Fondamenti di grammatica per aspiranti scrittori
Chiamato anche troncamento, consiste nella caduta di un elemento fonico (vocale, consonante o sillaba) in fine (fin) di parola. In italiano se ne distinguono solo due tipi:
- Apocopi sillabiche, caduta di una sillaba: grande -> gran
- Apocopi vocaliche, caduta di una vocale: filo di ferro -> fil di ferro
In entrambi i casi l’apocope non avviene di norma davanti a una pausa. Nella poesia tradizionale fa eccezione l’apocope in fin di verso:
***
né il sol più ti rallegra
né ti risveglia amor
[Carducci, Pianto antico]
***
«L’apocope in fin di verso, sconosciuta alla poesia delle origini, si diffuse nel Quattrocento in seguito alla fortuna delle canzonette musicate del veneto Leonardo Giustinian, in cui il fenomeno abbondava» [Migliorini].
Fossili
Tra i casi di apocope sillabica si possono isolare i fossili, in cui la forma ridotta ha sostituito completamente, o quasi, la precedente forma piena.
- Apocope di -de, ad esempio in virtude > virtù, bontade > bontà, ecc. In questo caso si tratta di aplologia (scomparsa di una sillaba che è uguale o simile in un gruppo di parole, n.d.r.) prodottasi originariamente in sintagmi in cui il sostantivo era seguito dalla preposizione di (cittade di Roma > città di Roma, anche se, però, continuiamo a dire: cittadino).
Naturalmente, chiunque abbia letto la poesia della nostra tradizione letteraria ricorda l’abbondante presenza della forma piena: «non hai tu spirito di pietade alcuno?» [Dante, Inferno]; «e per la libertade / ecco spade / ecco scudi di fortezza» [Carducci, Congedo].
Tuttavia l’apocope di -de non è riuscita ad attecchire in piede (piè), forma che, seppure quasi esclusivamente limitata all’ambito letterario: «le prostrate mura / l’arduo monte al suo piè quasi calpesta» [Leopardi, La ginestra]; «Un carrettiere, giù nella strada, si chinava a piè della muraglia» [D’Annunzio, Trionfo della morte]; si ritrova in alcune locuzioni come a piè di pagina, a piè fermo, a ogni piè sospinto; oltre che, cristallizzato, in alcuni toponimi: Piedimonte. Serianni raccomanda attenzione nel non adoperare la grafia pie’.
- Un altro fossile è don, il titolo di rispetto verso i religiosi (ad esempio: «don Abbondio» – per far felice il Mozzi –, censurato però dai puristi ottocenteschi [Lissoni]) e, nell’Italia meridionale e insulare, anche di laici («don Franco lo speziale» [Verga, Malavoglia]. Il don risale all’antico italiano donno: «fu a Barletta un prete, chiamato donno Gianni di Barolo» [Boccaccio].
Altre volte le forme con apocope sillabica convivono accanto alle forme piene come varianti facoltative (grande > gran, poco > po’, fanno > fan), o con distribuzione obbligata.
Regoletta
Si deve evitare l’apocope sillabica davanti a vocale. Ad esempio, gran uomo è una forma scorretta, come anche han osato: «errata, ma cristallizzata grazie alla televisione, la variante gran aroma (di caffè)» [Serianni]. Ormai rara l’apocope nel plurale grandi: «di gran parole» [Manzoni, I Promessi Sposi]; «di gran granchi» [Nievo, Le confezioni d’un italiano].
Apocope obbligata
Tra i casi di apocope obbligata vanno ricordati bello e santo (bel e san), là dove si userebbero il e un al posto di lo e un: «che bel tipo!» (come il tipo, un tipo), ma «che bello studio!» (come lo studio, uno studio); «san Giorgio» (come il giorno, un giorno), ma «santo Spirito» (come lo spirito, uno spirito).
Tuttavia bel e san tendono a invadere il territorio delle rispettive forme piene, «specie davanti a s complicata per bel e soprattutto davanti a z per san» [Brunet]: «un bel spettacolo» [Silone], «che bel scherzetto» [Buzzati]; «San Zeno di Verona», «via San Zanobi a Firenze», «la chiesa di San Zaccaria a Venezia».
Altri casi di apocope obbligata, sono:
- Frate seguito dal nome proprio, ad esempio: fra Cristoforo. Questa formula è, ormai, cristallizzata anche davanti a vocale: fra Eugenio. Anticamente, davanti al nome proprio, si poteva usare anche la forma piena.
- Cavallo nel proverbio «a caval donato non si guarda in bocca». L’apocope di cavallo è più diffusa nell’italiano arcaico e in poesia: «né pedata di caval conoscendovi» [Boccaccio, Decamerone]; «Avete un po’ di posto, o voi del Caval Grigio?» [Gozzano, La notte Santa].
- Antonio, Giovanni, Gianni nei nomi doppi: Anton Giulio, Anton Maria, Giovan Pietro, Gian Carlo, Gian Franco (o con univerbazione: Giancarlo, Gianfranco, ecc.), anche davanti a vocale: Gian Andrea (Gianandrea), ecc. Da notare che in Antonio > Anton non si ha propriamente apocope sillabica (che darebbe Antò, forma limitata all’Italia centro meridionale e insulare), ma riduzione della sillaba finale alla prima componente.
- Valle, Torre, Colle, Monte, Casa (Casa solo in area settentrionale) nei toponimi: Val d’Arno, Valpolicella, Tor di quinto, Tor Bella Monaca, Ca’ d’Andrea, ecc. Più rara l’apocope in porta, come: via di Por Sana Maria (Firenze, se non sbaglio).
- I verbi in –rre (condurre, porre, trarre, ecc), ma quasi solo nell’uso antico e letterario: «per trar l’amico suo di pena» [Dante, Purgatorio]; «vide il pagan por la sua gente a morte» [Ariosto, Orlando Furioso]. L’apocope è stabile nella locuzione, “oggi adoperata perlopiù scherzosamente” – dice il Serianni, senza por tempo in mezzo (cioè, “senza indugio” – personalmente mai usata).
- Arcaica l’apocope in me’ < meglio, ver’ < verso: «il dì seguente scoperse me’ la vittoria» [Davanzati]; «Ver’ me si fece, e io ver’ lui mi feci» [Dante, Purgatorio]. Antiquata o regionale l’apocope in ma’ < mamma, pa’ < papà (meno giustificate le grafie pà e mà, dice il Serianni).
Apocope facoltativa
L’apocope vocalica può essere obbligatoria: per l’articolo uno, negli indefiniti composti con uno, negli infiniti seguiti da enclitica; o facoltativa. In molti casi, infatti, pur essendo possibile, non avviene. In particolare non si ha mai l’apocope in termini dotti, tecnici o scientifici. Invece è abbastanza regolare in sostantivi usati come titoli e seguiti dal nome proprio. L’apocope si ha in parole occasionalmente adoperate come appellativi professionali o onorifici: «Ma piccion Giulio è rivoluzionario?» [Biagi, La Repubblica 12.03.1986], in riferimento a Giulio Andreotti, con allusione agli avversari politici pronti a impallinarlo. L’apocope è inoltre usuale, pur non potendo definirsi obbligatoria, con un aggettivo in -le o -re in giustapposizione con un altro aggettivo: «nazional popolare».
«L’apocope facoltativa, piuttosto diffusa in Toscana e nell’Italia settentrionale, è più rara nell’Italia centrale e meridionale. Nel Mezzogiorno si usano senza riduzione persino i titoli professionali in –re seguiti dal nome: “c’è il dottore Palumbo?”» [Serianni].
Nel riformare la lingua, il Manzoni ne’ I Promessi Sposi abbandonò però in apocope, andando anche oltre l’uso toscano: «dal giardin pubblico», «un pensier poco allegro», ecc. Anche in D’Annunzio, ma più per gusto dell’insolito, si hanno apocopi insolite: «la sua particolar visione dell’universo», «della condizion presente», ecc.
Regoletta
Perché si possa avere apocope vocalica devono essere soddisfatte due condizioni:
- La vocale colpita deve essere sempre atona e diversa dalla a (tranne nell’avverbio ora e nei suoi composti). La i e la e non si apocopano mai se contrassegnano un plurale.
- La consonante che precede la vocale finale deve essere una liquida (l,r) o una nasale (n,m). Nel caso di m l’apocope – l’imitata alla 4° persona dei verbi – è rara (andiam via).
La norma scolastica – dice il Serianni – che distingue l’apocope vocalica (buon amico) dall’elisione (buon’amica) in base al fatto che la prima si produce anche davanti a consonante (buon vecchio), la seconda no (buon vecchia) è discussa e reinterpretata in Leone 1963. Il Leone ritiene che davanti a vocale si possa parlare, foneticamente, solo di elisione, graficamente contrassegnata da un apostrofo (l’uomo) oppure priva di segnale (un uomo): «l’apostrofo è il segno che si usa nell’elisione, per distinguere dalla seconda la prima parola, quando questa non ha esistenza indipendente (luomo > l’uomo, ma unuomo > un uomo perché si scrive un giorno)» [Leone].
In base a questa norma bisogna quindi scrivere qual è (non qual’è) perché si può dire qual vita, qual monte, eccetera; ma pover’uomo, perché nessuno, oggi, direbbe pover cielo, come in Dante.
Conclusioni
La distinzione tra apocope vocalica e elisione è una pura formalità, che però diventa essenziale conoscere per non sbagliare l’introduzione del grafemico apostrofo. Per il resto, la lingua, è uno strumento sonoro (a fiato) non diverso da una tromba o un clarinetto. Molte di queste regole, pur senza conoscerle, vengono usate istintivamente perché l’unica vera regola nella comunicazione orale è la semplicità e il buon suono. Tutto tende a questo. Nella scrittura (secondo livello di linguaggio) le cose si complicano un pochino, e si cristallizzano, a causa dello sforzo di riprodurre su carta un suono.
Il prossimo ripasso riguarderà la divisione sillabica. Inoltre inizieremo a introdurre l’accento.
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Note:
Il testo di riferimento è: Luca Serianni, Grammatica italiana, UTET universitaria, 2006.
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In effetti ho sempre usato queste regole, senza rendermene conto. Stavolta almeno le conoscevo tutte 🙂
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Ma in fondo l’uso della lingua è istintivo. Se c’è una cosa che sto imparando da questo mini-ripasso di grammatica è che le regole servono a riprodurre il più fedelmente possibile un parlato eccellente (cioè senza inflessioni dialettali, arcaismi, ecc.). Le regole si possono anche stravolgere, se lo si fa con consapevolezza. Ad esempio, se i parlanti smettessero improvvisamente di usare il troncamento “quel”, tanto da renderne l’uso arcaico, potrebbe succedere che “qual è” si inizi a scriverlo con l’apostrofo… 🙂
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Anch’io ho sempre usato queste regole a istinto, però adesso mi è tutto più chiaro (confesso che mentre conoscevo l’elisione, il termine “Apocope” era per me sconosciuto o forse dimenticato) 🙂
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Grazie Giulia. Forse, però, conoscevi il termine “troncamento”. È la stessa cosa. 🙂
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Il qual è apostrofato (qual’è) è un errore che riscontro spesso nei testi di esordienti. E qualche volta anche in qualche testo passato in tv! Sigh!
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Sì, però è un errore secondo me meno grave di tanti altri. Questo, proprio perché il principio che differenzia l’elisione dal troncamente è sufficientemente labile. Quasi soggettivo, potremmo addirittura dire.
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No, no, qual’è è proprio un pugno in un occhio!! 😉
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Eppure quell’apostrofo lì è tanto bellino… quasi un peccato non metterlo. Com’era: l’amore è un apostrofo rosa tra le parole T e amo? XD
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Anche per me queste regole sono ormai un automatismo. è sempre interessante, però, prendere coscienza di cosa si fa e del perché lo si faccia. 🙂
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Condivido. È essenziale capire il perché di certe regole, per fare un salto qualitativo in avanti. 😊
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Voglio che mi parli del sostantivo femminile… Tronca tutti questi discorsi sull’elisione. Vai al sodo.
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Brigitta, Carlotta, Federica, Stefania, Costantina, Ludmilla, Libellula, Lavatrice, Murena… contento? -_-
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Buona sera!
Sto studiando italiano, e questo materiale mi è stato di gran aiuto.
Cordiali saluti del Brasile
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Ciao Felipe,
grazie per la tua testimonianza. Mi fa piacere che il mio articolo ti sia risultato utile. In bocca al lupo per il tuo studio.
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