Come progettare un’ambientazione


Ambientazione

…quando plausibile non è il realismo

Torno sull’argomento ambientazione, anche se l’avevo già introdotto quando ho parlato dei cliché in narrativa, perché per me è tutt’altro che esaurito. Personalmente non ho mai dato troppa importanza all’ambientazione. I miei racconti non sono ambientati da nessuna parte ad esempio. Non solo, ma sono scritti in modo tale che potrebbero essere presi e ficcati a forza un po’ ovunque nel mondo. In un mondo occidentale, certo. Ecco forse questo, a cui mai si pensa, è il primo vero spartiacque.

Il timbro culturale

Siamo occidentali, ragioniamo da occidentali. Potrei dire di più: siamo europei e ragioniamo da europei. Per quanto il nostro animo artistico, nonché la migliore tradizione culturale europea, ci vorrebbe individui fuori dagli schemi, continuiamo a ragionare attraverso canoni e influenze squisitamente occidentali. Di questo me ne rendo conto mentre progetto l’ambientazione americana del mio romanzo.

Tutti quanti mi hanno così tanto sconsigliato di ambientare un romanzo in America, con alcune ragioni devo dire, che ho fatto le cose con meticolosità; o almeno c’ho provato. Eppure non ho riscontrato grandi difficoltà. Dovrei precisare che parlo degli Stati Uniti, infatti dire America non è centrato a meno ché non si intenda tutto il continente. La domanda che sorge spontanea è: benché non ci sia mai stato, conosco meglio gli USA di casa mia?

In un certo senso è così, ma allo stesso tempo le informazioni che ho nel DNA sugli Stati Uniti sono filtrate dalla lente europea. In questo corre in mio aiuto Beppe Severgnini con il suo Un italiano in America, in cui dice:

“[…] il bombardamento di «notizie americane» sull’Europa funziona come un riflettore puntato sugli occhi: la luce è molta, ma si vede poco. L’America normale – quella che si incontra uscendo dagli aeroporti – è uno dei segreti meglio custoditi del mondo.”

Come dire: ne sappiamo molto, ma è tutto edulcorato.

Il sospetto ce l’avevo da sempre. La conferma rende tutto talmente palese da non rappresentare neanche una sfida. L’America vera è diversa da ciò che si vede nei film e nei telefilm americani, motivo per cui escludo a priori l’uso di questi mezzi.

Tuttavia resta un sapore ben preciso nella mia bocca: Gli Stati Uniti, levato il velo Hollywoodiano, con tutte le eccezioni del caso, somigliano tanto all’Europa; una somiglianza non gemellare però. Nel senso che è un po’ come guardarsi allo specchio: se ti ricordi che ciò che vedi è alla rovescia, allora sei sulla buona strada.

Strumenti utilizzati ed esclusi

Tornando al vivo della questione, prima di procedere con l’ambientazione devo decidere quali strumenti utilizzare e quali escludere. Perché ne escludo qualcuno? Perché è fuorviante. Vale a dire che il suo utilizzo, anziché avvicinarmi a conoscere l’America che mi interessa, mi allontana da essa. Lo vediamo tra poco.

Tra gli esclusi:

I primi strumenti conoscitivi o di indagine che decido di escludere sono i film e i telefilm. Ne ho visti così tanti che non avrei neanche bisogno di consultarli. Tuttavia l’America che filtra attraverso questi mezzi è, come dicevo, un America edulcorata – di cui mi importa poco. Utilizzarli anzi sarebbe contro producente, rischiando di sfuocare la mia lente.

Decido di escludere anche Google map. Ne aveva parlato qualcuno (non ricordo chi, scusate) in un post, ma prima di prendere questa decisione ho voluto fare una prova. Ho aperto Google map sopra il luogo di mio interesse e mi sono guardato attorno. Ora, se volessi scrivere un libro geografico questo strumento potrebbe anche tornare utile, benché le informazioni così rilevate non potrebbero mai essere minimamente bastevoli. Nel mio caso, invece, noto che il suo utilizzo mi crea più confusione che altro. Il rischio è di diventare eccessivamente tecnici, con la descrizione di vie e incroci, per compensare la mancanza di non esserci stati mai veramente.

Quello che voglio dire è che probabilmente dovrei consultare Google map anche per ambientare una storia a Torino, città in cui sono nato e vivo, perché le vie a memoria, tranne quelle principale o che frequento di più, non le ricordo. Nonostante questo non cadrei nello stesso rischio, perché vivendoci ne assaporo le sensazioni ogni volta che metto il mio naso fuori dalla porta.

Un’altro strumento che decido di escludere è la narrativa di viaggio. Anche in questo caso trovo il mezzo fuorviante. Le informazioni che potrei ricevere attraverso la narrativa di viaggio sono filtrate dalla lente dello scrittore – vai a fidarti degli scrittori – e non potrebbero mai essere esaustive.

Tra gli utilizzati:

Gli strumenti che invece decido di utilizzare sono: internet (in che modo lo vedremo tra un attimo), la narrativa non di viaggio, enciclopedie o strumenti informativi di questo genere, mappe cartacee (ma anche elettroniche), la mia fantasia.

Per quanto riguarda internet, con l’esclusione di Google map, le informazioni a disposizione sono molte e vanno filtrate. Mi concentro principalmente sui blog. Ne ho trovato uno di una famiglia italiana (mamma, papà e figlio piccolo) che si è trasferita negli Stati Uniti un paio di anni fa. Vale a dire: non troppo da rendere banale ciò che invece per me è importante, ma neanche troppo poco da rendere eccessivamente palese ciò che non merita troppa attenzione. Inoltre questa famigliola si è trasferita proprio nel luogo in cui sto ambientando il romanzo. Potrei quasi usarne la via. Una fortuna?

Oltre i blog, utilizzo molto youtube – anche se la lingua mi è un po’ di ostacolo – attraverso il quale posso farmi un giro in macchina o a piedi per le strade della città che mi interessa; senza però dare troppa importanza alle vie, ma solo alle zone e alla sensazione che queste mi trasmettono. Poi ci sono un sacco di youtuber (come si fanno chiamare) che muoiono dalla voglia di dire la loro su qualsiasi argomento. La loro attendibilità è simile a quella dei blogger, vale a dire: da prendere con le molle (verificare sempre), ma allo stesso tempo molto realistica.

Mi sono reso conto che ciò che conta di più non sono le informazioni in sé né la loro esattezza, ma le sfumature con cui vengono filtrate. Il realismo sta proprio lì, in ciò che loro, gli americani, danno per scontato.

Infine, sempre attraverso internet, posso accedere a un sacco di informazioni burocratiche, molto utili non tanto per descrivere un posto, quanto per non cadere in errori palesi e banali.

Per quanto riguarda i romanzi (non di viaggio), anche questi vanno presi con le molle, ma molto meno. C’è una sorta di affinità fra scrittori. Se sai che il novanta percento di quello che viene narrato è una finzione, cioè un’invenzione narrativa, hai molti meno problemi a filtrare. Anche in questo caso la cosa che conta di più sono le sfumature. Per quanto riguarda la narrativa, i libri che ho deciso di utilizzare sono quelli di Edward Bunker: Come una bestia feroce e Cane mangia cane hanno il vantaggio di essere ambientati in luoghi molto vicini a quello di mio interesse e, benché non si tratti di veri e propri thriller, hanno anche una certa affinità con gli argomenti da me trattati.

Per quanto riguarda le informazioni con la I maiuscola, le enciclopedie tecniche e libri come quello di Beppe Severgnini mi sono di grande aiuto. Anche in questo caso non mi servono per descrivere, quanto invece per non cadere in errori. Ad esempio, sapete come si chiama l’azienda che gestisce il traffico telefonico degli Stati Uniti? Io sì.

Perché le mappe cartacee sono meglio di Google map? Perché svolgono solo il loro lavoro senza altre pretese. Quando consulto Google map, ad esempio, mi sembra di ritrovarmi per le mani uno smartphone, vale a dire: uno strumento in grado di fare qualunque cosa quando in realtà hai solo bisogno di telefonare. Ecco, per le mappe è la stessa cosa. Per evitare inutili distrazioni, fuorvianti, le mappe cartacee hanno il grande vantaggio di dirti semplicemente: cosa si trova dove. Vi pare poco?

Tra creatività e realismo

Qui bisogna aprire una grossa parentesi. Io scrivo narrativa. Scrivendo narrativa devo decidere il grado di realismo delle mie storie. Non è una cosa così scontata, perché la narrativa è un po’ invenzione e un po’ realismo. Anche nel fantasy, ad esempio, genere volutamente staccato dalla realtà che viviamo, troviamo un certo grado di realismo. Poco, certo, ma c’è. Un esempio?

Nel libro Il signore degli anelli troviamo molti riferimenti all’amicizia e al coraggio. Ora se l’autore volesse ambientare un romanzo in un luogo completamente inventato, come fa Tolkien, allora dovrebbe anche prendersi la briga di decidere come funziona l’amicizia e il coraggio in quel luogo. Perché in un mondo alieno queste cose dovrebbero funzionare come da noi, nella realtà? Non ha molto senso. L’evoluzione culturale ci ha portato a maturare il nostro attuale senso delle cose. In un mondo diverso, un’evoluzione diversa potrebbe portare su altre strade.

Questo però Tolkien non lo fa. A lui importa descrivere noi, la realtà, benché in maniera allegorica con l’uso della fantasy. Quindi, andando all’argomento centrale, anche nel suo libro troviamo un certo grado di realismo. Ora, che grado di realismo serve a me?

Altra parentesi. La risposta alla domanda è: dipende. Dipende dal tipo di romanzo. Se scrivessi un thriller medico, cioè una di quelle storie dove la conoscenza della medicina, dell’anatomia e di tutti gli argomenti a esso affini, sono centrali, allora la finzione narrativa sarebbe limitata alla sola scusa con cui si da il via alla storia. Il resto invece dev’essere molto aderente alla realtà.

“Tanto più una storia fa uso di informazioni tecniche, tanto più la sua aderenza con la realtà deve essere concreta.”

Il mio romanzo però, non fa uso di informazioni così tecniche. Anzi, in un certo senso è anch’esso un’allegoria. Un po’ come i film di Quentin Tarantino. Quindi il mio grado di realismo deve aderire alla realtà solo quanto basta, visto che è ambientato nel nostro mondo e non in un altro, ma senza eccedere. Lasciando anzi, un certo grado di “manovrabilità” alla fantasia.

Decido quindi di utilizzare lo strumento più importante che possiedo: la mia fantasia. Quello che voglio fare non è tanto descrivere l’America com’è, questo lo potrebbe fare chiunque (meglio ancora un americano, giustamente), ma l’America come l’immagino io. Il valore del mio libro, ammesso che ne abbia uno, corre lungo questo filo.

Realismo o plausibilità

Questo è l’ultimo argomento, giuro, poi vi lascio in pace: quanto dev’essere credibile un romanzo di narrativa? Per credibilità intendiamo spesso l’attinenza alla realtà o alle informazioni reali. Non è così, non in narrativa. La credibilità in narrativa significa, secondo me, scrivere qualcosa che, magari non è attinente con la realtà delle cose, ma comunque plausibile.

Mi spiego meglio: lo scopo della narrativa non è quello di descrivere le cose così come sono, ma di fare arrivare al lettore un messaggio attraverso una storia. Se il messaggio fosse: parliamo della geografia americana; allora non scriveremmo narrativa. Se il messaggio è, ad esempio, la “corruzione dell’uomo”, allora la narrativa è lo strumento che dobbiamo utilizzare.

Per far filtrare il messaggio, per fare in modo che il lettore lo viva anziché semplicemente leggerlo, dobbiamo fare ricorso a una storia. Questa storia dev’essere aderente alla realtà solo quanto basta. Il resto lo fa la fantasia. Ciò che conta è che quello che si sta raccontato sia plausibile, cioè ragionevole.

Domandina di fine post

Non è una scusa per spingervi a commentare, ma una richiesta di aiuto vera e propria: avete altri strumenti o suggerimenti da darmi per creare un’ambientazione? Qualcosa vi ha fatto storcere il naso? Pensate che un romanzo debba essere più realistico che plausibile? Ditemi cosa o perché. Questa potrebbe essere la vostra ultima occasione di aiutarmi prima che chiuda il fascicolo sull’ambientazione e apra quello sulla contestualizzazione.

16 Comments on “Come progettare un’ambientazione”

  1. Premettendo che io non amo l’ambientazione statunitense, credo che alla base di qualunque scelta debba esserci una domanda fondamentale: perché proprio qui? è un principio che vale sia per le ambientazioni “macro”, sia per l’ambientazione della singola scena.
    Ad esempio, io ho scelto Milano come sede della mia storia in quanto è una città dispersiva ed alienante, caratterizzata da relazione umane di un certo tipo. è piena di luoghi e di non-luoghi attraverso i quali è possibile far arrivare al lettore un determinato messaggio. Non sarebbe stata la stessa cosa, se avessi ambientato la storia, ad esempio, a Sanremo. E l’ultima scena che ho scritto (con il personaggio seduto sul davanzale della finestra in un quartiere di case popolari alla periferia di Milano) ne è l’emblema: se avessi collocato Nico su un balcone in riva al mare, non sarebbe stata la stessa cosa. Dunque, il criterio base per scegliere un’ambientazione è la sua FUNZIONALITA’: cosa vogliamo trasmettere al lettore? Una volta trovata la risposta, diventa facilissimo comprendere come procedere.

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    • Sono perfettamente d’accordo. Infatti appena ho deciso di cosa volevo parlare, con la storia già in tasca ben inteso, la scelta dell’ambientazione è stata una conseguenza assolutamente naturale. 🙂

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  2. In parte ti do ragione sui mezzi che escludi, ma di mio sceglierei di usare un po’ tutto, in modo che un mezzo compensi l’altro.
    Voto, come te, per la plausibilità piuttosto che per il realismo. Il realismo in una storia, per me come lettrice, significa meno di niente! E’ di esseri umani che si parla, perciò il problema si pone davvero quando si cambia completamente cultura. Allora sì, le persone ci diventano incomprensibili, anche se crediamo il contrario. Anche nel fantasy c’è bisogno di una base umana comune perché il lettore possa legarsi al protagonista e vivere un’esperienza intensa. Se scriviamo un fantasy di elfi che mangiano i figli e considerano un dovere dimenticare le amicizie, potremo anche creare un mondo plausibile in sé, ma l’empatia dove va a finire?

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    • Sono d’accordo, l’empatia è essenziale; però ricordo di aver letto molti libri di R.A Salvatore (se non ricordo male) sugli elfi scuri nel sottosuolo: una società alienante, matriarcale, con una predominanza per il calcolo, il profitto personale e l’omicidio, eppure l’empatia si creava comunque. Forse sono anch’esse, almeno in parte, caratteristiche umane… 😛

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      • Anche questo è vero. Forse sono i meccanismi inventati in modo arbitrario a dare un senso di estraneità, come se nella storia inserissi l’uso di rispondere all’omicidio con un regalo. O fai il flop del secolo, o spacchi! 🙂

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  3. Parlando di mere ambientazioni,
    più che Google Maps, forse può essere d’aiuto Google Street View, che in realtà fornisce anche scorci di vita abbastanza interessanti dei luoghi e delle strade che visiti, riconducibili ad un’ambientazione plausibile. Ulteriori lacune derivanti dalla “non conoscenza” dei luoghi, potrebbero essere colmate con l’aiuto di reportage sulla città (che siano blog, video, tv o di qualsiasi altro tipo). Tutta altra storia, invece se si dovesse parlare di timbri culturali… all’inizio parli di europei, personalmente mi limiterei all’Italia o addirittura alla regione, se non alle province, in quanto il nostro Paese è davvero molto variegato per quanto riguarda le tradizioni culturali.

    In realtà non credo sia necessario ricreare le ambientazioni in maniera maniacale (a meno che non stiamo parlando di un libro storico o di un libro di viaggi), secondo me è importante proporre ambientazioni credibili: certo se, in una non-fiction dico che a Milano c’è l’alta marea, è impossibile risultare credibili…

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    • Ciao Carlo, ambientazioni credibili. Esattamente è questo il punto che volevo sottolineare. Ma tra ambientazioni credibili (quindi escludiamo pure il mare a Milano) e ambientazioni corrette (con la maniacalità di un ossessivo compulsivo) quale prevarrebbe nel tuo gusto da lettore? Riformulo: preferisci leggere storie con ambientazioni riprodotte correttamente, con tanto di metro in mano, o piuttosto ambientazioni credibili pur ampiamente inventate e riadattate alla storia?

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      • Per quanto mi riguarda,
        in primis a rapirmi è la storia. Se poi le ambientazioni (che magari tra l’altro non conosco) non sono perfettamente riprodotte, come lettore ma anche come scrittore, non mi pongo alcun problema. Meglio leggere una storia originale e accattivante ambientata in un contesto anonimo, che la solita storia banale e stereotipata, pur se arricchita da decine e decine di pagine di descrizioni ambientali super accurate…my 2 cents.

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  4. Se la lingua non è un grosso ostacolo, potresti anche provare a contattare qualcuno del luogo con le chat o facebook, per avere qualche dettaglio in più. Per il resto è vero che quando si legge non si bada certo alla precisione delle descrizioni, conta molto di più quanto sai trascinare chi legge dentro la storia. Per come la vedo, io la difficoltà di certe ambientazioni lontane sta più che altro nel lato sociale. Per esempio come romana io posso conoscere Milano tramite gli strumenti che hai citato, ma come so cosa fanno i ragazzi la sera in una certa via? Che abitudini ha la gente? Che “atmosfera” si respira? Questo tipo di informazioni posso conoscerle andando di persona o parlando con chi ci vive. Comunque mi sembri ben motivato! 🙂

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    • Ricordati la nostra piccola sfida… 😉
      Vero e grazie per il suggerimento. Per quanto riguarda l’aspetto sociale, come dici tu, è davvero necessario che sia realistico o basta anche solo che sia plausibile? Nel senso che forse non importa molto che abitudini abbiano i milanesi, le puoi tranquillamente adattare alle tue esigenze, tenendo presente però che al lettore devono comunque “suonare” ragionevoli.

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  5. Io cerco sempre di considerare l’ambientazione come un coprotagonista della storia, quindi cerco il più possibile di ambientare storie in luoghi che conosco di persona molto bene… Però… Però… Però poi ambiento storie nel passato e lì non ci posso andare… Credo che alla fine valga comunque la regola di conoscere un’ambientazione, sia essa reale, immaginaria, visitata oppure no, così bene da potercisi muovere a occhi chiusi.
    E ricordo ancora la regola della sfiga: sta sicuro che nel tuo scritto inciamperà un esperto proprio di quell’ambientazione (a me succede SEMPRE)

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