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Fondamenti di grammatica per aspiranti scrittori

La volta precedente abbiamo introdotto, in modo elementare, le nozioni di categorie grammaticali e sintattiche, di sintagma, di frasi semplici e di frasi complesse (periodo). Oggi affrontiamo un altro aspetto, altrettanto elementare, dell’analisi logica: le tipologie di frasi che possono essere create con le categorie sintattiche.

Frase ellittica

La struttura soggetto espresso + predicato (con l’aggiunta dei vari complementi) esaurisce solo una parte delle possibili forme che può assumere una frase. Quando il soggetto o il predicato non sono espressi ma facilmente deducibili dal contesto, si ha una frase ellittica. Uno dei casi più comuni di questo tipo di frase si realizza con l’omissione del pronome personale soggetto: «vengo domani»; «dovresti credermi»; ecc. In questi casi, cioè, il soggetto è sottinteso.

Un’altra forma comune di ellissi è quella che si realizza nei dialoghi, in cui, ad esempio, una parte dell’informazione, enunciata come tema all’inizio, viene poi data per scontata:

«Chi viene al mare domani?».

«Io [verrò] di sicuro».

________

«Quante uova ci vogliono per uno zabaione?».

«[ci vogliono] Almeno due [uova]».

«Su simili rapporti di presupposizione si fonda una buona parte delle comunicazioni rapide e stringate della conversazione quotidiana» [Serianni]. Sfruttare questo modello nei dialoghi dei vostri romanzi, potrebbe essere una buona idea per renderli più verosimili a una conversazione reale.

Frase nominale

Il risvolto della medaglia è la frase nominale, in cui categorie grammaticali diverse dal verbo svolgono funzione verbale, assolvendo al compito del predicato. Ad esempio: «Qui tutto bene»; «Ultime notizie dall’estero»; ecc.

«La parte predicativa di una frase nominale non è in realtà equivalente ad un predicato verbale regolarmente espresso da un verbo. Il verbo è infatti dotato di un sistema flessionale che implica i tempi, i modi, la diatesi (cioè la relazione tra il verbo e il soggetto, a cui corrisponde una flessione specifica – ndr) e l’aspetto dell’azione, mentre le frasi con sintagma nominale predicativo si situano perlopiù in una dimensione di “atemporalità assoluta”, e hanno di solito funzione assertivo-descrittiva».

[Serianni]

Monoremi

Dal greco mónos «uno solo» e rēma «parola», i monoremi sono frasi costituite da una sola parola. Sono frequenti nelle forme a botta e risposta, cioè di dialogo serrato. Rientrano in questa categoria le forme olofrastiche (il cui significato equivale a un’intera frase), come le particelle e no, gli avverbi: certo; sicuramente; ecc. e le interiezioni: zitto!; fuori!; ecc.

L’unità comunicativa

La definizione di «frase», ci dice il Serianni, è uno dei problemi più dibattuti dai linguisti. Riesco a immaginarli benissimo questi «linguisti», con la barba lunga e la pipa in mano, che, seduti in poltrona, dibattono animatamente ma con garbo sulla definizione di «frase». Ad ogni modo, un buon punto di vista al riguardo è intendere la frase come una «unità comunicativa».

Esempio [dal Serianni]: se, vedendo un amico mangiare un cioccolatino, pronunciassi la frase: «Devono essere buoni quei cioccolatini!», il mio atto linguistico avrebbe il fine di:

  1. esprimere una constatazione oggettiva
  2. informare l’interlocutore che sto esprimendo un punto di vista («penso che quei cioccolatini siano buoni»)
  3. esprimere in maniera indiretta una richiesta

Mentre, riguardo alle prime due, l’atto comunicativo si potrebbe definire soddisfatto per il solo fatto d’essere stato espletato (valore locutivo); riguardo al punto tre la comunicazione si potrebbe definire efficace solo se, come conseguenza, l’amico mi offrisse effettivamente un cioccolatino (o almeno si informasse sul fatto che ne voglia uno). In questo caso siamo difronte a un valore perlocutivo.

«Gran parte degli atti linguistici presentano valori perlocutivi, espliciti o impliciti (ad esempio: “espressione di un ordine”, “richiesta”, “minaccia”, “invito”); ma tutti, per definizione, mettono in atto dei valori locutivi più o meno pronunciati (come “constatare”, “raccontare”, “spiegare”, “giudicare”, ecc.)».

[Serianni]

Buona parte della capacità di «servirsi della lingua per raggiungere uno scopo» dipende dall’abilità degli interlocutori nell’uso e nella comprensione del significato letterale e non delle frasi:

«– in che posso ubbidirla? – disse don Rodrigo, piantandosi in piedi nel mezzo della sala. Il suono delle parole era tale; ma il modo con cui eran proferite, voleva dir chiaramente: bada a chi sei davanti, pesa le parole, e sbrigati».

[Manzoni, I promessi sposi]

Sintagmi, semplici e complessi

Come dicevamo la volta scorsa: per dar forma alle frasi, le parole di raggruppano in unità sintattiche dette sintagmi. Si parla di sintagma nominale in riferimento a un nucleo incentrato sul nome, di sintagma verbale se il nucleo è un verbo. Ogni sintagma può avere una struttura più o meno complessa:

«i conduttori della metropolitana hanno annunciato uno sciopero di ventiquattro ore»

In questa frase il sintagma nominale è: «i conduttori della metropolitana», scomponibile in due unità minori: «i conduttori», «della metropolitana». Il primo è il soggetto; il secondo, un complemento di specificazione.

Il sintagma verbale, invece, è: «hanno annunciato uno sciopero di ventiquattro ore». A sua volta scomponibile in due unità minori: «hanno annunciato»; «uno sciopero di ventiquattro ore». In questo caso però, abbiamo scomposto il sintagma verbale complesso in un sintagma verbale semplice e in un sintagma nominale complesso: «uno sciopero di ventiquattro ore», il quale, a sua volta, è scomponibile in due unità semplici: «uno sciopero», che è il complemento oggetto; «di ventiquattro ore», complemento di misura.

Se li scomponessimo ancora, non troveremmo altre unità sintagmatiche, bensì «catene sintattiche di parole: un sintagma preposizionale semplice, ad esempio, è costituito dalla catena preposizione + nome (o preposizione + verbo infinito, ecc.), e così un sintagma verbale semplice da un verbo, un sintagma nominale semplice da un nome oppure da una catena articolo + nome, e via dicendo» [Serianni].

In altre parole, un sintagma semplice è l’unità minima di combinazione sintattica all’interno di una frase.

In molti casi una frase può essere costituita da un solo sintagma:

«Quando vorresti metterti in viaggio?».

«Di notte».

Quel «di notte» è un sintagma nominale semplice. Se il sintagma fosse costituito da una sola parola – l’abbiamo visto prima – si tratterebbe di un monorema:

«Vuoi partire di giorno o di notte?».

«Notte».

Conclusioni

Siamo giunti alla fine di questo rapido excursus attraverso l’analisi logica; non mi sembra sia il caso di sostare ulteriormente su queste cose. Abbiamo dato una bella rinfrescata alla memoria e, se mentre leggevate, vi è tornata alla mente quella maestrina dalla gonna rossa, che ogni tanto, sotto la cattedra, si scostava mostrando le gambe, be’, allora, vergognatevi profondamente, perché significherebbe che, fin da bambini, eravate dei perfetti depravati! La mia si chiamava Annalisa… State bene.

P.S. la prossima volta parliamo di: soggetto!

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Note:

Luca Serianni, Grammatica italiana, UTET universitaria, 2006.

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20 Comments on “Le frasi”

  1. Passando alla parte seria del commento, questa volta mi trovo un po’ in difficoltà col paragone col tesesco perchè la mia conoscenza della lingua si ferma ad un livello un po’ più basso. Quello che ci hanno sempre insegnato al corso è che il soggetto non può mai essere sottinteso (cosa che i tedeschi evitano di fare in genere anche nel parlato, anche se la lingua parlata tende comunque a perdere un po’ di struttura) ma non saprei dire se in ambito letterario possano esserci delle eccezioni.
    Altra cosa che ci insegnano è la rigida posizione delle forme verbali (il verbo di modo indicativo è sempre in seconda posizione, tranne che nelle interrogative, mentre tutte le altre parti della formaverbale , participi, modali, particelle varie finiscono alla fine della frase), anche su questo non ho mai notato eccezioni. Ovviamente in prima posizione può esserci un po’ qualsiasi cosa, spesso è il soggetto, ma può essere una preposizione soggettiva ad esempio, o un avverbio di tempo. Nell’ultimo caso ovviamente, il soggetto ruota attorno al verbo e va a trovarsi in terza posizione.
    “Oggi Luigi va al mare” in tedesco diventa “oggi va Luigi al mare”.
    ;a se vogliamo farla un po’ più complicata “oggi Luigi è stato al mare” diventerebbe “oggi è Luigi al mare stato”
    Complicato? naaa, questo è il meno, poi ci sono i verbi separabili 😛

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    • Non vorrei davvero trovarmi al tuo posto… XD Scherzi a parte, è possibile che sia una questione di abitudine. Anche l’Italiano ha delle rigidità, ad esempio, per dirne una: l’articolo non può mai seguire il sostantivo: “cane il”. Ma nessuno lo farebbe, anche il più analfabeta ha sviluppato abbastanza competenza da sapere istintivamente che l’articolo precede sempre il sostantivo: “il cane”. 🙂

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      • Più che di abitudine parlerei di competenze linguistiche che si acquisiscono nell prima infanzia,proprio quando si impara a parlare. Tra l’altro curioso come l’articolo preceda il sostantivo in tutte le lingue che più o meno conosco, tenendo conto del fatto che è un’invenzione abbastanza moderna (in latino non c’era)

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        • Be’ le competenze in una lingua, per quanto difficile, si possono acquisire anche una volta raggiunta la maggiore età (o oltre). Tu lo stai facendo con il tedesco, mi pare. In questo senso parlo di abitudine o, se preferisci, di “orecchio” in senso figurato. Chiaro che durante l’infanzia sia tutto più facile e immediato. 🙂

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          • Bisognerebbe chiamare in causa qualche neurosscienziato, ma mi pare che l’area del cervello preposta al linguaggio si formi in tenera età, quando impariamo una lingua da adulti lo facciamo in modo mnemonico, senz che ci siano modifchiche in quell’area del cervello. Infatti noi da adulti tendiamo a “tradurre” nella nostra lingua madre, mentre i bambini bilingue non o fanno, anzi, da piccoli sono in grado di parlare corretamente le due lingue ma se gli chiedi come si dice una parola nell’altra lingua non ti sanno rispondere.

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            • Di neuro-scienza non ne so nulla; mi pare di aver letto da qualche parte qualcosa di simile al tuo commento, cioè che vengono coinvolte due aree diverse del cervello (imparando una lingua da bambini o da adulti). Tuttavia rimango sempre affascinato quando sento un italoamericano, nato in Italia e trasferito in America venti o trenta anni fa, affermare di aver perso competenza nella lingua madre ma di averla acquisita istintivamente in quella di adozione. Alcuni di loro devono tradurre dall’inglese per ricordarsi come si dice in italiano… Secondo me dipende anche dalla qualità dell’immersione in un contesto linguistico. Ad esempio: se ti limiti a studiare l’inglese stando comodamente in Italia, è possibile che lo imparerai solo a livello mnemonico; ma se ti trasferisci in Inghilterra o in America e ci stai per vent’anni… be’, non ne posso essere sicuro, ma sono pronto a scommettere che l’area del cervello coinvolta è la stessa usata nell’infanzia. 🙂

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  3. E beato te che sei in ferie, Salvatore. 🙂
    È difficile fare commenti aggiuntivi su parasintagmi, cose perlocutive o monoremi. 😐
    Infatti siete finiti a parlare di differenze fra lingue. Mia madre è originaria del sudtirolo ed è convinta che ordine linguistico del tedesco imparato fin da bambini e rigidità mentale teutonica siano inscindibili: forgiano i bambini fin da piccoli. La sua maestra li martellava sempre con la famosa “Lerne Ordnung und liebe sie” (impara l’ordine e amalo!). Così i tedeschi sono mentalmente rocciosi e noi italiani libertini ingovernabili.
    La mia maestra era bravissima ma era una suora (ho fatto le elementari dai salesiani). Sarà per questo che ho imparato tutto bene già all’epoca: niente distrazioni. 🙂

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