Corde vocali

Fondamenti di Grammatica per aspiranti scrittori

La volta precedente abbiamo visto cosa sono i fonemi e i grafemi; cosa si intenda per ortografia; come si è evoluta la nostra lingua, sia orale, sia scritta. In questa mini lezione/ripasso di grammatica, invece, vedremo cosa sono le vocali, come si producono e come si sono evolute.

L’emissione dei suoni

Dai polmoni, l’aria percorre la trachea fino a incontrare le corde vocali generando dei suoni. Se sono articolati, come abbiamo visto la volta precedente, si tratta di foni: vale a dire suoni veicolanti di significato. Le corde vocali sono due pliche muscolari che delimitano uno spazio detto glottide. A seconda della posizione assunta al passaggio dell’aria, generano tipi diversi di suoni. Le posizioni fondamentali sono tre:

  • Espiatoria o neutra, richiesta per le articolazioni sorde;
  • Chiusa, sfruttata da lingue come l’arabo (o prima di un colpo di tosse);
  • Sonora, cioè quando le corde vocali vibrano, toccandosi e staccandosi molte volte al secondo, usata in italiano per le articolazioni vocali e le consonanti sonore.

Dalla laringe (il tratto che contiene le corde vocali) l’aria passa attraverso la faringe per uscire simultaneamente attraverso il naso e la bocca, o soltanto dalla bocca. Questo, a seconda che il velo palatino (il palato molle) sia rilassato o sollevato. Se è rilassato (beato lui) consente il passaggio dell’aria sia dalla bocca, sia attraverso le fosse nasali, generando le famose consonanti nasali: /n/, /m/, /ɲ/ (ɲ di gnocco). Se invece è sollevato, addossato alla parete faringea, costringe l’aria a uscire esclusivamente dalla bocca, generando le orali.

Sonorità o sordità, oralità o nasalità costituiscono i tratti distintivi dei diversi foni. Ad esempio, tra la /b/ e la /m/ o tra la /d/ e la /n/ l’unico elemento distintivo è il tratto di nasalità. Per questo motivo, quando siamo vittime di un raffreddore, si generano quei comicissimi incidenti sonori tipo: babba per dire mamma; o dodda per dire nonna.

Quando l’aria passa attraverso il canale espiatorio senza incontrare ostacoli – salvo le corde vocali che per lo più vibrano – si emette una vocale; diversamente si produce una consonante. Ora, le consonanti sono considerate rumore, poiché prodotte da una vibrazione irregolare aperiodica (provate a vedere per quanto tempo riuscite a vocalizzare – che già di per sé è una contraddizione – la velare nasale /n/: nnnnnnnnnnnnnnnnnnnnnnnnnnn! Facile? Adesso provate con la /t/…). Le vocali, invece, sono considerati suoni, poiché prodotte da una vibrazione regolare periodica (non a caso si dice vocalizzare, no?). Il cavo orale fa da cassa armonica.

In italiano le vocali costituiscono suono a sé; le consonanti invece, non essendo pronunciabili da sole, consuonano con una vocale (si chiamano con-sonanti apposta). Tuttavia, in alcune lingue, esistono consonanti che possono costituire apice di sillaba (come nel caso di Trieste [Trst], che è un nome sloveno). Le vocali vengono articolate grazie ai movimenti della lingua: l’organo fonatorio per eccellenza.

Le vocali

La lingua può appiattirsi sul pavimento della bocca originando la /a/: vocale di massima apertura; oppure sollevarsi e avanzare in corrispondenza del palato duro, realizzando così le palatali, con gradi di apertura decrescente: /ɛ/ (di letto), /e/ (di verde), /i/; oppure sollevarsi e arretrare in corrispondenza del palato molle, originando le velari: /ɔ/ (di corpo), /o/ (di monte), /u/. In italiano le velari richiedono anche la protrusione delle labbra, grazie alle quali vengono anche chiamate: labiali.

L’opposizione tra /ɛ/ ed /e/, e tra /ɔ/ e /o/, dice il Serianni, è più netta di quanto si vorrebbe ammettere. In ortografia, la mancanza di rappresentazione grafica per indicare l’apertura o la chiusura di queste vocali ha ostacolato la pronuncia fiorentina. Qualche tentativo in passato è stato fatto, ad esempio aggiungendo i grafemi [ɛ] e [ɔ] (G. Trissino, 1478-1550), o i paragrafemici ^ su [ê] e su [ô] aperte (Salvini, 1653-1729), grazie ai quali, benché il tentativo sia fallito, possiamo ricavare notizie sulla pronuncia in uso nei loro secoli.

In latino le vocali si distinguevano in base alla quantità, ossia alla durata: breve (VĔNIT = viene), o lunga (VĒNIT = venne). Il sistema entrò in crisi in età imperiale, quando le vocali brevi tendevano a essere pronunciate aperte e quelle lunghe chiuse. Delle dieci vocali latine in sillaba tonica si ebbero le cinque chiuse e le due aperte dell’italiano. In sillaba libera (cioè terminante per vocale): dalla Ĕ breve si ha il dittongo // (PĔDEM > piede), dalla Ŏ breve si ha il dittongo // (NŎVUM > nuovo); in sillaba implicata (terminante per consonante) si mantengono la /ɛ/ e la /ɔ/ aperte. Dei dittonghi latini: AU si trasforma in /ɔ/ (AURUM > oro), AE segue le sorti di Ĕ (LAETUM > lieto) e OE si fonde con Ē lunga (POENAM > pena). Nel vocalismo atono, invece, mancano le vocali aperte e i dittonghi.

Vale la pena ricordare che questi esiti sono propri delle voci popolari, cioè dei vocaboli che si sono evoluti per bocca dei parlanti; le dotte, invece, sono state adattate artificialmente e solo per via morfologica, mediante desinenza italiana, mantenendo la vocale latina quale che fosse la quantità: DĬSCUM > disco; MĔRUM > mero; CRUDĒLEM > crudele…

Anche in italiano esiste una diversa quantità vocalica. Sono, ad esempio, brevi le atone e le toniche in sillaba implicata o in fine di parola: salì e salto hanno entrambe una pronuncia breve della /a/ rispetto a sale dove, invece, è pronunciata lunga. Tuttavia, in italiano, questa opposizione non ha rilevanza fonetica o grafemica.

Ci sarebbe tutto un capitolo da aprire sulla pronuncia regionale, che però ritengo si possa saltare per concentrarci sull’italiano standard. Al riguardo il Serianni però, dice una cosa che vale la pena annotare: «Quasi nessun parlante si sottrae all’impronta d’origine, tralasciando per di più il modo soggettivo di articolare i suoni, l’intonazione, ecc. Tuttavia un italiano standard, che per la lingua scritta esiste certamente, esiste anche per quella parlata, quella cioè che “lascia capire il più tardi possibile la propria provenienza regionale e sociale” [J.O.H. Jespersen]».

La sanzione sociale – dice il Serianni – di fronte alle pronunce regionali in genere è modesta (personalmente non concordo affatto, n.d.r.) ed è molto meno marcata della censura ortografica (cosa, invece, plausibile). Alcune pronunce regionali sono più accettate di altre (ad esempio quelle delle grandi aree metropolitane).

Conclusione

Perché tante paranoie sull’uso orale della lingua se noi, alla fine, abbiamo deciso di fare gli scrittori e non i radiocronisti? Potrebbe essere questa un’obiezione su questi primi mini ripassi di grammatica. In fondo, per noi aspiranti scrittori, basterebbe concentrarci sulle regole che riguardano più direttamente la grammatica della lingua scritta e l’ortografia… no? No, perché se non conoscete bene il primo livello linguistico (quello orale, appunto) non potete capire perché nel livello secondario (scritto…) sono state fatte delle scelte riguardo a: raddoppiamenti fonetici (e di conseguenza grafemici), elisioni, accenti, eccetera.

La prossima lezione/ripasso verterà sulle consonanti. Contenti?

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Note:

Il testo di riferimento è: Luca Serianni, Grammatica italiana, UTET universitaria, 2006.

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21 Comments on “Dai polmoni ai grafemi”

  1. L’articolo è completo e anche molto tecnico, tuttavia sono un po’ scettico sulla sua utilità ai fini della scrittura.
    Riguardo alla pronuncia regionale io sono molto avvelenato con i giornalisti televisivi che sbagliano sempre la pronuncia delle parole. Un tempo c’era l’attenzione alla dizione, ora scomparsa, e ci ritroviamo gente che in TV usa le vocali chiuse quando andrebbero aperte e viceversa.

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    • E sbagliano anche le consonanti: non c’è verso di fargli pronunciare Caltanissetta con le due esse di cui si compone il nome della città! (Qualcuno, poi, pensa che sia un errore persino di digitazione e scrive Caltanisetta!)

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      • Hai ragione. Ora mi viene in mente chi pronuncia “Amazzonia” con la zeta dolce come in zaino, quando ci vuole quella forte come in zozzo. E chi dice “zucchero” con la zeta forte… (dolce e forte li dico così, non sapendo il termine tecnico).

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        • In realtà “zucchero” andrebbe pronunciato con la zeta dura (nemmeno io conosco il termine tecnico 😀 ) su una vecchia edizione del De Mauro avevo anche la fonetica ma chissà dov’è finito [EDIT: confermo /ˈtsukkero/ http://www.wordreference.com/iten/zucchero ].

          La TV ormai non la si può più ascoltare, certi personaggi (sia giornalisti che attori) sono imbarazzanti, e non faccio nomi non per rispetto ma perché sono troppi. Come dice sempre un mio amico attore, per sapere la pronuncia esatta di una parola guardati un film italiano degli anni 60 e ascolta come la pronunciano lì 🙂

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          • Il suono che corrisponde alla consonante z in zucchero è /ts/, cioè un’affricata alveolare sorda. Diversamente, la z di zaino (o zozzo come dice Daniele) ad esempio, corrisponde al fonema /dz/ che è un’affricata alveolare sonora. Mentre la z di sdraio (che non si vede, ma si pronunacia [zdrajo] o di rosa [rɔza], è una costrittiva alveolare sonora. Per intenderci non si può parlare di z dolce o dura, perché il carattere grafemico non corrisponde al suono di pronuncia. Complicato? 😀

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    • Daniele, man mano che proseguirò con il ripasso di grammatica apparirà, secondo me, sempre più chiaro il perché introdurre anche questa parte. Ad esempio, è molto difficile capire il raddoppiamento (fonetico, ma anche grafemico che ne è una conseguenza) senza sapere cosa sono i fonemi, da dove si evolve la /ɛ/ aperta e i dittonghi. Sui dittonghi, in particolare, credo sia davvero difficile capirli senza queste due prime lezioni introduttive. La stessa cosa vale per le elisioni, gli accenti, ecc. Insomma, ho fatto una scelta concettuale. Anche perché o l’approccio è quello del tipo: imparo la regoletta a memoria e la applico; oppure si cerca di capire bene il perché una certa regola esiste e funziona in un certo modo. Quindi non si può separare il livello orale del linguaggio da quello scritto. Il secondo deriva comunque dal primo. Questo, senza contare le variazioni sia dialettali, sia degli italiani regionali, che chi ha studiato con Mozzi, ahimè, ha imparato a capire l’importanza della loro cura nel testo scritto per superare il livello dilettantistico e diventare professionisti della narrazione…

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