Amore Omicida

Erano quasi le tre, non poteva attendere oltre. Inserì il vinile sul perno di rotazione e spinse in avanti la puntina. Questa saltò sul solco con un breve fruscio di suole strascicate. Poi lo swing suonò rapido sulle note di un Harry James risoluto, riempiendo un salotto vecchio stile di dolci melodie in archi e degli acuti di una tromba.

Tre archi e una tromba.

Una bottiglia mezza vuota di scotch rifletteva d’ambrato l’unico lume della stanza. Lo sguardo saccente di un uomo in divisa abbracciato a una donna lo spiava da dietro un paio di baffi curati. Allungò una mano e capovolse il portafoto, poi prese la pistola e fece scorrere il tamburo a lato. Vi infilò tre proiettili. Sistemò il primo in corrispondenza del cane, richiuse e se la mise in tasca.

Tre passi e fu accanto al lume.

Un’auto sterzò di colpo stridendo sull’asfalto. Tre colpi di clacson e un paio di fari illuminarono il salotto dalla finestra. Stette immobile per un lungo istante. I fari passarono e il buio calò totale. Imboccò le scale. Il terzo gradino cigolava sempre. Penetrò per prima nella stanza della moglie. L’urto del percussore sull’innesco della cartuccia rimbalzò da muro a muro. Da qualche parte, oltre la strada, una luce s’accese. Uscì dalla camera ed entrò in quella dei bimbi. La canna fumava ancora di zolfo e salnitro. La piccola pianse; fu l’unica a svegliarsi.

Tre colpi. Tre centri.

Uscì di casa e attraversò il viale. L’auto di pattuglia era lì davanti. Vi salì e filò in centrale. Quando entrò, i pochi colleghi ancora presenti lo salutarono con affetto senza notare il volto sconvolto e la mano tremante.

Attraversò l’atrio girando attorno al bancone, imboccò il corridoio di sinistra e lo percorse fino in fondo. Davanti a una porta si arrestò. Diede tre colpi sincopati di nocche sul legno, quindi entrò senza aspettare.

Il tenente alzò lo sguardo su di lui. Sbuffò prima di chiedere, ma lui non gliene diede il tempo.

***

Sono le tre e trentatré di mattina. I primi cronisti, ancora assonnati, vengono respinti uno dopo l’altro dagli agenti di turno. Un uomo, ammanettato, attende solo in una stanza. Nell’ufficio attiguo il capitano sta consultando il suo superiore.

«… adesso che facciamo?».

Il comandante scuote la testa. Lo sguardo accigliato sonda i bordi del pavimento. Poi prende una decisione.

«Procediamo».

I due escono dall’ufficio ed entrano nella stanza accanto. Chiudono la porta alle proprie spalle. La porta si aprire solo dall’esterno e nel corridoio, di guardia, c’è un solo agente che conoscono bene. L’orologio a parete scandisce i minuti. Il ticchettio delle lancette riempie il vuoto. Il capitano tira indietro la sedia facendone stridere i piedi sul pavimento. Il rumore è fastidiosamente intenso. Ci si siede e con un colpo di reni l’avvicina. Il comandante appoggia parte del sedere sul tavolo e guarda l’agente ammanettato. Nessuno dei due parla. I secondi scorrono lenti.

Mezz’ora più tardi gli ufficiali s’affacciano alla finestrella e il comandante fa cenno alla guardia d’aprire.

«Capitano». La guardia è visibilmente sconvolta.

«Che c’è, Stuart?». Non è dell’umore adatto.

«Eravamo amici, io e…» con il capo indica l’uomo nella stanza. «… eravamo amici».

«Lo so, Stuart. Lo eravamo tutti».

«Perché… Dio, non posso crederci. Perché l’ha fatto?».

Il capitano si volta a guardare la porzione di stanza che si scorge dallo spiraglio della porta. È solo un attimo. Poi torna a fissare Stuart.

«Per amore. Ha detto: per amore».

***

Ho sempre pensato che il tre fosse un numero perfetto: la Santa Trinità, il secondo dei numeri primi e il primo dei numeri euclidei… Tre volte tre fa nove, un multiplo di tre, ma anche trecentotrentatré: tre numeri tre, uno affianco all’altro. Il tre è il quarto numero della successione di Fibonacci. È il numero atomico del litio. È il numero di lettere della parola: Dio. Tre sono i nei del mio avambraccio. Tre sono i lati di un triangolo. Tre sono le mie voglie mai svanite: per il gelato al lampone; per il rosbif con le patate; per una sigaretta dopo il caffè. Tre sono gli angeli che consegnerò al Signore. Tre, le rose che reciderò stanotte. Tre, i cuori che devo fermare. Tre, le lacrime che voglio versare. Tre, le persone che non smetterò d’amare…

Fine

36 Comments on “Tre volte Swing”

  1. Un bel racconto, immagini suggestive, soprattutto la prima stanza col giradischi e dopo fuori dalla stanza dell’interrogatorio. Però aspetto una disanima sulla sua postmodernicità (non so se si scrive così :D)

    poi, ehm, crocido? http://dizionario.internazionale.it/parola/crocido- (ammetto di non sapere cos’è il bioccolo però) forse volevi dire crocidio 😉
    e… il tetraedro di facce ne ha quattro (mai far leggere agli ing, troppo precisi :P) non esistono figure geometriche solide con meno di 4 facce 😉
    rosbif te lo perdono perchè ho visto che si usa 😉

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    • ahahah ok, diciamo che ne ha tre visibili, il tetraedro. 😛
      Rosbif si usa, sul dizionario c’è: ho controllato. Il mio dizionario riporta anche crocido (oltre a crocidio) che oltre a essere un verso è anche un rumore prolungato. Però mi hai fatto venire un dubbio, stasera controllo.
      Sulla disamina, è semplice: la struttura è composta da tre porzioni scritte in stile diverso: non solo per il tempo in cui sono raccontate, ma anche per lo stile. Il tre si ripete in continuazione. Nella prima porzione, il tre si ripete anche isolato per tre volte. Eccetera, eccetera. Ma il punto fondamentale è che la storia vera è quella che non viene raccontata. Quella che il lettore può immaginare sulla base degli indizi. Quella che un narratore tradizionalista, uno scrittore di genere, avrebbe scelto di scrivere.
      C’è un solo dubbio che mi resta: la terza porzione, quella in prima persona, avrebbe funzionato meglio se scritta con il verbo rivolto al “farò” anziché al “ho fatto”?

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  2. Dipende da come lo guardi 😛 puoi vederne anche solo una 😉
    Crocido controlla, che sono curioso, ma non è meglio comunque crocidio che contiene la parola dio e chiude il cerchio con l’ultimo pezzo?
    Per l’ultimo pezzo intendi al futuro? sì, forse sì, anche perchè a quel punto il lettore si domanda se il protagonista parli al futuro perchè folle, o perchè l’ultimo pezzo va messo prima del primo, no?

    Tornando alla disanima, ma il principale fan del non detto non era Eminghway? Anche lui post moderno allora? (hai presente ad esempio colline come elefanti bianchi?)
    E che mi dici di Salinger, nel suo un giorno ideale per i pescibanana, il primo dei nove racconti, dove infondo parla della guerra, anche se la guerra non compare mai nel racconto?

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    • Scusi, lei faccia il pignoletto sui numeri…! XD
      No, crocidio non va bene. L’ho scartato perché suona male. Ogni frase ha una sonorità precisa. 🙂
      Esatto, al futuro. Solo che… non lo so, non c’è un vero motivo per mettere quel pezzo in terza posizione con il verbo al futuro. Ci devo riflettere.
      No, sono due cose diverse. Hemingway una storia te la racconta, anche se decide di raccontarla a modo suo. Io qui decido arbitrariamente di non raccontartela affatto. Hai notato questo passaggio: «Il tenente alzò lo sguardo su di lui. Sbuffò prima di chiedere, ma lui non gliene diede il tempo»?
      Cioè, questo racconto è come se fosse il negativo di una fotografia. Sarebbe bello se una scrittrice di genere (vero Tenar?) decidesse di scrivere il positivo, cioè la storia non raccontata. Così i due racconti si potrebbero quasi sovrapporre.
      Il racconto che citi di Salinger non l’ho letto; di suo ho letto solo il giovane Holden. I casi, in cui il narratore decide di non raccontare la storia raccontandola sono, credo, numerosi. Percò bisogna distinguere tra stile e struttura. Qui non c’è lo stile (proprio perché ci sono tre stili diversi: 1. classico in terza persona al passato; 2. terza persona al presente; 3. prima persona al presente), c’è la struttura. 🙂
      Ecco, adesso che ci penso… un motivo per metterlo al futuro è questo: il primo è al passato, il secondo al presente, il terzo? Lo mettiamo al futuro? Eureka! Lo modifico!

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      • BEh, in ogni corrente artistica c’è qualche anticipazione in ciò che la precede, no?
        Ecco, in quel racconto, colline come elefanti bianchi, Emingway parla di un aborto, ma non lo cita mai. Il racconto si svolge in una stazione dove i protagonisti stanno aspettando il treno. La storia in realtà si svolge prima di quel momento (il concepimento e il motivo che li ha portati a questa decisione) e dopo quel momento (quando arriveranno all’ospedale dove avverrà l’atto) ma tutto ciò resta fuori, se ne intuisce solo la presenza, il negativo di una sstoria, proprio come dici tu.
        Sì, in quel racconto manca il resto, la struttura, il cambio di genere, et., almeno credo

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        • Sinceramente: non me lo ricordo. Di Hemingway ricordo molto di più i romanzi. Non saprei sinceramente… Tieni conto che la storia, la narrativa, i movimenti artistici, sono un evolversi fluido. Cioè le varie correnti non sono chiuse in cubicoli stagni. Quindi ci sta che Hemingway abbia anticipato un qualcosa che si sviluppera più avanti. 🙂

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  3. Nella parte finale della narrazione dei fatti, ovvero quella dell’arresto e del tentato interrogatorio, si interrompe la regola del tre. Due ufficiali escono dalla porta, nessuno dei due (comandante e imputato) dirà nulla, l’ultimo dialogo tra due persone.
    Probabilmente nella narrazione non avrebbe retto in questi punti la regola del tre, ma la si può leggere anche in senso simbolico. Qui termina la perfezione, qui comincia il dramma.

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    • Giusto, Silvia. Però: perché l’ultimo dialogo tra due persone?

      Gli ufficiali sono due, ma con la guardia che sta fuori sono tre. È vero che rimane fuori, ma anche questo è simbolico: l’uomo comune, l’agente semplice, non può essere reso edotto dei fatti (della Verità) se non tramite il filtro di un suo superiore.

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      • Bello, mi piace. Proprio come si diceva qui nel post precedente, la struttura è contenuto. Si sposta l’attenzione dal detto al non detto, ma se si guarda la struttura c’è molto di più di ciò che si sarebbe potuto raccontare a parole. Grazie, credo di aver imparato molto da te su questo tema. 🙂

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      • Anche dentro la stanza dell’interrogatorio sono in tre: capitano, comandante e agente ammanettato. Solo quando sono soli, il capitano e il comandante, sono in due. Ma sono due che stanno cercando la verità. Anche l’agente e il tenete sono soli, è vero, però allora lo erano anche l’uomo e la moglie quando quest’ultima è stata uccisa.
        Comunque, interessante Silvia, grazie! 😀

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  4. Molto suggestivo. Non ho però capito come avresti utilizzato il futuro nell’ultima parte.
    La frase «Per amore. A detto: per amore» (refuso: manca la “H”) sarebbe stata più “postmoderna” se fosse stata solo «Per amore.» Il lettore dovrebbe decidere se lo ha detto il protagonista o se l’ha dedotto il tenente. 🙂 🙂
    L’unico punto che mi ha lasciato un dubbio di comprensione è quando bussa tre volte all’ufficio del tenente, entra e non gli dà il tempo di fare cosa? Per un attimo ho pensato gli avesse sparato. Poi ho contato i colpi. Per il resto è evocativo ma lucido, cosa non facile da rendere. Complimenti.

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    • Wow, mi è saltato un refuto terribile. Lo modifico subito. A mia giustificazione: ero molto concentro sulla struttura. 😛

      Bella l’idea di lasciare da solo: Per amore. Tuttavia, come dicevo a Silvia, l’agente che sta fuori dev’essere edotto… C’è qualcosa di cabalistico e di mistico in tutto questo, non trovi? XD

      Quel dubbio te lo lascio, così decidi da solo cosa avviene. 😉

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  5. Il racconto mi è piaciuto. Ti trovo migliorato rispetto ai primi tempi. Oltre alle osservazioni già fatte su facebook, l’incipit e il titolo mi sembrano un po’ slegati rispetto al resto della storia. L’atmosfera dello swing è poco-postmoderna, e mi fa pensare agli anni 20. Però dà lentezza e dolcezza alla storia, creando una cesura con ciò che avverrà dopo. L’auto che passa in strada dà quel tocco di post-modernità, così come la presenza di un non-luogo. Ma perché il protagonista si chiama Stuart? Sai che non mi piace l’ambientazione americana posticcia! 😀

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    • Sturat non è il protagonista, si trova solo fuori dalla sala interrogatori. Ho scelto un non-luogo, come dici giustamente, che richiama gli anni cinquanta e l’america perché sono due cliché che urtano con il postmoderno. Dall’urto speravo di trarne qualcosa, cioè una maggiore evidenza, una sorta di sottolineatura della struttura. Ambientarlo in Italia si potrebbe farlo facilmente (e in un primo momento era nato così), ma solo rendendo realistico il racconto. Nel senso di prendere proprio una storia dalla cronaca e lavorarci su. 🙂

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    • Grazie, Giulia. Però chi dice che accadrà ancora, e poi ancora e via dicendo? Magari è tutto accaduto solo nel suo immaginario. Magari deve ancora accadere sul serio e tutto quello che precede è solo frutto di una sua supposizione. 🙂

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