L'arte di disegnare a matita

Con il disegno mi sono sempre usciti solo scarabocchi. Da ragazzino, tuttavia, c’è stato un periodo in cui mi ero messo in testa d’imparare. Per assecondare quella mia momentanea passione avevo acquistato, tra le altre cose, un manuale: “L’arte di disegnare a matita: corso pratico completo” di Francisco Asins. Questo libro, che conservo ancora oggi, spiegava la differenza tra i vari tipi d’impasti di grafite, come tenere in mano una matita quando si disegna e le tecniche della prospettiva e del ritratto. Venivano mostrati molti esempi. Molti di questi disegni, eseguiti dall’autore stesso, erano semplicemente eccezionali. Quando lo ebbi fra le mani, lo sfogliai ammirato. Mi fermai a osservare i volti, gli occhi, le orecchie; tutti disegnati a matita. Poi lessi avidamente la parte che parlava di strumenti e di tecniche. Provai anche a copiare qualcuno di quei ritratti, anticipando di molto i tempi. Capii che il disegno non faceva per me quando arrivai alla parte più noiosa del manuale: gli esercizi.

Il manuale proponeva una serie di esercizi semplici, da eseguire ogni giorno, magari più volte al giorno, per allenare la mano e migliorare il tratto. Quando me li trovai davanti, pensai: «davvero devo eseguire centinaia di volte questi tratti e queste chioccioline? Tutti i giorni? Più volte al giorno?». Il manuale tornò nella libreria, dov’è rimasto fino a oggi. Io riposi gli strumenti da disegno e smisi di pensarci del tutto. La cosa, però, i primi tempi mi avvilì parecchio. Non sapevo ancora che quell’anno avrei imparato la differenza tra la passione e l’hobby.

Nello stesso periodo, mio padre, si era messo in testa di insegnarmi a pescare. Lui era un pescatore della domenica mattina, ma con delle ambizioni. Appresso si portava sempre mio nonno, così da avere compagnia. L’idea di starmene impalato per ore in attesa che il pesce abboccasse non mi andava molto giù. La pesca, per un ragazzino, è qualcosa di estremamente noioso, secondo me. Assecondai i suoi desideri per un solo motivo: avevo notato l’esistenza di una tecnica detta “a galleggiante”. Consiste nell’inserire un galleggiante sulla lenza e aspettare che questo venga tirato giù, sotto il pelo dell’acqua, dal pesce che abbocca. Il trucco sta nel trovare la giusta profondità. Vale a dire, nel piazzare il galleggiante in una certa posizione, facendo in modo che l’amo, all’altra estremità della lenza, si trovi in quel particolare tratto di acqua in cui i pesci, in base alla stagione, alla temperatura e a un altro migliaio di variabili, nuotano affamati. È una tecnica di attesa. Ben altra cosa rispetto alla mosca o al recupero con il cucchiaino. Però mi dava la possibilità di starmene seduto all’aria aperta e di leggere i miei libri senza dover badare alla canna.

Così finì che la domenica pomeriggio, a pesca, andassimo tutti e tre assieme: mio padre, particolarmente competitivo; mio nonno, che sonnecchiava placido; e io, che passavo il tempo a leggere senza degnare la canna di uno sguardo. Di tanto in tanto qualche pesce abboccava, ma per sbaglio. Spesso io stesso dimenticavo di imbastire l’esca. Un po’ lo facevo apposta: non mi piaceva l’idea d’uccidere dei pesci.

Poiché ero un ragazzino sveglio però, e anche un ottimo osservatore, molto di più di quanto non lo sia ora da adulto, nonostante la pesca non mi piacesse, quell’estate imparai a fare un sacco di cose. A lanciare la lenza senza farla impigliare sui rami degli alberi attorno, ad esempio. A imbastire l’esca. Ad annodare l’amo e il galleggiante; cosa non facile, che richiede una certa perizia e la conoscenza di alcuni nodi speciali. Avevo imparato anche, con una certa riluttanza, a sfilare l’amo dalla pancia della trota senza ferirla. Non mi andava di farle del male, non più di quanto fosse necessario. Alla fine dell’estate ero in grado di tagliare una lenza errata e di armarla nuovamente di amo, piombi, galleggiante ed esca in venticinque secondi netti.

Quell’anno, mio padre, ostinato, decise di iscrivermi a una gara. Non ne avevo alcuna voglia. Trovarmi in mezzo a un’altra ventina di ragazzi, alcuni dei quali parecchio più grandi di me, e competere a chi tirava su più trote, mi metteva soggezione. Ma non volevo deluderlo. Mi faceva male quel suo sguardo corrucciato. L’accusa implicita di quegli occhi silenziosi, che mi guardavano fisso per un lungo secondo per poi distogliersi delusi, mi incupiva. Decisi di partecipare facendo il minimo indispensabile; sfangarla senza che questo potesse venirmi rinfacciato.

Il giorno della gara era una domenica mattina d’autunno. Faceva freddo. Indossavo un maglioncino color merda e pantaloni di velluto a coste color cachetta. Imbarazzato, mi ritrovai in mezzo a una ventina di ragazzini, tutti decisi a vincere le tre coppe messe in palio. Dei due a fianco a me: uno aveva la mia età, ma un’indole più vivace; l’altro era più grande, di molto, e aveva l’aria di sapere bene cosa fare. Eravamo stati disposti in una fila poco omogenea, che simulava il procede tortuoso del tratto di lago su cui ci trovavamo. Io reggevo la canna silenzioso, tremando quasi, e osservano nervoso il colore dell’acqua. Il cielo d’autunno era nuvoloso e la superficie del lago sembra fatta di zinco fuso.

Mi guardai attorno smarrito, mentre gli altri sembravano pronti allo start. La canna la reggevo con entrambe le mani. Il giudice di gara fischiò. All’unisono tutti lanciarono l’esca. Io rimasi fermo. Mi voltai verso mio padre, sull’altra sponda, in cerca del suo sguardo. Non pareva deluso; se lo aspettava. Sapeva che non ero come gli altri, io, che me ne stavo tutto il giorno seduto a leggere.

Tirai indietro la canna e lanciai anch’io. Mentre gli altri erano impegnati a recuperare la loro lenza, per lanciarla nuovamente, il mio galleggiante atterrò sull’acqua. Ero l’unico a usare il galleggiante. Era una tecnica da sfigati. Mio nonno lo usava. Sulla punta della canna metteva addirittura un sonaglio. Così, quando la trota abboccava, il trillo lo scuoteva. Quella mattina, in occasione della gara, sorridendomi nel suo modo affettuoso, me ne regalò persino uno. Lo presi pesando potesse portarmi fortuna.

Osservando il mio galleggiante, il ragazzino vivace si mise a ridere. E rise ancora più forte quando vide il sonaglietto. Poi mi rivolse uno sguardo caustico e con estrema cattiveria attirò l’attenzione degli altri. Risero tutti. Tutti, tranne il ragazzo più grande a fianco a me. Stringendomi in me stesso, mi confortai all’idea che a lui non importasse. Lui voleva vincere. Il suo sguardo concentrato era solo per il tratto di lago che aveva di fronte.

Mentre gli altri tiravano indietro la lenza per la terza volta, io decisi di prendere una sedia e mettermi a leggere. Tanto, che senso aveva? Non avrei mai vinto. Tanto valeva sfruttare bene quel tempo. Non mi voltai a guardare mio padre. Sapevo cosa aspettarmi da lui. Adagiai la canna sull’asta di supporto e tirai fuori “L’arte di disegnare a matita: corso pratico completo” di Francisco Asins. Mi immersi nella lettura. Un quarto d’ora dopo, però, mentre tutti continuavano a ritirare e rigettare inutilmente la loro lenza, il sonaglietto trillò. Lasciai andare il libro e mi lanciai sulla canna. Diedi uno strappo deciso, per far arpionare l’amo, e iniziai il difficile recupero. All’altro capo, qualcosa di grosso cercava di resistere. Quando vidi il muso boccheggiante della trota emergere dal pelo dell’acqua, capii che era fatta. Fui il primo a tirare su una bella trota rosea, quella mattina. Gli altri mi guardarono con rispetto.

Mentre la riponevo nel cestello, mi accorsi dell’occhiataccia del ragazzino vivace. Mi odiava, ne ero certo. Ricambiai con un sorriso sbarazzino. Fu l’occhiata del ragazzo più grande che mi scosse. Era la prima della giornata. Il resto del tempo l’aveva passato ignorandomi. A me andava benissimo, che m’ignorasse. Adesso invece mi vedeva come un avversario. La cosa non mi piacque.

Imbastii l’esca e rigettai la lenza. Nello stesso istante in cui il galleggiante atterrò sull’acqua, il ragazzo più grande diede uno strappo deciso con la sua canna. Recuperò la lenza e tirò su una trota simile alla mia. Eravamo pari. Gli altri ragazzini non esistevano più. La gara era fra noi. Ogni volta che toccavo Asins, il sonaglio trillava. Ogni volta che rigettavo la lenza, il mio vicino pareggiava. Andammo avanti così per quasi tutta la mattina. Alcuni dei ragazzini smisero addirittura di pescare e si misero a osservarci. Facevano il tifo. Era una bella sensazione.

Pochi minuti prima del fischio di stop eravamo in una situazione di parità. Normalmente mi sarebbe andato benissimo, ma a quel punto volevo vincere anch’io. Mentre il vicino osservava concentrato il pelo dell’acqua, recuperando lentamente come se stesse scassinando una serratura complessa, il mio galleggiante venne risucchiato giù. Il sonaglio trillò forte. La punta della canna si piegò in modo così deciso da farmi temere la rottura. La trota che aveva abboccato doveva essere gigante.

Impugnai la canna senza dare alcuno strappo. Non volevo rischiare di rompere tutto; sarebbe stata la fine. Agendo su una rotella, allentai la tensione concedendo lenza al pesce. Mi predisposi a una confronto difficile. La mia strategia era semplice: concedere lenza, quindi agire sul mulinello. Alternando i due momenti l’avrei stancato. Era un po’ come domare un puledro selvaggio.

Mentre mi affannavo, il ragazzo a fianco a me smise di recuperare. Rimase in attesa, concentratissimo. Sembrava stesse ascoltando una conversazione interessante che avveniva però a una distanza eccessiva. Pareva una statua, tanto era rigido e immobile. Poi diede un colpo deciso, verso di sé, e iniziò a recuperare velocemente. Anche la punta della sua canna si storse pericolosamente. Anche lui agì sulla rotella. Eravamo a uno stallo.

Notai il giudice portarsi il fischietto alle labbra. Per un attimo lanciai un’occhiata a mio padre: mi guardava serio. Decisi di abbandonare ogni precauzione e cominciai a recuperare con tutta la foga possibile. Se la lenza si fosse rotta… pazienza. Almeno ci avevo provato. Il mio vicino fece la stessa cosa. I mulinelli ruotarono impazziti. I ragazzi attorno gettarono le canne e urlarono incitandoci. Il giudice ruotò il polso e guardò l’ora. Tirai con forza spostando il peso all’indietro. Finalmente vidi il muso della trota affiorare. Era fatta! Avrei vinto. Per la prima volta: avrei vinto. Mio padre sarebbe stato orgoglioso.

Poi la trota ruotò su se stessa. Diede un colpo di coda violento e si immerse con decisione nell’acqua. La punta della canna si piegò quasi a formare un perfetto ferro di cavallo. Io piantai i piedi. La lenza mollò e caddi. Mi rialzai immediatamente per armarne subito un’altra ma… giunse il fischio.

Vi voltai verso il mio vicino. Lui mi guardava standosene impalato. Una trota bella grossa penzolava dalla sua lenza.

Quel giorno tornai a casa con una coppa che reggevo a stento, tanto era pesante. Aveva la forma di una trota e sembrava dorata. Una targhetta, sulla base di marmo, riportava la scritta: secondo posto. Mio padre era orgoglioso e camminava gonfiando il petto. La sera stessa, quando mi propose un’altra gara, gli dissi chiaramente che pescare non mi piaceva. Ero contento d’essere arrivato secondo, ma non faceva per me. Non parve deluso. Lui conosceva la differenza fra passione e hobby.

«Perché allora,» gli chiesi, «mi hai iscritto?».

«Avevi bisogno di imparare» mi rispose. «Non puoi apprendere tutto quello che c’è da sapere sulla vita solo dai libri».

Qualche anno dopo, quel ragazzo, divenne un professionista. Apparve perfino su qualche rivista specializzata. Una volta, allegato al giornale per cui scrivevo, lo vidi persino in un VHS che regalavano con il Corriere della Sera: insegnava a pescare pesci enormi sul Rio delle Amazzoni.

Per quanto riguarda me, non ho più pescato. E con la matita ho continuato a fare solo scarabocchi. Però ho imparato a essere un buon padre. Forse, anche un discreto scrittore.

33 Comments on “L’arte di disegnare a matita”

  1. Posso scrivere bellissimo? ok, forse è troppo…
    Io pescare non ho mai pescato, non mi ha mai attirato, però l’arte della pesca mi riporta sempre in mente i grandi narratori americani, fra loro la pesca è una costante, dillo che l’hai fatto apposta 😉

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    • Dai non esagerare, mi imbarazzo. 🙂

      È un raccontino in stile classico, con un piccolo esperimento espressivo iniziale – quello, cioè, di simulare come incipit l’inizio di un post qualsiasi –, ma niente di davvero sperimentale. Insomma è un po’ come l’autoerotismo: scritto per il mio ego. Per il primo romanzo sto lavorando a qualcosa di meglio, di postmoderno con radici nel neo realismo. Mercoledì prossimo pubblicherò il mio “Manifesto artistico”.

      Vedremo se Einaudi ha coraggio da vendere… XD

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  2. Il bello di racconti come il tuo (al di là della interessantissima idea di dissimulare il racconto nel post, ci ero proprio cascata!!) è che, almeno a me, suscita l’interesse su quanto ci sia di autobiografico. Quella che inizialmente può sembrare una domanda pruriginosa, quasi si volesse scavare nella vita personale di un autore, in realtà è il sintomo del coinvolgimento in cui cade il lettore. Se è vero, come è vero, che ci scrive deve non solo conoscere ciò che scrive (Stephen King docet), ma deve possedere la materia, beh, nel momento in cui l’impressione che un racconto sia autobiografico diventa reale, allora il gioco è fatto. Non “sembra” un racconto, è un racconto. Che sia successo realmente o no, non importa.
    Complimenti. 😉

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  3. Molto bello, ed esperimento riuscito. È la prima volta che ti scrivo, Salvatore, ma ti seguo da tempo grazie a pennablu.
    Se posso fare un appunto, la frase “Nello stesso istante in cui il galleggiante atterrava sull’acqua” richiede il passato remoto “atterrò”. Nel complesso, ripeto, mi è piaciuto veramente tanto.

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    • Ciao Pad, grazie per l’appunto doveroso: correggo subito. 🙂
      Mi fa piacere ti sia piaciuto e mi fa piare che mi segui, anche se per colpa di Pennablu, ma si faccia sentire più spesso però! 😉

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  4. Bravo, Salvatore, sono cascata nel doppio tranello anch’io: la finzione del post e il finto racconto autobiografico.
    Ma il racconto non è finto e mi è piaciuto molto! 🙂

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  5. Bravo Salvatore, questo è il mio racconto preferito tra quelli che hai scritto, me lo sono proprio gustata.
    Ci hai fregato per bene, ma potresti fregare anche te stesso e sfruttare questa tecnica in futuro.
    Intendo dire che è un ottimo modo per circuire il tuo censore con la scusa del post e poterti calare nel personaggio in modo fluido e graduale.

    Fino alla fine ho pensato che fosse un racconto autobiografico. Ci volevo talmente credere che quando ho letto “sono diventato un buon padre” ho pensato che parlassi in modo metaforico, del padre che sarai. Questo indica quanto credibile sia il racconto! Complimenti! (Oppure indica quanto io sia tonta, ma guardiamo sempre al bicchiere mezzo pieno che è meglio :D)

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    • Grazie Lisa, è un bellissimo complimento! Tuttavia siamo ancora lontani da quello che ho in mente di realizzare. Questo è ancora un racconto di gusto classico (non a caso ho scelto proprio la pesca, come ricordava, qualche commento sopra, Grilloz). Mentre in questo momento sono più ispirato dal postmodernismo. E anche se il “nuovo realismo” ha già iniziato a circolare presso gli ambienti colti, secondo me c’è ancora ampio margine per un romanzo post-moderno.

      Però, hai ragione: la tecnica è valida e si può sfruttare. 🙂

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  6. Sono andata a pescare un paio di volte con mio papà e mio nonno. Non mi piaceva, anche perché per lo più pescavamo arborelle e gobbetti, e a me dispiaceva fare del male ai pesci per poi rimetterli in acqua…

    Comunque esperimento più che riuscito.
    Sono entrata convinta che fosse un post e ho concluso credendo che fosse un racconto autobiografico. Avrei anche continuato a crederlo, se non avessi letto i commenti. Mannaggia a me, non potevo saltarli? Volevo che fosse vero!

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