercato…

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  6. Chi ha tradotto “Delitto e castigo” secondo me è stato geniale nel rendere il termine “stambugio”, anche se forse ai tempi questa parola era di uso comune. Ora il lettore medio non la capirebbe.
    Sul secondo incipit ero già cascata una volta tempo fa in cui l’avevo scambiato per una brillante commedia inglese alla Nick Hornby, e invece… toh, “Orgoglio e pregiudizio! Credo che ora non lo dimenticherò mai più. Murakami invece l’ho riconosciuto solo dai nomi giapponesi. 😉

    Domanda sorta leggendo il tuo articolo: come faranno gli inglesi a tradurre i congiuntivi volutamente sbagliati di alcuni miei personaggi minori? Ma forse sto ragionando troppo in grande adesso. E “ciò fame” scritto così non si può vedere: sembra uscito da uno status bimbominkiesco su Facebook! 😀

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    • “come faranno gli inglesi a tradurre i congiuntivi volutamente sbagliati di alcuni miei personaggi minori?” Immagino con altrettanti congiuntivi sbagliati o errori grammaticali voluti 😛

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        • Su dai, una specie di congiuntivo ce l’ha 😛 e anche qualcosa che somigli ad una grammatica 😀 Altrimenti cosa mi hanno fatto studiare tanti anni al liceo?

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    • Anch’io penso sia stato geniale a tirare fuori un termine così desueto e complimenti per essertene accorta, Chiara! Il secondo è proprio Orgoglio e pregiudizio, dicono che sia letteratura banale… io non concordo.

      Per quanto riguarda la tua domanda, come nel caso del pronome attualizzante “ci” eliso davanti all’ausiliare avere, in una traduzione i congiuntivi volutamente errati verrebbero appiattiti in un linguaggio volutamente standard, credo.

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  7. Scherzi a parte Grilloz, la mia domanda non era così ovvia come il tuo commento un po’ saputello l’ha fatta sembrare. Le coniugazioni verbali inglesi, come immagino tu sappia, sono decisamente scarne. Il congiuntivo italiano è reso in inglese con il corrispondente tempo dell’indicativo. Quindi se io uso l’indicativo al posto del congiuntivo per sottolineare che un personaggio non sa parlare, è molto difficile tradurre l’errore. 🙂

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    • Ho sempre problemi a tradurre i congiuntivi in inglese, ma questo è dovuto al fatto che mi son scordato buona parte della grammatica 😛 Ricordo che c’erano una serie di formne con svariati verbi modali, in effetti dovrei ripassare 😀
      Comunque, immagino che la parlata popolare si possa rendere con un’analoga parlato popolare, probabilmente attingendo agli slang. Comunque il lavoro di traduzione è un lavoro tuttaltro che facile,sopprattutto per la narrativa.

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  8. Mi sono ricordato di questo articolo:
    http://www.ilpost.it/2015/12/17/libri-elena-ferrante-inglese/
    fra le altre cose l’autrice sostiene che la Ferrante avrebba guadagnato dalla traduzione, che certi passaggi infelici in italiano diventano più scorrevoli tradotti. Ora la Ferrante non l’ho ancora letta, ne sono in grado di valutare stilisticamente le traduzioni in inglese, ma mi pare che un po’ di spocchia da parte dell’autrice della critica ci sia 😀 Ma se avesse ragione?

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  9. Secondo me la buona letteratura è sempre buona letteratura, ma penso che i molti che dichiarano “io non leggo italiani” si perdano qualcosa. Se poi si tratta di aspiranti scrittori lo trovo imperdonabile. Ci sono soluzioni linguistiche nostre che non si possono apprendere dalla traduzione. Hai fatto l’esempio di Camilleri e dell’uso che fa del dialetto (in alcuni casi non solo nel dialogo) è impensabile, secondo me, che qualcuno che voglia scrivere narrativa italiana oggi non abbia mai letto nulla di Camilleri. Si perderebbe qualcosa che è solo nostro. Quindi secondo me il problema non è nella traduzione ma, se mai, nel non leggere italiani per un pregiudizio insostenibile.

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    • Non leggere italiani per partito preso non è concepibile. È una forma di snobismo culturale senza senso. E poi come si fa a ignorare Gadda?, per dirne uno. Il vero problema della narrativa italiana è la lingua destinata a veicolare le opere; una lingua che ha una limitata diffusione e che marginalizza le opere italiane. Sono convinto che l’Italia ha e ha avuto scrittori buoni tanto quanto gli americani, gli inglesi e via dicendo. Forse di più… Ed è un peccato che siano poco conosciuti all’estero. Se fossero nati in America, alcuni dei nostri sarebbero stati osannati come pochi altri.

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      • Su questo non so. L’Italiano è una lingua molto amata e molto studiata all’estero, a riprova dell’attenzione data alla nostra letteratura, vantiamo un congruo numero di premi Nobel. Dire che negli ultimi decenni siano uscite opere di valore mondiale e che il mondo ha ignorato… Oddio, forse le ho ignorate anch’io e per questo non le riconosco…

        PS: trovo Gadda cordialmente antipatico, ma non si può non leggerlo.

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        • Gadda ha fatto qualcosa di simile a Thomas Pynchon, ma l’ha fatto prima. Spiegherò poi meglio cosa intendo, in un futuro post. Ciò che esprimevo nel commento precedente parte da questo ragionamento: Thomas Pynchon viene considerato il padre del romanzo postmoderno, ma ha fatto dopo (e peggio) quello che Gadda ha fatto prima e meglio, ergo: se Gadda fosse nato in America sarebbe stato osannato.

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          • Inoltre è vero che la nostra letteratura, così come la lingua, sono tenute in grande considerazione dai lettori colti esteri, ma chi se ne frega!, a me interessano i lettori non colti, cioè quelli normali. È lì che mi interessa immergere le zampine.

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  10. La penso come te: non esiste traduzione letteraria che non alteri in una certa misura l’opera, ma è di molto maggiore la parte che viene trasmessa rispetto a quella che viene “tradita” (salvo eccezioni in negativo, forse). Inoltre dovremmo privarci di creazioni eccezionali, se volessimo leggere tutto in lingua originale.

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      • L’avevo pensato, ma c’è un problema di carattere logistico: bisognerebbe trovarle diverse traduzioni dello stesso testo. Non è impossibile, basta scavare nei classici. Però richiede tempo… 🙂

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