Sophya


Sophya di notte sotto la neve

Lo stomaco brontolò.

Strano, – pensò Sophya, – lo fa solo quando penso alla parola: cibo.

Lo fece di nuovo.

Chissà se le due cose sono collegate? – si chiese.

In accordo con i pensieri, lo stomaco brontolò per la terza volta.

Seduta su una panchina di legno, di quelle molto vecchie, in un angoletto carino di una via stretta, Sophya osservava curiosa i passanti. Andavano tutti molto di fretta. Alcuni erano carichi di borse. Altri, infreddoliti, si infilavano rapidamente nei negozi, lasciandosi alle spalle solo uno sbuffo di vapore.

La via aveva una pavimentazione in acciottolato e le case attorno indossavano ancora facciate di mattoni. Festoni luminosi addobbavano la strada collegandosi, per tutta la via, da un palazzo a quello di fronte e molti negozietti, eleganti e ben arredati, si affacciavano in fila. Al loro interno, calde luci gialle mettevano in risalto la mercanzia esposta.

Sophya si scaldava alla sensazione di calore che quelle luci le trasmettevano. Immaginava se stessa entrare in uno di quei negozi. Vestita bene e senza l’intenzione di rubare. Magari… mano nella mano con una mamma. Non per forza la propria, che neanche ricordava, ma una che non fosse solo frutto della propria immaginazione.

Con uno sbuffo allontanò quel pensiero da sé. Poi guardò la nuvoletta di vapore dileguarsi in fretta nell’aria. Quindi si lisciò il cappotto, troppo ampio e logoro, e se lo strinse maggiormente sul petto, vicino alla gola. Dall’alto, qualche pennacchio bianco iniziava a cadere in modo disordinato, qui e là.

Sophya alzò gli occhi per valutare la situazione. Erano pochi al momento, ma il colore eburneo del cielo non prometteva niente di buono. Poi vide un ciuffo di neve avvicinarsi leggero al suo viso. Tirò fuori la lingua e il fiocco ci si posò sopra. Resistette qualche attimo prima di sciogliersi. In risposta, il suo stomaco, brontolò ancora.

Nell’edificio di fronte, dal negozio di dolciumi, si aprì una porta e ne uscì un uomo. Con passo calmo, l’uomo, si diresse proprio verso di lei. Con diffidenza, Sophya, lo osservò avvicinarsi. Aveva più o meno una cinquantina d’anni, era alto e magro, e  indossava abiti di buona fattura. I capelli, un po’ stempiati ma ancora scuri, erano pettinati con la riga di lato. Sul viso, un paio di occhiali dalla montatura sottile e dorata, davano all’uomo un’aria distinta.

Non indossava la giacca, ma solo un golfino bordeaux a coprire la camicia bianca. Con le mani si abbracciava il torso, per il freddo, ottenendo come risultato un’andatura un po’ incerta. I pantaloni, di cotone grigio, erano tirati troppo su e lasciavano intravedere, in basso, i calzini bianchi. A ogni passo, le scarpe di cuoio, lasciavano tenui solchi sulla neve, già molto calpestata, e il suono della compressione giungeva chiaramente fino a lei.

 Titubante, Sophya, si chiese se fosse il caso di fuggire. Anche se l’uomo aveva un aspetto moderato e a tratti persino buffo, era consapevole che per lei, sola sulla strada, i pericoli fossero molti. Con l’esperienza aveva imparato a riconoscere le intenzioni delle persone da piccoli indizi, ma i più pericolosi erano proprio quelli con un aspetto ambiguo. Quelli di cui ci si poteva quasi fidare.

Ma non era solo questo. C’era anche un’altra questione da valutare. Anche se l’uomo non fosse stato un maniaco, e ce n’erano, lei già sapeva cosa aspettarsi. Era capitato altre volte. La sua età, e la sua condizione, suscitavano spesso nelle persone che incrociava una sorta di pietà. Tuttavia nessuno aveva veramente voglia di aiutarla. La pietà era un sentimento a scadenza. Un po’ come giocare con una bomba dalla miccia accesa. I grandi se la rimpallavano l’un l’altro da una vita, sperando che non gli scoppiasse in mano.

Come in un copione, l’uomo le avrebbe rivolto parole gentili, in un primo momento, facendole un sacco di domande alle quali non aveva alcuna voglia di rispondere. Poi l’avrebbe invitata a entrare, al caldo, e con una scusa si sarebbe allontanato per fare una telefonata. Sarebbe quindi giunta una volante. I poliziotti, tutte brave persone sinceramente preoccupate, l’avrebbero portata in questura. Lì, avrebbero chiamato gli assistenti sociali. Dopo qualche ora, trafelato e infastidito per l’orario, sarebbe arrivato un uomo. La bomba sarebbe passata nelle sue mani e la miccia sarebbe stata già molto corta. L’uomo l’avrebbe trascinata nel proprio ufficio e, dopo una breve indagine, l’avrebbe rispedita nella casa famiglia da cui era fuggita.

In tutto questo, naturalmente, a nessuno sarebbe mai venuto in mente di chiederle: Perché? Perché scappi?

«Buonasera signorina,» salutò l’uomo in tono formale, accennando perfino un inchino, «serata piuttosto fredda, non trova?». Lo chiese con gentilezza, battendosi le mani sulle spalle, come per scaldarsi.

«Penso di sì,» risposte Sophya imitandone forzatamente il tono, «ma anche splendida, non trovate?».

«Sì,» iniziò a dire l’uomo, poi alzò lo sguardo e si corresse: «Veramente… sembra voglia riprendere a nevicare».

«Oh io adoro la neve, lei no?».

«No, in effetti no. Preferisco il riparo del mio negozio e una buona cioccolata calda. Le andrebbe?».

«Dice sul serio?».

«Sì, certo. Vede quella signora affacciata alla vetrina?» chiese l’uomo indicando una donna dentro il negozio. «È mia moglie. Ci rimarrebbe molto male se tornassi indietro da solo. Riuscirebbe a farmi dormire sul divano per molte notti e non credo che basterebbe qualche giorno di occhiatacce e silenzi dispettosi a farle passare il rammarico. Le spiacerebbe essere così gentile da accompagnarmi?».

L’uomo aveva uno strano modo di parlare e di porsi, non le era ancora capitato uno così. A parte il modo molto formale, sembrava che non le stesse chiedendo di seguirlo per pietà nei suoi confronti, ma nei propri. Se era una strategia, quella, le piacque molto.

«Potrei, ma io cosa ci guadagno?».

«Una cioccolata calda, tanto per cominciare, e poi sono sicuro che la mia signora vorrà offrirle una fetta di quella magnifica torta di mele di cui è tanto famosa».

«Mi piace l’idea, però… ha dimenticato una cosa».

L’uomo tirò indietro il capo, colto alla sprovvista, come a voler evitare un buffetto sul viso. Poi, incuriosito, chiese: «Cosa?».

«Non devo accettare niente dagli sconosciuti, la mia mamma me lo raccomanda sempre. Si è infilata in uno di questi negozi… ma l’ho persa di vista» rispose, fingendo di guardarsi attorno.

L’uomo sorrise, poi allungò una mano. «Allora lasci che mi presenti: il mio nome è Carlo e la mia signora si chiama Margherita. Posso chiederle il suo?».

«Certo» rispose Sophya senza aggiungere altro e lasciando l’uomo con la mano tesa.

Carlo rimase in attesa per alcuni secondi, poi chiese: «…e qual è allora il suo nome?».

«Mi chiamo Sophya,» disse, stringendogli infine la mano, «Sophya, con la h».

«Con la h? Un po’ strano…».

«Un po’ strano, ma mi piace così».

«Bene. Allora, signorina Sophya, crede di poter aspettare sua madre, al caldo, dentro il negozio? Non si preoccupi, si può sedere vicino alla vetrina e se la vediamo arrivare o uscire da qualche parte, andrò io stesso a chiamarla. Le spiegherò tutto in modo da non mettere lei nei guai. Che ne dice?».

L’uomo le dava una buona sensazione, ma lei era ancora un po’ incerta. I lampioni si erano già accesi tutti e le persone iniziavano a uscire dai negozi per tornarsene a casa. Era già completamente buio. Faceva freddo e da li a poco, ci avrebbe scommesso, avrebbe cominciato a nevicare sul serio.

All’interno del negozio, affacciata alla vetrina, la moglie dell’uomo li osservava preoccupata. Era un donnone ben in carne, ma aveva un volto gradevole e un’espressione simpatica. Un grembiule bianco le copriva l’ampio ventre e, in parte, i fianchi larghi. Ne teneva un’estremità fra le mani e ci armeggiava nervosamente, sfregandoci le dita. Di tanto in tanto distoglieva gli occhi per guardare verso la strada, come se fosse preoccupata che qualcun altro potesse avventarsi su di lei per primo.

Sophya sorrise. Non c’era nessuna fila di gente disposta ad aiutarla con tanta ansia. L’aspetto della signora le trasmetteva un conforto molto casalingo. E Carlo, suo marito, le dava l’idea d’essere un uomo dimesso, forse un po’ succube della moglie, ma molto intelligente.

Quando la donna, dietro la vetrina, notò il suo sguardo, un sorriso spontaneo ne illuminò il volto. In quel momento, Sophya, prese una decisione d’impulso. Lo fece d’istinto perché altrimenti se ne sarebbe restata lì, nel dubbio, seduta su quella panchina per tutta la notte. A valutare i pro e i contro. E a pentirsene. Ma non era nel suo carattere farlo. Con un saltello si mise in piedi. Poi raccolse una vecchia borsa di stoffa sgualcita che si infilò a tracolla.

«D’accordo,» disse, «ma a una condizione».

«E quale sarebbe la condizione?» chiese Carlo.

«Che non chiamate l’assistente sociale, non subito. Voglio finire la cioccolata prima di tornare nella casa famiglia. Per favore».

Quella confessione, molto matura per una ragazzina così giovane, lo stupì. Poi un sorriso si andò formando e l’uomo rispose: «Non si preoccupi di questo adesso, signorina Sophya con l’h, vedremo di concederle tutto il tempo che desidera».

Quindi si girò di lato e le offri il braccio. Sophya lo prese, infilando il proprio sotto il suo, e si incamminarono verso il negozio. La donna, dall’altra parte della vetrina, quando li vide procedere nella sua direzione, quasi saltellò dalla gioia. Lasciò andare il grembiule e si affrettò ad aprire la porta.

Uno scampanellio diede loro il benvenuto. L’uomo si fece da parte, concedendo a Sophya la precedenza, poi afferrò la maniglia e richiuse la porta dietro di sé.

Il calore dell’ambiente e l’odore di caramello e cacao avvolsero Sophya. La donna, in attesa, le si lanciò contro attirandola in un abbraccio prepotente.

«Oh ben venuta, cara» disse, stringendola forte e senza alcuna intenzione di mollarla.

Sophya premette le mani contro il petto della donna, per cercare di allentare un po’ la presa, e tirò indietro il capo per mettere più distanza possibile fra loro.

«Via, Margherita, non vorrai strizzarla come con i panni bagnati? Non vedi che la metti a disagio?» disse Carlo, passando a lato e dirigendosi verso il bancone.

«Zitto tu!» rispose bruscamente Margherita, poi schiuse l’abbraccio ma afferrò Sophya per le spalle. «Ti va una bella cioccolata calda, tesoro?». Il volto della donna era illuminato come una lampadina a incandescenza. Fissava Sophya come se non avesse mai visto una ragazzina in vita sua. Di più… come se avesse tra le mani un vecchio forziere pieno di ori e gioielli.

Sophya, contenta di essersi liberata dall’abbraccio, spinse lo sguardo verso l’uscio. Forse aveva azzardato a entrare. Quella donna era più strana di quanto avesse temuto. La cioccolata e il calore dell’ambiente l’attiravano molto, certo, ma le persone sono strane, l’aveva imparato bene, e in quel momento, quei due, non le stavano più dando una buona sensazione.

La donna se ne rese conto e mollò le spalle di Sophya. Si passò le mani sul grembiule, più volte, come per pulirsele, e abbassò gli occhi timidamente.

«Scusa i miei modi, tesoro. Devo essere stata un po’ brusca… chissà che brutta impressione che ti ho fatto…?» disse. Poi si tirò su e indicò una sedia.

«Vieni, siediti. Non hai nulla da temere, te lo prometto».

Il negozio era un misto tra una caffetteria molto elegante e una pasticceria ricercata. Una parte del bancone era dedicata a chi voleva semplicemente bere un caffè, l’altra esponeva dolciumi e pasticcini di vario tipo. Nella sala, di fronte al bancone, lo spazio era limitato da due soli tavoli e quattro sedie. Dai tavoli si poteva guardare fuori. In strada stava già nevicando.

Sophya si lisciò il cappotto liso, poi gettò un’altra occhiata verso l’uscio, quindi alzò lo sguardo sul volto di Margherita. Adesso, la donna, aveva un’aria dimessa, trattenuta, ed era tornata a stropicciare l’orlo del grembiule. Dietro il bancone, Carlo, stava armeggiando con una tazza. Sembrava aver dato per scontato che si sarebbe fermata. Non gli era nemmeno passata per la testa la possibilità che lei avrebbe potuto tranquillamente voltarsi e fuggire via. Forse avrebbe dovuto farlo… L’odore della cioccolata calda giunse proprio in quel momento. Lo stomaco brontolò due volte di seguito.

«D’accordo,» disse Sophya, «ma niente più abbracci, per favore».

«Te lo prometto» si affrettò a rispondere la donna, poi mollò il grembiule e si premurò di tirare indietro la sedia per invitarla a sedersi.

Dalla strada chiunque avrebbe potuto gettare un occhio verso l’interno, pensò Sophya. Se la donna avesse avuto cattive intenzioni, o fatto qualcosa che non le andava, lei avrebbe urlato così forte da attirare sicuramente qualche sguardo.

Si avviò quindi verso la sedia, adagiò la borsa a terra e si sedette. La donna spinse la sedia in avanti, per accompagnare la seduta di Sophya, poi si precipitò a occupare il posto di fronte. Stette lì, a fissarla con voracità, senza perdersi un solo movimento o un’espressione del suo volto.

Sophya si limitò a guardare dritto davanti a sé, cercando di dare poca importanza alla cosa. Era fastidioso, certo, ma innocuo dopotutto. Almeno, lo sperava. Un dubbio le sorse improvviso. Carlo e Margherita erano una coppia sposata, così aveva detto l’uomo. E ormai avevano già una cinquantina d’anni… azzardò un pensiero: forse non avevano figli. Avrebbe spiegato la tensione della donna.

«Ecco qui una bella tazza di cioccolata fumante,» disse Carlo posando la tazza davanti a Sophya, «aspetta un attimo a berla, ti bruceresti la lingua».

Sophya fece un cenno d’assenso con il capo e sorrise all’uomo. Carlo le piaceva. Aveva un modo dimesso, ma pratico. Non era invadente e si era dimostrato gentile. La donna, invece, continuava ad apparirle strana.

«Ti va una fetta di torta, tesoro?» chiese Margherita allargando il sorriso fino a esporre la dentatura. «La migliore torta di mele che potrai assaggiare qui in città». Lo disse come se stesse cercando di vendergliela.

«Sì, grazie» rispose Sophya, poi si sporse in avanti e soffiò sulla cioccolata. Questo le diede la scusa per ignorare la donna e prevenire altre domande.

Margherita si alzò e si diresse verso il bancone. Poco dopo tornò con in mano un piattino e una forchetta. Mise la fetta di torta davanti a Sophya e tornò a occupare il posto di prima.

Sophya stava già sorseggiando la cioccolata. La lingua era ustionata, ma lo stomaco ringraziava con borbottii compiaciuti. Mise giù la tazza, spingendola a lato, e spostò l’attenzione sulla torta. Afferrò la forchetta alzando contemporaneamente gli occhi su Margherita. La donna aveva un sorriso tirato. Poi spostò lo sguardo verso Carlo. L’uomo stava pulendo con uno straccio il bancone. Premette quindi la forchetta sulla torta e ne raccolse un boccone. Se lo portò alla bocca e questo le restituì una sensazione di soffice delicatezza come mai aveva provato. Era davvero buona. La donna non aveva affatto mentito, la migliore torta di mele che avesse mai assaggiato. Ne prese un altro pezzo.

«Posso farti qualche domanda mentre mangi, tesoro?» chiese la donna con un tono cauto, abbandonando finalmente il burrascoso temperamento.

Sophya non risposte, si limitò a fare sì con la testa tra un boccone e l’altro.

«Per prima cosa… ce l’hai un nome? Io mi chiamo Margherita».

«Lo so,» rispose Sophya, con la bocca piena, «me l’ha già detto suo marito, prima. Io mi chiamo Sophya. Sophya con l’h».

«Sophya, che splendido nome. E quanti anni hai, Sophya? Più o meno dieci direi… giusto?».

Sophya scosse la testa, poi prese la tazza e bevve un sorso di cioccolata. «Ne ho dodici,» disse posando la tazza e sospirando per riprendere fiato.

«Mangia pure con calma, tesoro, noi non abbiamo fretta e… nemmeno tu, credo. Dico bene? Ti aspetta qualcuno?».

Sophya si bloccò con la forchetta a mezz’aria e guardò Margherita. Il grosso seno poggiava sul tavolino, dando probabilmente alla schiena della donna un po’ di ristoro. Il volto, ampio, era ancora sorridente, ma il sorriso non si estendeva allo sguardo, che invece indagava il suo volto.

Carlo passò loro a fianco, con un’asta metallica in mano, ma non si fermò. Aprì invece la porta, uscì fuori e con l’uncino afferrò la serranda. Poi, con un colpo secco di reni, la tirò giù. La serranda corse sugli alloggiamenti e impattò forte contro il suolo. Quindi, con lo stesso metodo, afferrò la serranda dell’entrata e tirò giù pure quella, ma solo fino a mezza altezza. Piegandosi in avanti, rientrò nel negozio e chiuse la porta alle proprie spalle, dando un giro di chiave.

«Sai, ti abbiamo osservata,» le stava dicendo nel frattempo la donna. «Non solo oggi, ma da giorni. Sei una vagabonda, vero? Da dove sei fuggita? Da un orfanotrofio?».

Lo stomaco di Sophya si contrasse. Una fitta la colse impreparata. Non erano i morsi della fame, quelli li conosceva bene, era qualcosa di diverso.

«Da quanti giorni sei fuggita, tesoro?».

Sophya guardò il piatto vuoto e lo vide sdoppiarsi.

«Oh no, no tesoro. Non la torta. È la cioccolata che ti ha fatto mio marito. Non inquinerei mai la torta di mele per cui sono tanto famosa».

«Cosa…?» tentò di dire Sophya, ma le parole le morirono in gola e i sensi le vennero meno.

Carlo, dietro di lei, l’afferrò al volo. Poi, con delicatezza, l’adagiò a terra.

«Chiama la zingara!» ordinò la donna. «Questa ce la facciamo pagare a peso d’oro. Mai visti occhi così verdi e un visino da angelo come il suo. Sembra perfino più giovane di quella che è…».

L’uomo si limitò a un cenno di inchino e si allontanò dirigendosi verso il retro.

Il donnone si tirò su e si avvicinò alla ragazzina. Le prese fra le mani il viso e verificò che stesse realmente dormendo. Quindi, con calma, iniziò a spogliarla.

«Buonasera signorina, serata piuttosto fredda, non trova?» salutò l’uomo con gentilezza, battendosi le mani sulle spalle per scaldarsi.

Sophya strizzò gli occhi e scosse la testa, poi alzò lo sguardo sul volto dell’uomo.

L’uomo era leggermente chinato in avanti, per portare il proprio sguardo più vicino alla sua altezza, e la stava osservando con un’espressione incuriosita e timorosa allo stesso tempo.

«Tutto bene?» chiese l’uomo.

Attorno alla panchina i lampioni erano già tutti accesi e le persone stavano uscendo dai negozi per incamminarsi verso casa, ma sembrava meno tardi di quanto ricordasse. I fiocchi di neve scendevano disordinatamente, ma non aveva ancora iniziato a nevicare sul serio.

«Ti chiami Carlo?» chiese Sophya, dopo un attimo di esitazione.

L’uomo tirò indietro la testa. Lo fece istintivamente, come a voler evitare un buffetto sul viso. Gli occhi si spalancarono e, attraverso le lenti, espressero una domanda che, però, non trovò la via della bocca.

«Sì…» si limitò invece a rispondere.

Prima che potesse aggiungere altro, Sophya lo incalzò chiedendogli: «La donna dietro la vetrina è tua moglie? Si chiama Margherita?».

L’uomo si raddrizzò completamente e fece un passo indietro. La fronte era tagliata in due da una ruga d’espressione profonda quanto il Grand Canyon. Gli occhi non battevano ciglia, ma fissavano Sophya come se stessero osservando una specie d’insetto mai vista, ma particolarmente ributtante.

«Come fai…?» fu l’unica cosa che l’uomo riuscì a dire.

Sophya spostò lo sguardo verso la vetrina. La donna era lì e li stava fissando preoccupata. In mano teneva un bordo del grembiule, che strizzava ossessivamente. Quindi riportò lo sguardo sull’uomo.

«Grazie, ma non voglio la vostra cioccolata» disse con rabbia. «E non voglio essere venduta a nessuna zingara!».

A quelle parole l’uomo arretrò ancora, senza tuttavia riuscire a distoglie lo sguardo da Sophya.

Sophya si alzò in piedi, raccolse la borsa lisa e si mise a correre. Dall’alto, un fiocco di neve, planando con leggerezza, si adagiò esattamente nel punto in cui lei, fino a qualche attimo prima, era stata seduta.

Fine

13 Comments on “Sophya”

  1. Ciao Salvatore,
    L’ho letto tutto d’un fiato. Complimenti per Sophya.
    Lo stile di questo racconto mi sembra molto maturo. Le alternanze tra i personaggi, l’espressione dei gesti, le descrizioni. Forse occorreva un po’ più di intensità, soffermarsi sui dettagli che rivelano lo stato d’animo del personaggio. La poesia dell’esperienza comune, come la chiamo io. Ma è un mio gusto personale.
    Molto bravo, in un racconto del genere, è il rimando del gesto: la battuta delle mani sulle spalle per scaldarsi. L’hai fatto bene, perché mostri un gesto evidente, che colpisce alla prima lettura. E appena lo riproponi nel rimando, il lettore lo coglie immediatamente e rimane spiazzato.

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    • Ciao Marco, grazie. Sei molto gentile ad aver speso del tempo per leggerlo, in genere i racconti non riscuotono molto interesse. Sono contento che ti sia piaciuto e colgo al volo il tuo suggerimento. Proverò a metterlo in pratica al prossimo racconto. 😉

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  2. Come aver speso il tempo per leggerlo?
    Me lo hai proposto gratis, in genere le storie che leggo le devo pagare.
    😉
    A parte gli scherzi.
    Bel racconto.

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  3. Bello! Molto natalizio. Ovviamente appena ho letto dell’uomo che si avvicinava ho cominciato a temere per Sophia, conoscendoti sapevo che l’avresti messa in pericolo! 🙂
    Personalmente preferisco i finali spiegati, quindi mi sarebbe piaciuto sapere perché lei ha la visione (se è una visione), e farei morire la coppia di farabutti tra lacrime e stenti (molto natalizio, no?)
    A parte gli scherzi, è una bella idea raccontata bene. Bravo!

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    • Grazie Lisa, sei la mia lettrice preferita. 😉
      Condivido anche il tuo disappunto, ma poi mi sono detto: è Natale…!
      Una sorta di spiegazione c’è, in verità. Sta tutto nel fiocco di neve… è l’idea più natalizia che mi sia venuta. 😛

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  4. Pingback: Lettura & scrittura, bilancio 2014 | Salvatore Anfuso

  5. Mi è piaciuto, un po’ surreale ma mi sembra molto buono, anche come stile. Si fa leggere bene e c’è anche suspense. Anche io avrei preferito qualche spiegazione come Lisa, anche perché non c’è nulla che lasci presagire una visione. Però se fosse stata molto chiara, avrebbe tolto parecchio alla storia.

    Ti faccio due osservazioni:
    1: angoletto carino. Carino in questo caso è soggettivo, quindi è preferibile secondo me usare altri aggettivi, come pittoresco, per esempio.
    2: C’è qualche virgola di troppo, specialmente dopo i soggetti seguiti dal verbo 🙂

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    • Grazie, caro. 😉
      Prendo nota delle osservazioni. Per quanto riguarda la spiegazione, sta tutta nel fiocco di neve; quello che gli si posa sulla lingua e che poi viene richiamato nella frase finale. Non è una vera spiegazione, solo un suggerimento per il lettore. Mi piace lasciare spazio alla fantasia e all’interpretazione di chi legge. Però, se si sente il bisogno di una spiegazione, allora forse ne ho lasciato un po’ troppo di spazio.

      P.S. questo racconto non si è avvalso del munifico intervento delle lettrici cavia. Forse con loro ci sarebbero state meno virgole. 🙂

      P.S. 2 sono sempre alla ricerca di un correttore di bozze. 😛

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    • Sappi che è la prima e l’ultima volta. Dal prossimo, come nelle migliori storie, muoiono tutti. Forse… Almeno non c’è quella tensione per il finale, conoscendolo già. 😉

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  6. Ciao Salvatore,

    anche a me questo racconto è piaciuto molto. L’ho seguito con grande interesse e, a dire il vero, anche un pizzico di preoccupazione considerando i tuoi finali! 😉

    Fra tutti quelli che ho letto è quello che ho apprezzato maggiormente. Ha un sapore quasi Dickensiano!

    Se posso permettermi, in sede di revisione dovresti prestare un po’ più attenzione al punto di vista. Fin dall’inizio parrebbe una terza persona limitata, ma in tal caso una dodicenne orfana avrebbe difficoltà con il termine “eburneo”.
    Credevo ci fosse un errore, dal momento che la terza limitata non ti consentirebbe di raccontare ciò che succede mentre Sophya dorme. Tuttavia, poi ho capito che si tratta di una visione, dunque okay: quando si vivono esperienze di questo tipo, le cose vengono osservate dallo sguardo di un testimone esterno.

    Sono d’accordo con Daniele per quel che riguarda l’uso delle virgole. Già te lo dissi con il primo racconto che ti ho mandato. Solo un dubbio: si dice acciottolato o ciottolato? Può darsi che mi sbagli io!

    A presto e buon anno!

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    • Si può dire in entrambi i modi, ma “in acciottolato” suona meglio. Parer mio, certo. Inoltre non ho mai sentito dire: “in ciottolato”.
      Io il termine “eburneo” a dodici anni lo utilizzavo, ma capisco cosa intendi dire… penso che lo sostituirò con: “pallido”. 😉
      Alla fine, comunque, il punto di vista è giusto?
      Sulle virgole, mi fai un paio di esempi via mail? Quando hai tempo. Quali sono quelle che ti fanno storcere il naso?
      Sono contento che ti sia piaciuto, anche se credo che Dickens, in questo momento, si stia rivoltando nella tomba.
      Buon anno anche a te! Ormai ci siamo… 🙂

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      • Certo, ti scrivo appena posso!
        In questi giorni sono un po’ presa perché ho ancora ospite la mia cognatina, ma le giornate dal 2 al 6 gennaio saranno interamente dedicate alla scrittura, senza esclusione di colpi. è il motivo per cui ho rinunciato a seguire Beppe a Milano. Quindi ti scriverò, non solo a proposito di questo, ma anche per “quell’altra cosa” …
        Grazie per il chiarimento su “ciottolato”. è vero: nel tuo caso suona meglio acciottolato, e sono lieta di aver appreso una parola nuova! 😀
        Sì, il pdv è corretto!
        Buon anno!

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